Ernst Jünger amò scrivere sulla guerra in tempo di pace e sulla pace in tempo di guerra. Attitudine emblematica, che già di per sé simboleggia una ricerca di dimensioni sempre altre, un passo al di là del presente. Tra Nelle tempeste d’acciaio, scritto nel 1920, e La pace, compilato a Parigi nel periodo dell’occupazione tedesca, corrono anni non da poco. Il giovane “guerriero” che vive l’estasi dell’orgia metallica si muta nel riflessivo analista dei destini universali e il suo sguardo si solleva dalla trincea verso gli spazi della politica mondiale. In una perlustrazione panoramica non frequente in un autore che scrisse poco di politica, rimanendo incline a rintracciare il grande e l’infinito nel piccolo e nel circoscritto, con sensibilità più di poeta che di diagnostico. L’”incisività figurativa”, come la definisce Manuela Alessio, dello Jünger narratore di guerra ne è solo una sequenza. È dunque proprio in questo incontro tra contraddizione e complessità, tra etica ed estetica, che si compie la personalità di una figura classica di testimone. Nello scrittore che con la sia vita ha varcato la soglia del secolo c’è tutto il Novecento vissuto con l’animo stupito e l’occhio penetrante dell’uomo che fa della cultura uno stile e della vita una costante esperienza, sia di tempo che di spazio, sia in profondità che in percezione d’impulsi.
Di nuovo un libro su Jünger, dunque? Diciamo subito che in Manuela Alessio torniamo ad apprezzare il pregio – facilitato dall’evidente dimestichezza con la materia – di saper affrontare in sintesi tematica e senza divagazioni gli snodi dell’opera di cui tratta, dandoci l’impressione di non voler semplicemente ripetere, ma ripercorrere, quella che è stata la molteplice ventura di Jünger, il suo caratteristico intreccio tra pensato e vissuto. Un uomo che è stato un tipo di uomo, in grado di attraversare la complessità epocale senza smarrire se stesso.
L’arco della narrazione della Alessio copre bene tutte quante le scene “esperienziali” in cui Jünger si è manifestato, in un percorso che in più tempi parve fondersi (ma parve soltanto: lo schierarsi in ambienti iper-ideologizzati del nazionalismo, ma minoritari e sostanzialmente defilati; la fronda antihitleriana, marginale e ancora una volta disimpegnata: per fare degli esempi) in un composto retrattile di virtù letteraria e annuncio ideologico, inquadratura d’esteta e volontarismo militante, anche radicale. Si è avuta, infatti, una stagione per così dire interventista in Jünger, e la si è avuta dal lato culturalmente più alto, non di semplice lettura politica del reale, ma di creazione plastica di nuovi soggetti. Prendiamo l’Arbeiter, questa celebre sfinge spesso equivocata, forse mai compiutamente liberata dalle pur lucenti catene dell’evocazione: esso è il figlio traumatizzato della trincea, ma prefigura la volontà di subornare la tecnica diventandone la testa pensante e attiva, in un combaciare di macchina e animalità che ci rivela in chiaro tutta l’ombra interiore dell’autore: ciò che, con espressione rivelatrice, ne La mobilitazione totale è chiamato “materia pura dell’emozione”, che non a caso “prorompe”. Jünger è essenzialmente poeta, e poeta romantico, quando canta l’eros metallico che come lava lo trascina all’osservazione: che sia di una battaglia, di un coleottero, di una pianticella o di mondi che sprofondano.
Non dobbiamo chiedere a Jünger ciò che egli non può dire. Possiamo però riascoltarne la parola come il cenno rammemorante che ci apre a noi stessi. Qui il lucido sognatore di Wilflingen ha molto da dirci.
L’operaio antiborghese senza classe, senza Stato, senza sentimento dell’unità, pare una silhouette dell’era globalizzata; e tuttavia, pur pensato settant’anni fa, ne sopravanza gli esiti distruttivi ricollocandosi oltre, e oltre la nostra stessa epoca, prefigurando luoghi in cui già allora i fondamenti umani rimanessero inviolati dal sopruso tecnocratico. Oltre lo Stato che omologa, c’è la comunità naturale” che protegge e integra le differenze. Oltre le costituzioni meccaniche, c’è l’Urmensch arcano che riguadagna se stesso nella lotta quotidiana. Oltre il pulviscolo massificato c’è l’anarca, che bandisce da sé la società del caos organizzato. È questo il rivelarsi della vera libertà, che è differente e plurale, tanto da riuscire a far convivere la minaccia uniformante della tecnica planetaria con le più riposte sfumature della molteplice realtà localizzata, le fonti di identità forte-fragile che sono i luoghi dell’origine: ciò che Jünger, ne La pace, richiama in qualità di “madri-patrie” e “paese d’origine”.
L’estinguersi dello Stato moderno – giunto fino ad oggi nella sua forma giacobina di assemblaggio forzoso in un tutto – apre pertanto la prospettiva di diverse soluzioni della convivenza, in questa che è un’attualissima prospettiva jüngeriana, prefigurando lo sprigionarsi dell’impensato, secondo quanto scrive la Alessio: “il graduale estinguersi della dimensione stessa della statualità […] fa venire alla luce una composizione plurale della realtà prima rimasta impensata, e quindi soggiogata ad una concezione astratta della libertà”. Jünger parlò di impero, e in questo non c’era davvero nulla di nuovo. Eppure è proprio tra queste osservazioni – presenti soprattutto nel ricordato La pace e in Lo Stato mondiale, del 1960 – che a nostro parere egli si valorizza istorialmente, laddove la figura letteraria del ribelle prometeico, archetipo di edificazione individuale, cede il passo a un’idea nuova-antica di potere, solido contraltare al disfacimento della politica mondiale e non mero utopismo mitico: il che dà luogo a un archetipo stavolta di edificazione sociale e politica. Il concetto guglielmino di Weltmacht si dilata dunque, nell’era globalizzatrice, in quello di Weltstaat, la geopolitica dei grandi spazi va a coincidere con l’intero spazio-pianeta, il vecchio Stato monocentrico implode e sorge l’impero mondiale, ma non necessariamente mondialista.
Jünger sembra credere ad alcune vie d’uscita possibili, tra cui la tenuta dei popoli, che giudica più forte di quella delle istituzioni, per poi tonificarci con immagini di speranza dinanzi alla dissoluzione, sia pure una speranza affidata alle abituali formule di rarefatto profetismo, tra le cui penombre, con abbandoni di poeta, vede lo Stato mondiale che “lascia intravedere altre immagini e altri concetti, e anche un nuovo diritto”. Lasciando ognuno libero di fantasticare secondo inclinazione sugli scenari futuri. Ma, anche nell’indistinto, come già con l’Arbeiter, Jünger ha il potere di fortificare lo sfumato. Su tutto aleggia una visuale che volge il politico nel filosofico e questo nella tentazione estetica, facendo infine anche di questa una necessaria utopia ma di miti veraci, che richiamano al reale: popoli più forti di Stati, la famiglia scrigno di Eros che combatte il morente mostro freddo agito dalla tecnica. Comunità che ama, società che odia.
Non possiamo non riconoscere, a proposito di questi svolgimenti jungeriani, che Manuela Alessio dispone dei mezzi sincretici giusti per sfrondare le stesse contraddizioni del pensatore tedesco. E dell’autrice segnaliamo anche certe originali osservazioni, anche semantiche, o alcuni accostamenti proposti, magari anche solo per cenni, fra Jünger e Kant o Bataille o Hermann Broch, che vanno a completare in modo certo non abituale i più familiari raffronti con Schmitt o Heidegger, di cui molti hanno più compiuta notizia. Chi conosce già Jünger troverà nel volumetto motivo di rinnovate riflessioni, dando per ormai assodati i cicli guerreschi, ribellisti, romanzeschi. C’è dopotutto uno Jünger dell’attualità, che ci indica valori proprio nel tracollo della politica e nel trionfo del rimescolamento nichilista. Se sotto lo strapotere dello Stato mondiale deviato sembrano crollare tutte le appartenenze – questo è forse il vero testamento politico di Jünger – non crolla la natura che vive nell’uomo. Se precipita lo Stato nella danza tecno-economicista, esca l’uomo dalla città e abbandoni quella pervertita polis da cui tutto proviene: ri-formi la sua umanità. Fuori dalla portata della manipolazione, lontano dai ricatti umanitaristici del termitaio, l’Anarchist dà una risposta che è a-politica ma non anti-politica.
L’impartecipazione è a-politica in relazione al degrado della modernità, ma non è in assoluto anti-politica, se Jünger insiste su una sorta di ritorno al bios, alle solidarietà primarie, così come, in gioventù, già aveva celebrato comunità liminali, tra le quali sovrana quella dell’esercito in tempo di guerra. In tempo di guerra, appunto, quando l’esercito è un sodalizio di uomini accomunati da un destino a massimo rischio, e non in tempo di pace, quando invece lo stesso esercito è una semplice istituzione dello Stato.
Batte in Jünger un po’ sempre, ma ancor più in quello tardo, un’attrazione per l’Altrove, tra cose che non tradiscano la sensibilità dell’avanzata del brutto moderno. Di qui l’occhio dello scrutatore, che sana nel dettaglio di vita il dissiparsi delle esperienze vissute nel grandeggiante secolo XX. Di qui il viaggio: sempre cercato come osservazione di simboli che leniscono. “Quel che importa non è vedere la soluzione, ma l’enigma”: in questa che è certo una fuga davanti all’”assalto tenebroso all’infinito”, Jünger sembra placare nel contemplatore il dolore del poeta-filosofo, ma anche quello del guerriero e dell’ideologo. Ma ci sono tracce di una volontà del ritrarsi che non è esattamente diserzione dalla macrostoria; frammenti di fedeltà al tellurico e al materno, quindi al Grund anìmico dell’uomo, che ci mostrano che la fuga di Jünger è in realtà il plotiniano ritorno alla immutabile patria del sé, alla maniera di un Hölderlin che si reimmerge nella Gemütlichkeit della casa propria e antica, riposo certo dopo le vaghezze del viaggio. Pensiamo ad esempio a quanto leggiamo in Al muro del tempo circa il Milite Ignoto, che non è tanto eroe quanto “figlio della terra”, emblema concreto di “impulsi originari”. Ciò che Jünger indica – e che la Alessio non manca di cogliere – è in fondo un elogio della vita spesa in naturalistica sovrabbondanza, col tono anti-utilitaristico dell’assaporare l’estremo nietzscheano con piena consapevolezza. Circondato dalla follia tecnicista, l’uomo jüngeriano può ancora ricorrere ad armi ben affilate sulla pietra d’anima, custodite dall’invisibile “comunità dei senza comunità”. Se dunque di fuga si tratta, al di sotto del soggettivismo impolitico di Jünger si legge una precisa volontà di ritorno.
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Tratto dal n. 249 di Diorama Letterario (gennaio-febbraio 2002).
Manuela Alessio, Tra guerra e pace. Ernst Jünger maestro del Novecento, Antonio Pellicani, Roma 2001, pagg. 150, lire 20.000.
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