SOMMARIO
1. – Premessa: il percorso della ricerca.
2. – L’impermanenza nella dottrina del Buddha e negli Stoici romani.
3. – Il rapporto desiderio-dolore nel Buddha e negli Stoici romani.
4. – Il distacco nel Buddha e negli Stoici romani.
5. – Affinità e differenze fra buddhismo e stoicismo.
1. Il mio interesse per lo stoicismo romano trae origine da un lungo percorso nella “cultura della Tradizione”, a partire dalla familiarità acquisita con le opere di J. Evola e, in particolare, coi suoi frequenti richiami alla dottrina degli Stoici, che si ritrovano nei suoi libri ed articoli, talvolta riferendosi alla dottrina dell’egemonikòn, talvolta a quella dell’apolitìa e del distacco aristocratico, da parte del saggio, nei confronti delle folle e dei loro appetiti.
E’ noto, inoltre – ed è un dato molto significativo perché riguarda la fase ultima, più matura, di questo pensatore – che Evola, negli ultimi tempi della sua vita, aveva il progetto di un libro sullo stoicismo che si proponeva di esaminare dal punto di vista “tradizionale”, progetto per il quale aveva raccolto il materiale delle fonti per sviluppare adeguatamente tale approfondimento.
Fu lo stesso Evola, inoltre, ad aprire l’orizzonte della spiritualità buddhista delle origini con la pubblicazione di uno dei libri più limpidi e profondi che egli abbia scritto, ossia La dottrina del risveglio, e fu sempre suo l’accostamento – che ritroviamo in vari suoi scritti – fra lo “spirito” dell’ascesi buddista e la dimensione interiore degli Stoici.
Le successive letture degli altri Maestri della cultura della Tradizione nel Novecento – da Steiner a Scaligero, da Eliade a Zolla – l’approfondimento diretto delle fonti dello stoicismo romano e dell’opera di Max Pohlenz sulla Stoa nel suo insieme, del Canone Buddhista e, poi, delle opere di commento di Pio Filippani Ronconi, l’incontro con i testi del Lama tibetano Namkai Norbu e con quelli dell’attuale Dalai Lama hanno integrato ed arricchito questo percorso spirituale e culturale.
Man mano che sviluppavo il mio approfondimento della Stoa e del Buddhismo, mi risultava sempre più netta l’affinità di “spirito” e di “clima psichico” fra le due correnti, quel loro comune senso di distacco aristocratico, di senso del limite e dell’equilibrio interiore, quel comune rifuggire da ogni eccesso sia ascetico che mondano, tipico di una “via mediana”.
E’ da questo retroterra, da queste letture, da questi stimoli che scaturisce dunque il mio interesse – non estemporaneo, ma lungamente elaborato e meditato – per un confronto critico fra stoicismo e buddhismo, e, più specificamente, fra lo stoicismo romano d’età imperiale ed il buddhismo delle origini, colti sia sotto il profilo della visione generale del mondo sia, più specificamente, sotto quello della dottrina morale che a quella visione si ricollega. Questo confronto riveste, a mio avviso, una forte attualità poiché la diffusione del buddhismo nell’Europa contemporanea può, sui tempi lunghi (e forse anche a medio termine) mettere in moto un processo di mutamento spirituale e culturale che potrà essere tanto più fecondo ed incisivo se il buddhismo sarà capace di comunicare con le radici culturali pre-cristiane dell’Europa, con le quali mostra di avere particolari affinità di “visione del mondo”. E nel quadro di tali radici, lo stoicismo romano occupa un rilievo di particolare importanza. Il presente contributo vuole essere, pertanto, un primo approccio ad un tema che, per la sua vastità e per la ricchezza delle sue implicazioni, andrà affrontato anche con successivi contributi che mi propongo di offrire nella sede di questa rivista.
Un primo spunto di comparazione può prendere le mosse dalla dottrina buddhista dell’impermanenza che ha un rilievo centrale nell’insegnamento del Sakyamuni, comparandola con le riflessioni presenti negli Stoici romani quali Seneca, Epitteto e Marco Aurelio. L’esame comparato del rapporto desiderio-dolore e del tema del distacco nelle due correnti spirituali sarà soltanto consequenziale rispetto a quello sulla visione del mondo, poiché senza quest’ultima, tutta la linea d’ascesi e di condotta nei due sistemi non può avere una chiara ed esauriente spiegazione. Tale confronto consentirà di cogliere affinità e differenze che saranno poi inquadrate nei rispettivi contesti storico-culturali e nell’ambito delle diverse “impronte” che connotano la cultura indiana e quella romana.
2. Il Sakyamuni, nel sermone di Benares – quello della “messa in moto della Ruota della Legge” – espose, quale frutto della sua illuminazione spirituale, le Quattro Nobili Verità e poi, in alcuni sermoni immediatamente successivi, la dottrina dell’impermanenza. Egli spiega che tutte le cose “sono sprovviste di un essere proprio” perché impermanenti e passano di stato in stato, incessantemente. L’impermanenza è strettamente connessa all’insostanzialità delle cose e dei fenomeni, ossia al loro essere sprovviste di un valore autonomo, al loro non poter essere considerate di per se stesse, essendo tutte il frutto di un concorso di fattori causali, mutando i quali mutano anche le cose. Questa “mancanza d’essere proprio” (anatta) della realtà obiettiva (rupa, “forma”) e di quella soggettiva (vinnana, “coscienza”) è uno dei capisaldi di tutta la dottrina del Buddha, diventando poi oggetto d’approfondimento in tutta la speculazione filosofica buddhista. Va ricordato, al riguardo, che il filosofo buddista Nagarjuna, nei suoi scritti, parla della “co-produzione condizionata” quale carattere peculiare della genesi di tutti i fenomeni nel mondo della manifestazione e che tale tema è stato particolarmente approfondito ed illustrato dall’attuale Dalai Lama nei suoi scritti e nelle sue conferenze. La retta comprensione di questi insegnamenti è fondamentale sia per un corretto approccio intellettivo a tutto l’insieme della concezione buddista sia per un’equilibrata interiorizzazione ed applicazione dell’ascesi e dell’etica buddista che non ha assolutamente quella connotazione nichilista e disperata che potrebbe apparire ad una valutazione superficiale e di “primo impatto”.
Per superare la condizione descritta, il Buddha indica il Nibbana “una condizione di assenza, assenza di vita, di morte, di salute, di malattia”, quindi una condizione di là da tutti i dualismi propri alla situazione degli esseri umani, per i quali vale la medesima verità dell’impermanenza, poiché l’aggregato che l’uomo comune crede un “io” permanente” è soltanto una successione di stati di coscienza, successione fondata su un complesso di psichismi e di apparenze fisiche che il buddhismo denomina skandha (“parti costituenti”). In un sermone tenuto a Kotigrama, verso la fine della sua vita, il Buddha espose l’atteggiamento da mantenere nei confronti nei riguardi del mondo, soprattutto quando da questo provengono atti di ostilità, calunnie e tentativi di disturbo.
“Chi ha sana la mente non compete col mondo né lo condanna: la meditazione gli farà conoscere che nessuna cosa è quaggiù durevole, salvo gli affanni del vivere. Chi ha sana la mente non compete col mondo né lo condanna: la meditazione lo illuminerà di una luce che caccerà via le tre passioni che ottenebrano l’intelletto: concupiscenza (lobha), ira (krodha) ed offuscamento mentale (moha), ed egli sarà sulla via della salute, che conduce fuori del dominio della vita e della morte; perocché la mente non correrà più verso le cose del mondo, ma rimarrà costantemente fissa a quel fine supremo. Allora, come un re che gode pensando essere egli, fra migliaia di uomini, solo Signore, colui che ha ottenuto la scienza (panna) godrà pensando che, tra milioni di uomini, egli è il solo ad essere signore della sua mente!” (Maha-paranirvana-sutra, I, 1).
La limpida coscienza dell’impermanenza è strettamente legata alla chiarezza della mente quale frutto della meditazione, ossia di una disciplina mentale avente una funzione catartica e liberatoria rispetto alle passioni indicate nel passo citato. La centralità della disciplina mentale quale base per la purificazione ed il risveglio si configura quindi quale un tratto peculiare e centrale della dottrina del Buddha ed è fondamentale comprendere il motivo per il quale sia così importante la disciplina della mente. Nella prima “Nobile Verità” il Buddha spiega che il mondo è dolore (dukkha), inteso in un’accezione molto ampia, comprensiva delle molteplici sfumature della sofferenza morale e mentale, oltre che di quella legata al corpo fisico ed alle malattie. L’origine del dolore è nella “sete”, nell’appetito dei godimenti, nel desiderio d’esistere o anche di non esistere. Orbene, la “sete” si colloca in una concatenazione causale molto più ampia – ed è questo un tratto peculiare della dottrina buddhista – ben oltre le smanie smodate e gli appetiti febbrili di una singola individualità terrena. Nella terza veglia della notte dell’Illuminazione – secondo il racconto tradizionale – al Buddha si dischiude la verità degli “elementi l’un l’altro condizionati”, fondata sulla concatenazione causale dei dodici nessi (nidana) il primo dei quali è l’ignoranza (avidya) ossia il non vedere le cose nella loro impermanenza e nella loro insostanzialità, da cui derivano tutti gli errori che causano la sofferenza e che determinano, in lunga concatenazione causale, quella “sete”, quell’agitazione nel legarsi alle cose, come se i fenomeni fossero dotati di una loro stabilità e permanenza e non fluissero nel fiume del divenire.
L’ignoranza (avidya) è intesa come una forza cosmica che agisce e trascina gli esseri umani e che, nella sua vastità, non coinvolge soltanto loro ma abbraccia tutto l’insieme del mondo manifestato; il suo configurarsi, sul piano della vita individuale, come errato approccio con le cose, è soltanto una conseguenza, un’individualizzazione dell’avidya cosmica. E’ proprio da questo profilo “cosmico” dell’ignoranza che si può partire per un confronto con la dottrina dello stoicismo romano che, soprattutto con Marco Aurelio, si dilata ad una riflessione sull’impermanenza che abbraccia tutto l’universo, segnando una netta differenziazione di questo imperatore-filosofo rispetto ad un Epitteto che pure aveva tanto influito sulla sua formazione. Nel passo IX, 28a dei Ricordi, Marco Aurelio offre la suggestiva immagine del moto alterno delle onde del mare per comunicare la sua concezione della transitorietà dei fenomeni dell’universo.
“Ben presto la terra nasconderà noi tutti, poi anche la terra si trasformerà, e gli elementi di cui è composta, anch’essi si trasformeranno, e ancora poi all’infinito. L’uomo che nell’anima sua considera questo moto alterno di onde, queste trasformazioni, questi cambiamenti, questa rapidità; oh! costui avrà disprezzo enorme d’ogni mortal cosa”.
In IX, 29 egli evoca l’immagine del torrente impetuoso che tutto trasporta (“La causa universale, torrente impetuoso, tutto trasporta. Come non valgono nulla, persino questi poveri piccoli uomini che si credono d’agire con politica saggezza a guisa di filosofi”). Il richiamo alla “causa di tutte le cose” si connette a IX, 25 ove invita a meditare sulla “qualità della causa”, contemplandola separatamente dall’elemento materiale del mondo, con evidente riferimento al nous divino al quale l’egemonikòn (“il sovrano interiore”) deve accostarsi. In IX, 35 egli coglie l’impermanenza nei termini di una legge naturale, la “naturale trasformazione”:
“Ciò che si crede perduto è soltanto trasformato: niente di più. Di quest’operazione si compiace l’universale natura; per questa operazione così ogni cosa si svolge; in modo eguale si svolse in una durata senza fine; e altre cose saranno eguali nell’infinito futuro…”.
L’impermanenza rientra dunque in un ordine naturale che, per gli Stoici, è espressione del Logos, l’intelligenza divina ordinatrice del mondo. Questa trasformazione è colta con una disposizione interiore contemplativa che traspare dal passo IX, 30:
“Contempla dall’alto: greggi senza numero, e senza numero religioni e riti, navi d’ogni genere che navigano in mezzo a bufere, a bonaccia, e la diversità della gente che nasce, che vive, che va via. Poi considera la vita di altri che in tempi remoti vissero nel mondo, quindi la vita che sarà vissuta dopo di te, quindi la vita che oggi si sta vivendo in mezzo a popoli lontani. Quanti nemmeno conoscono il tuo nome! Quanti prestissimo lo dimenticheranno! Quanti che oggi t’innalzano con lodi, subito, forse prestissimo, ti copriranno d’improperi! Pensa quanto poco vale il ricordo, la gloria e qualsiasi altra cosa”.
Lo sguardo contemplativo si dilata dalla caducità della vita del singolo all’illusorietà del potere e della gloria, alla relatività della fama, alla rapida mutevolezza delle condizioni, nel susseguirsi delle generazioni. Possiamo così cogliere una prima affinità – che è concetto ben diverso da quello di identità – fra il buddhismo delle origini e la filosofia di Marco Aurelio. Comune è la consapevolezza disincantata dell’impermanenza dei fenomeni del mondo e, fra questi, dei beni terreni e della nostra vita. Comune è l’attitudine contemplativa nel cogliere questa verità, come emerge dal passo citato del Buddha e da Marco Aurelio IX, 30. Traspare da entrambi un senso di calma e di sereno distacco, un lucido disincanto rispetto alle illusioni dell’uomo ordinario. L’affinità non è soltanto di ordine concettuale, ma investe la disposizione interiore, lo stato d’animo, il modo in cui, in entrambi i sistemi, il saggio si pone di fronte al mondo. Chi abbia familiarità con la lettura dei testi buddisti e di quelli stoici – e li legga “col cuore” e non solo col cervello – può comprendere cosa dico quando parlo del senso animico di calmo distacco che entrambi comunicano.
Il confronto fra le due “visioni del mondo” lascia emergere anche le sensibili differenze che intercorrono fra loro. Nel buddhismo delle origini, l’impermanenza si colloca in una visione generale nella quale è centrale la dottrina del karma – come legge di causalità e della trasmigrazione. La “sete”, l’appetito dei godimenti, determina un karma, un destino di trasmigrazione nel ciclo del samsara, poiché il principio cosciente non si é liberato dalla sete d’esistenza, non essendo pervenuto al risveglio e, quindi, alla consapevolezza dell’impermanenza, che non è solo un’assimilazione razionale del concetto, ma una profonda interiorizzazione della vera natura delle cose.
In Marco Aurelio, pur essendo ben presente la comprensione della legge naturale di trasformazione nei termini di un ordine espressione del Logos, non compaiono richiami alla dottrina della trasmigrazione come un destino di catarsi scaturente dalla “sete” da cui l’uomo non si è liberato. Tutta la dottrina morale dell’imperatore-filosofo si colloca nell’orizzonte della vita terrena dell’uomo nel rapporto coi suoi simili, con la società nel suo complesso, con lo Stato – ossia con l’Impero . Se leggiamo Seneca, Epitteto e Marco Aurelio si nota che, pur essendo frequente la riflessione sulla morte e la lezione morale sull’atteggiamento virile da avere di fronte ad essa, mancano riferimenti ad una dottrina del post-mortem e della trasmigrazione cui legare la dottrina morale da osservare nella vita terrena. Compare, certamente, in alcuni aforismi di Marco Aurelio, qualche richiamo al ritorno, con la morte, nel Principio da cui traiamo origine, mentre frequente è il richiamo al Logos. Resta comunque centrale l’orizzonte della vita terrena dell’individuo e del modo più saggio per viverla, dilatando l’orizzonte all’ambito dello Stato, dei doveri che l’uomo – ossia il civis romanus – ha nei confronti della polis intesa in un’ampia accezione.
Credo che in ciò occorra scorgere un tratto tipico della cultura romana, quella sua impronta “pragmatica” e quella tendenza così spiccata alla storicizzazione, ben nota alla scienza storico-religiosa a partire dagli studi di G. Dumézil fino alla originale elaborazione interpretativa della scuola storico-religiosa di Roma; Roma risolve il cosmo nella polis – dilatata poi alla dimensione sovranazionale dell’Impero – e risolve i miti del suo retaggio arcaico nella sua storia, in cui gli dèi assumono una connotazione umana, quindi tutta calata nel tempo e nello spazio, un tempo ed uno spazio ben definiti, che sono quelli dell’Urbe. Il macrocosmo, per dirla in altri termini, è tutto compendiato e concentrato nel microcosmo romano. La letteratura filosofica dello stoicismo romano sembra conservare questa impronta; la lezione del filosofo stoico è tutta concentrata su come agire e come vivere nel proprio tempo e nel proprio spazio sociale e civile, conservando una rettitudine interiore non coinvolta nel vortice delle passioni e dei vizi dell’uomo comune. Eppure la dottrina della trasmigrazione era ben nota agli Antichi; essa risaliva al pitagorismo ed era ricomparsa nel neo-pitagorismo d’epoca imperiale per cui è impensabile che gli Stoici romani non la conoscessero. Essa, tuttavia, era vista, probabilmente, come una dottrina d’élite, riservata agli iniziati ed ai filosofi, mentre all’uomo medio andava insegnata una dottrina morale che rendesse equilibrata e serena la vita terrena.
Altra differenza saliente riguarda un particolare profilo dell’impermanenza, ossia quello del mondo soggettivo. Abbiamo visto che per il buddhismo la permanenza di ciò che chiamiamo “io” è soltanto illusoria, mentre tale lezione non sembra comparire nello stoicismo romano, anche se è ben presente la considerazione dei vizi che schiavizzano l’uomo, la coscienza delle false rappresentazioni della sua mente e, soprattutto, la lezione sull’importanza dell’egemonikòn, il sovrano interiore che si configura quale peculiarità del saggio e non come carattere ordinario dell’uomo comune. Altro è, però, porre in risalto gli errori che conducono l’uomo alla schiavitù sia verso sé stesso che verso il mondo, altro è, invece, sostenere l’illusorietà della permanenza dell’io, riducendola ad un complesso di psichismi che si susseguono e prevalgono di volta in volta. La concezione stoica dell’uomo – nella sua condizione ordinaria – appare più orientata verso la delineazione di un “io” debole, soggetto ai vizi ed alle passioni, ma comunque permanente nella sua debolezza e fragilità, piuttosto che di un “io” illusorio. Ed è qui che si può cogliere un’altra differenza di fondo fra cultura romana – che elabora le categorie della storia e del diritto – e cultura indiana (nella quale il buddhismo delle origini affonda comunque le sue radici) che si distingue per la centralità della nozione di maya, il velo dell’illusione che abbraccia sia il mondo oggettivo che quello soggettivo. La centralità della dottrina dell’impermanenza nel buddhismo implica una serie di valutazioni sia sul piano della realizzazione spirituale che su quello dell’etica. Analisi analoga sarà svolta per gli Stoici romani, per poter poi raffrontare le due correnti in tema di rapporto desiderio-dolore e di “etica del distacco”.
* * *
(continua).
Tratto, per gentile concessione dell’Autore, dal n° 13 de La Cittadella (gennaio-marzo 2004).
Sandro Daddelli
Evola quale illustre esponente della Tradizione, ha con acutezza di spirito e di ingegno, notato la grande affinità tra il buddismo delle origini, strettamente imparentato con la Tradizione indoeuropea, il buddismo chan o zen, che al buddismo delle origini si richiamava, e lo stoicismo greco-romano, particolarmente quello romano! Egli ne ha compreso il profondo insegnamento etico-spirituale, improntato sul distacco dalle passioni, dai desideri, da tutto ciò che è schiavismo alla materia, al caos, al divenire, alla morte spirituale, rappresentata dalle catene materiali, che tanto imperversano oggi, in nome dell’arrivismo, del carrierismo, della futilità e banalità della vita quotidiana, fatta di tante illusioni, falsi piaceri, desideri indotti! Nell’era moderna, in cui la Tradizione cattolica ormai è scemata, inghiottita dal secolarismo conciliare, in cui i papi fanno mille inchini ai massoni mondialisti, l’esempio fulgido dello stoicismo e del buddismo originario e zen, è per quei pochissimi uomini ancora liberi, una valida alternativa alla civiltà dei mercanti ormai impostasi a livello quasi globale! Un altro esempio vicino allo stoicismo è l’epicureismo, il quale se inteso correttamente, può essere anch’esso inquadrato tra i validi lasciti che l’uomo dell’antichità tradizionale, ci ha lasciato in eredità, come lo stesso Evola ha notato!