Geopolitica e spiritualità del principio “Reich”

La prima idea fondamentale che oggi vorrei mettere in evidenza nell’evocare il principio “Reich”, è che esso ha certo una dimensione spirituale (sulla quale mi esprimerò), simbolica, culturale, ma bisogna anche sapere che ogni Reich è uno spazio territoriale di grandi dimensioni. I simboli e la spiritualità del Reich hanno bisogno di uno spazio per incarnarsi, per acquisire concretezza. È la ragione per cui una buona conoscenza della dinamica geografica del territorio, dove questo “Reich” deve stabilirsi, è un imperativo al quale non ci si può sottrarre. Ecco perché mi sembrava importante riflettere bene sullo spazio-ricettacolo dell’idea di Reich (Regnum). Innanzi tutto, ogni Reich è uno spazio politico le cui dimensioni corrispondono al “Großraum” teorizzato da Carl Schmitt, le cui dimensioni sono continentali. Inoltre, questo spazio è organizzato tramite dei mezzi di comunicazione e di trasporto. Ogni Reich mira ad accelerare le relazioni tra gli uomini che vivono sul suo territorio. Questo territorio è vasto ma nondimeno circoscritto entro dei “limes” chiaramente definiti, anche se essi sono in costante espansione. Alcuni esempi: l’Impero romano, modello insuperabile nella storia europea, è un grande costruttore di strade; il suo esercito (le legioni) che lo incarna, che ne è lo strumento principale, è composto da combattenti, soldati esperti e ben addestrati, ma anche da pionieri, da truppe del genio che costruiscono strade, ponti e acquedotti. L’Impero britannico, impero marittimo, più dominatore e sfruttatore sul piano economico rispetto all’Impero romano, al punto che si può contestargli la natura di “Reich”, ha egualmente posseduto il suo strumento di mobilità, di accelerazione: la sua flotta. Priva di una spiritualità costitutiva, questa talassocrazia mercantile ha nondimeno organizzato le rotte marittime, specialmente quelle che portano alle Indie passando per Gibilterra, Malta, Cipro, Suez e Aden. La Cina, impero incrollabile per millenni, è emersa anche grazie alla costruzione di strade e di canali e all’organizzazione di una flotta costiera.

Contro i «grandi spazi» la strategia talassocratica di sabotare i lavori di organizzazione territoriale

Questi esempii contradditorii ci permettono di constatare, sulla base della distinzione ormai classica tra Terra e Mare, (Mackinder, Haushofer, Schmitt), che la Gran Bretagna e, a loro volta, gli Stati Uniti, si opporranno sistematicamente ai grandi lavori di organizzazione delle vie di comunicazione sui grandi spazi continentali. Questa opposizione sistematica ha per scopo quello di conservare il monopolio della mobilità più veloce nel campo del trasporto di uomini e cose, in questo caso il monopolio di una mobilità esclusivamente marittima. Gli esempi che provano questa ostilità fondamentale sono abbondanti:

– Nel 1904, Halford John Mackinder elabora la sua teoria del contenimento delle potenze continentali, in particolare della Russia, perché l’Impero degli Zar ha appena realizzato, sotto la spinta dinamica del ministro Witte, il collegamento ferroviario transiberiano, procurando a questo immenso impero continentale una mobilità che consente il rapido dispiegamento delle truppe dal Baltico al Pacifico. Dalla realizzazione di questa via ferroviaria transcontinentale, lo Zar viene demonizzato dai media: gli viene messo contro il Giappone, viene finanziata la nuova marina da guerra nipponica al fine di distruggere la flotta russa al largo della Corea (Tsushima, 1905); una propaganda servile lo descrive come un autocrate sanguinario, le grandi città dell’impero vengono sconvolte da rivolte orchestrate da oscuri agitatori di cui non si comprendono le motivazioni, tanto sono vaghe e scomposte, etc.

Bloccare l’arteria danubiana

– Dal 1914 al 1918, la politica tedesca ed austro-ungarica mirano ad organizzare i Balcani a partire dall’arteria danubiana; questo progetto è tacitamente combattuto dalla Gran Bretagna che manipola, come al solito, i truffatori politici francesi agitati da filosoferie sub-volterriane e da una patologica germanofobia, al fine che i popoli di Francia vengano dissanguati, sacrificati, in teoria per chimere ideologiche veicolate da canaglie di sinistra e di destra e, in pratica, per bloccare il Danubio nell’interesse delle potenze talassocratiche. Nella letteratura geopolitica, è proprio il francese André Chéradame che esprime più chiaramente gli scopi della guerra inglese e getta le basi del trattato di Versailles, che reclameranno a gran voce i politici francesi infeudati alle follie ideologiche del 1789 e che avalleranno con ipocrita discrezione le strategie politiche britanniche e americane, rigettando sulla Francia la responsabilità del caos in Europa centrale (cosa evidentemente confermata dalle apparenze). Chéradame reclama così il frazionamento dello spazio danubiano in quante più nazioni artificiali possibile. La sua dimostrazione storica e geopolitica implica la riduzione del “Grand Haza” ungherese a un piccolo stato interno senza sbocco marittimo, l’espulsione della Bulgaria dal delta del Danubio, l’ingrandimento smisurato della Serbia, in direzione della Dalmazia e della Slovenia, al fine di rinchiudere l’Adriatico; l’ingrandimento della Romania per farne un alleato della Francia (traviata dalla subdola propaganda dei Britannici) che controlli il delta del grande fiume europeo. L’idea di frazionare e di bloccare il corso del Danubio é ritornata di gran carriera dopo gli avvenimenti in Yugoslavia nel corso degli anni 90, raggiungendo il punto culminante con la distruzione dei ponti di Novi Sad e di Belgrado, seguito da un tentativo di demonizzare l’Austria, in seguito all’arrivo al governo dei liberal-populisti di Jörg Haider.

– Dal 1904 al 1915, la questione d’Oriente nasce in seguito ai trattati di alleanza tra il Reich degli Hohenzollern (che non è il Reich tradizionale nato dopo la vittoria di Ottone I sugli Ungheresi nel 955) e l’impero ottomano. L’Inghilterra vede con ostilità la costruzione di una ferrovia Berlino-Bagdad e l’inaugurazione di vie aeree sullo stesso percorso. Il Medio Oriente non può in alcun caso divenire il retroterra di un continente europeo raggruppato attorno alla Germania e all’Austria-Ungheria, ancor di più se questo modo di cooperazione sfocia sull’Oceano indiano, oceano del mezzo considerato come un mare interno britannico.

– Anche la Francia, riserva di carne da cannone per la City londinese ogni volta che la dirigono dei politici illuministi, subisce pressioni indirette quando realizza il canale di grande dimensione tra l’Atlantico (Bordeaux sulla Gironde) e il Mediterraneo, opera di ingegneria civile che relativizza ipso facto la posizione di Gibilterra.

– Per quanto riguarda il III Reich nazional-socialista (che non è un Reich nel senso tradizionale del termine), bisogna constatare che la politica di costruire autostrade, di voler realizzare il collegamento Meno-Danubio (considerata come motivo di guerra dalla stampa londinese nel 1942, che pubblica una carta suggestiva e rivelatrice a questo proposito), di realizzare un primo volo transatlantico su Focke-Wulf Condor nel 1938 dopo il drammatico incidente dello Zeppelin “Hindenburg” nel 1937, di concepire dei progetti di treni ad alta velocità sulle linee Parigi-Berlino-Mosca e Monaco-Vienna-Istanbul (Breitspureisenbahn) e di concretizzare i progetti di Federico II di Prussia e dell’economista List finalizzando il sistema di canali tra l’Elba e il Reno (esso stesso collegato alla Mosa e alla Scheda da lavori simili eseguiti nei Paesi Bassi e in Belgio), sono delle provocazioni belle e buone nei confronti delle talassocrazie, ostili ad ogni organizzazione delle comunicazioni sugli spazi continentali. Tali sono i criteri oggettivi e verificabili che hanno giustificato l’ostilità di Roosevelt e di Churchill nei confronti del III Reich: gli altri motivi sono meno chiari e danno luogo a speculazioni infinite che non apportano alcuna chiarezza al dibattito tra gli storici.

Questi lavori o questi progetti hanno permesso ieri e ancora di più permettono oggi, specialmente sulla base del Piano Delors che converrebbe concretizzare realmente, di estendere una tale nozione di Reich, come principio e motore di “comunicazione”, all’Europa intera ed a creare le condizioni di un alleanza durevole con la Russia e l’Ukraina, padrone dello spazio pontico (Mar Nero). L’organizzazione ottimale delle vie fluviali e marittime interne (Mar Nero e Mar Baltico) è ormai possibile in Europa dopo lo scavo definitivo del canale Reno-Meno-Danubio sotto il Cancelliere Helmut Kohl. Al di là delle potenzialità di questi collegamenti in Europa occidentale, centrale e orientale, il controllo completo del Danubio, collegato definitivamente al Reno e dunque all’Atlantico, permette logicamente di estendere la dinamica così generata allo spazio pontico ed ai fiumi russi e ukraini, al Don e, tramite il canale Lenin, al Volga ed al Mar Caspio, e di rilanciare la logica geopolitica e idropolitica che l’Impero romano aveva avviato e che la sua caduta di fronte agli Unni e la sua cristianizzazione anarchica avevano interrotto.

Dai Proto-Iraniani ai Goti

Roma e i Germani si erano affrontati (o alleati) per tenere la linea Reno-Danubio dal Mar del Nord al Mar Nero. Gli uni organizzando tutti i territori situati a sud di questa linea; gli altri ammassandosi a nord. I Visigoti, discesi dall’attuale Svezia, come faranno più tardi i Variaghi, occupano l’Ukraina e la Crimea. Attorno al Mar Nero si raggruppano all’epoca tre poli imperiali indoeuropei: quello romano, effettivo, quello slavo-germanico, in gestazione, e quello persiano, il più antico. I Visigoti, che acquisiranno in Ukraina le tecniche della cavalleria, legate agli Sciti e, prima di loro, ai Proto-Iraniani, sono ben presto pressati dagli Unni che rovinano la fusione potenziale di questi tre poli imperiali attorno al Mar Nero. In questo senso la Russia, se pervenisse a liberarsi totalmente della sua parentesi bolscevica, sarebbe contemporaneamente l’erede degli Sciti (e dei Proto-Iraniani), dei Goti, dei Variaghi, e dei Persiani (che islamizzati poi schiacciati dai Mongoli non si sono più riallacciati alle loro radici profonde, essendo stata troppo breve la parentesi tentata dall’ultimo Shah, prima di essere ridotta a nulla da una nuova islamizzazione), ferma restando, naturalmente, l’eredita di Bisanzio dopo il 1453.

Parentesi sul Rodano: il Rodano si getta nel bacino occidentale del Mediterraneo e unisce quest’ultimo al centro nevralgico dell’Europa centrale, via Ginevra, il corso della Saône e del Doubs, che lo conduce alle « Porte di Borgogna » (Burgundische Pforte), cioè al varco di Bâle o di Belfort, in prossimità del Reno e non lontano dalle sorgenti del Danubio. A questo titolo, esso è fin dall’antichità un nodo geostrategico primordiale. Stato di cose che non sfuggì alla perspicacia di Halford John Mackinder, fondatore della geopolitica militare britannica. Nella sua opera Ideali democratici e realtà, (ultima edizione 1947), egli ricorda il fiasco dell’impero marittimo di Geiserich (Genserico), re dei Vandali, che non seppe legare le sue conquiste all’arteria del Rodano; ripercorre l’avventura dei saraceni che risalirono il Rodano, la Saône e il Doubs fino alle porte di Borgogna; e mostra infine l’importanza dell’alleanza tra la Savoia, potenza del Rodano, l’Austria e l’Inghilterra nella guerra di Successione spagnola.

Ariovisto, Cesare, il Rodano e il Reno

Il suo omologo tedesco, lo storico Hermann Stegemann, autore di una storia militare del Reno (Der Kampf um den Rhein, 1924) mostra che, strategicamente, il sistema del Rodano è legato al sistema del Reno e che il controllo del Rodano è stato l’obiettivo primario della grande strategia romana da Mario a Cesare. Padrona del Mediterraneo occidentale dopo le sue vittorie su Cartagine, Roma deve assicurarsi un retroterra in Europa: essa sceglierà di risalire il Rodano e i suoi affluenti, dove, via Doubs, piomberà sul corso dell’Alto Reno a est di Thann e di Cernay/Sennheim. È il territorio di Ariovisto che controlla un regno svevo a cavallo tra il Reno, il Doubs e le sorgenti del Danubio. La sconfitta di questo capo germanico mostra che la linea Reno-Rodano (via Doubs e Saône) è la linea di penetrazione ideale verso il nord per ogni potenza dominatrice del bacino occidentale del Mediterraneo. Con la sua vittoria su Ariovisto, Cesare si impadronisce dei bacini della Senna e della Loira ma lascia a dei capi futuri il compito di passare sulla riva destra del Reno. I suoi successori tenteranno di unire il corso del Danubio, dalle sue sorgenti fino alla foce sul Mar Nero: questa sarà la grande strategia continentale dell’Impero romano, tanto importante quanto il dominio del Mare Nostrum.

Augusto Fraschetti, Giulio CesareLa grande lezione dell’Impero romano, organizzatore di comunicazioni in Europa, è sempre di attualità: l’Europa, per avere una struttura imperiale nel vero senso del termine, cioè una struttura di organizzazione interna e non una struttura che permetta delle conquiste imperialistiche, deve avere, come ebbe Roma, dei grandi progetti di pianificazione territoriale che, nella logica più economica che regna oggi, mobilitino la manodopera e rilancino il consumo interno accelerando le comunicazioni. Friedrich List, economista liberale a cui si rifanno numerosi statisti non liberali, raccomandò questo tipo di politica dalla metà del XIX secolo. Nei giorni nostri, il Piano Delors non ha ricevuto, a livello europeo, l’attenzione che meritava, mentre suggeriva lo sviluppo di linee ferroviarie ad alta velocità e il lancio di un programma di satelliti per telecomunicazioni. Ugualmente, l’Europa attuale non ha le dimensioni imperiali richieste oggi, nella misura in cui la sua marina è troppo debole, tanto sul piano militare, come deplora l’ammiraglio francese Allain Coataena, che sul piano dello sfruttamento civile e oceanografico. L’Europa non sviluppa abbastanza grandi progetti per lo sfruttamento dei fondi marini e oceanici. Escludendo i collegamenti tra la Gran Bretagna e il continente, le flotte costiere di aliscafi o di catamarani non sono sufficientemente sviluppate sui mari interni, compreso il Mediterraneo.

Le dimensioni storiche della nozione di Impero

A Verdun nell’843, i nipoti di Carlo Magno si divisero in pratica dei bacini fluviali, in quanto i fiumi erano all’epoca i soli mezzi di comunicazione sicuri e relativamente rapidi. Carlo il Calvo ricevette il bacino della Somme, della Senna, della Loira e della Garonna, con un vantaggio considerevole, proprio del bacino parigino. A partire da Parigi, effettivamente, si può unire il territorio grazie agli affluenti come la Marna e l’Oise (che servì come asse di penetrazione alla colonizzazione franca) ed alla prossimità della Loira, collegata alla Senna da una via di terra relativamente breve, che va da Parigi a Orléans. Questa posizione ideale permise una rapida centralizzazione della Francia. Lotario ricevette i bacini del Reno e della Mosa, del Rodano e del Po, con il titolo di “Cesare”, in ricordo di Giulio Cesare che, lungo questi assi, era riuscito a controllare l’Occidente e a gettare le basi della futura colonizzazione dello spazio danubiano (almeno del suo fianco sud). Lodovico il Germanico ricevette il Nord, vale a dire la piana dai fiumi paralleli, non collegati tra di loro, dalla Schelda alla Vistola. Ma anche la missione di conquistare il Danubio per ristabilirvi un ordine romano, affidato dalla translatio imperii ai Germani, che, ipso facto, lo ristabilirono a Nord e a Sud. Questa missione danubiana implica anche, a partire dal X secolo, l’alleanza con l’Ungheria (l’antica Pannonia romana). Il tandem germano-ungherese, l’alleanza della corona imperiale romano-germanica e della corona magiara di S. Stefano, farà fronte agli Ottomani, che avrebbero voluto conquistare il Danubio partendo dai Balcani e dalla sua foce, per ristabilire l’unità geografica danubiana non sotto un segno imperiale romano, ma sotto un segno islamico. L’impero ottomano volle proseguire la politica danubiana di Bisanzio, ma senza avere la legittimità geografica europea, essendo la legittimità geografica turca, centro-asiatica, e la legittimità geografica islamica, arabica.

La proposta di Pio II

Questa ambiguità ottomana, per cui il Sultano è simultaneamente il Califfo musulmano e l’erede, volens nolens, del Basileus bizantino, non era sfuggita a Papa Pio II, cioè l’umanista Æ-neas Silvius Piccolomini, già Cancelliere dell’Imperatore germanico Federico III. Pio II propose la conversione al cristianesimo del Sultano, come era stata accettata dagli Ungheresi dopo la disfatta del 955, di fronte all’esercito germanico di Ottone I. Il Sultano sarebbe allora divenuto contemporaneamente erede di Roma e di Bisanzio, restaurando l’antica unità desiderata da tutti gli umanisti, proiettando la ristabilita potenza europea verso lo spazio iraniano, attraverso il Mar Nero; condizione sine qua non: l’élite ottomana avrebbe dovuto dimenticare ipso facto, sull’esempio degli Ungheresi del X secolo, la propria determinazione geografica pre-europea e centro-asiatica (etnica turca), come la sua determinazione nomade-arabica, trasmessa attraverso l’Islam. Questa “steppitudine” turco-mongola o questa “desertitudine” uscita dalla penisola arabica erano due matrici totalmente estranee all’Europa: la conversione al cristianesimo non è tanto l’adozione della fede evangelica, nel contesto che ci riguarda, quanto l’abbandono volontario di dinamiche geopolitiche diverse da quelle dell’antico impero romano. Il Sultano non accettò la proposta di Pio II, volle stupidamente perseverare nella sua logica turco-arabica che alla fine non approdò a nulla dopo 500 anni di sforzi. Da questo fatto, questa logica turco-arabica, zoppicante e inefficace, con irruzioni di intemperanza e inutile violenza, non può essere considerata « sacra » allo stesso titolo dell’imperialità romano-germanica (“Sacrum Imperium”) perché sfocia nell’impasse o nella guerra permanente (o, per riprendere un modello concettuale iraniano e zoroastriano, la sacralità imperiale romano-germanica o l’imperialità persiana, appartengono ad Ahura Mazda, principio della luce, mentre l’ottomanità appartiene ad Ahriman, principio di distruzione e di oscurità, ancora di più se è alleato al mammonismo della Banca d’Inghilterra o dell’economicismo americano).

La lotta tra l’Occidente e l’Oriente del nostro continente costituisce effettivamente la dinamica principale della nostra storia. Questa lotta si svolge sul Danubio. I Romani distinguevano due “Danubi”: uno, a partire dalle sorgenti nella Foresta Nera fino alle sue « cateratte » nei Balcani, con il suo nome celtico “Danuvius”, l’altro a partire da queste cateratte, fino alla foce che portava il nome greco di “Ister”. Questo limite sarà anche quello dei due imperi romani di Oriente e di Occidente. La cesura si base su un fatto idrografico: il taglio della navigazione sul Danubio all’altezza delle « Porte di Ferro », chiamate nell’antichità “cateratte”. I conflitti ulteriori tra i due imperi avranno per oggetto sia il Mediterraneo che il Danubio.

Missioni di Bregenz e di Passau

Al momento della cristianizzazione dell’Europa centrale, le missioni celtiche (irlando-scozzesi) partite da Bregenz, e sostenitrici di una riconciliazione con i modelli del monachesimo bizantino, entrarono in concorrenza e persero la lotta, davanti alle missioni egualmente danubiane di Passau; queste ultime erano sostenitrici della supremazia papale romana, ostile dunque a Bisanzio e, in fin dei conti, ostile al principio imperiale dell’antica Roma, a cui si richiamava talvolta il Papato, cosa che costituiva una pericolosa impostura. Le missioni di Passau prevalsero in Ungheria, nonostante l’esistenza e la persistenza di una zona mista, di riti ispirati alla liturgia bizantina ma di obbedienza papista-romana (Moravia, Croazia). Esse estesero la loro influenza fino alle Porte di Ferro. A Est, continuò la dominazione bizantina. Ad Ovest si stabilì solidamente la dominazione franca e romana. Bisanzio ebbe la peggio perché non si poteva vincere in questa competizione senza dominare la Pannonia dalla frontiera morava all’Adriatico. Questa zona-cerniera restò “romana”, dunque “Roma” restò padrona del gioco. Gli Ottomani saranno in seguito coscienti di questa posta in gioco: anche per loro la dominazione dell’Europa passava per il controllo della Pannonia e della Croazia, ma la determinazione germanica dell’imperialità europea spostò leggermente verso occidente il punto nevralgico che garantiva questa dominazione. Era ormai Vienna che costituiva la chiave del Danubio, città che gli Ottomani chiamavano la “Mela d’Oro”. I due assalti ottomani contro la capitale imperiale dell’Europa si risolsero in due cocenti scacchi. Ecco la ragione per cui oggi l’Europa non è turco-mussulmana, nonostante il tradimento francese. Il secondo scacco davanti a Vienna, malgrado il ruolo immondo svolto dal “Räuberkönig” Luigi XIV (il “Re dei Banditi”) nell’attaccare alle spalle le truppe imperiali europee per dare respiro ai Turchi, sancì il declino definitivo della potenza ottomana, la quale cessò di nuocere all’insieme europeo.

Rodano, Reno e Danubio

La dinamica della storia romana, per riprendere le tesi di Stegemann, o la logica dell’espansione territoriale romana, si basò in conclusione sul controllo di questi tre bacini fluviali d’Europa. L’oggetto delle guerre puniche fu il controllo del bacino occidentale del Mediterraneo, controllo solidamente garantito dalla conquista della Sicilia. Questa occupa una posizione di cerniera tra i bacini orientale ed occidentale del Mediterraneo. Potenzialmente, la potenza che se ne impadroniva aveva la possibilità, con poca fatica, di controllare i due bacini del Mediterraneo. Le forze puniche, cartaginesi, disponevano di importanti vantaggi territoriali, con le Baleari, la Spagna, i tributari galli nel bacino del Rodano (che fornivano eccellenti mercenari) e il controllo dei passi alpini che permettevano di accedere in Italia. Annibale utilizzò questi vantaggi, ma fallì in Italia. Dopo le tre guerre puniche, i Romani presero coscienza che l’Italia si difendeva sul Rodano, prima dei colli alpini. Roma dunque mise in atto quattro progetti strategici per evitare il ritorno di qualsiasi Annibale:

– la colonizzazione della Spagna, che fu un processo di lunga durata e che iniziò con il controllo delle coste mediterranee, non essendo a quell’epoca di alcuna utilità il versante atlantico.

– la colonizzazione della Provenza, tendente soprattutto ad occupare la foce del Rodano e, progressivamente, a risalire il più possibile la sua valle.

– evitare un nuovo pericolo, per cui la Provenza restasse aperta a popoli del Nord non controllati, Galli o Germani (con l’arrivo dapprima dei Cimbri e dei Teutoni, poi degli Svevi di Ariovisto).

– quel pericolo, rappresentato dalla mancanza di chiusura della frontiera settentrionale della Provenza, ai confini del paese degli Edui, cioè dell’attuale Alvernia, obbligò Roma a rendere satelliti le tribù galliche della valle del Rodano che divennero degli alleati.

– intervenire per proteggere questi alleati, specialmente nel momento in cui Ariovisto pressò gli Elvezi che si rifugiarono presso i Sequani della Franca Contea, alleati di Roma.

Il “Varco di Bâle” o le “Porte di Borgogna”

Cesare fu dunque obbligato a chiudere la breccia attraverso la quale i Germani, sulla scia degli Svevi di Ariovisto, potevano infiltrarsi nel territorio male organizzato dei Galli e dunque minacciare più seriamente la Provenza di quanto avessero fatto prima, al tempo di Mario, i Cimbri e i Teutoni. In questa campagna contro Ariovisto (egli stesso ben cosciente della posta idrografica e geografica della regione gallica che egli occupa tra i Vosgi e il corso del Doubs, più o meno fino a Besançon) Cesare prese coscienza di tutta la dinamica geopolitica e idrografica dell’hinterland europeo del bacino occidentale del Mediterraneo. In modo logico, la presenza delle truppe di Ariovisto nella valle del Doubs dimostrò a Cesare che non si poteva tenere la Provenza se l’intera valle del Rodano non veniva resa sicura a beneficio dell’impero romano del mediterraneo occidentale; ma questa stessa valle del Rodano non era sicura se il varco di Bâle e di Belfort (la Porta di Borgogna) non era ben serrato contro Germani. Ma per richiudere bene questa Porta di Borgogna, bisognava controllare il Reno a valle, fino al Mare del Nord. Di conseguenza, Cesare constatò ben presto che il Reno ed il Rodano sono legati tra loro, strategicamente parlando. Ugualmente, il bacino del Rodano dà accesso, attraverso il suo principale affluente, la Saône, al Plateau di Langres sul quale passa la linea di spartiacque e dove di trovano le sorgenti della Senna atlantica, come quelle della Mosa. Il controllo del Rodano implica quello della Saône che, a sua volta, implica quello della Senna e dei suoi affluenti. In più, la Senna dà accesso alla Manica, dalla quale arrivava lo stagno della Cornovaglia; il controllo della Senna implica anche il controllo del sud della Gran Bretagna. Cosa che tenterà di fare Cesare e che concluderanno i suoi successori. Dopo Cesare, la prossimità delle sorgenti del Danubio e della Porta di Borgogna mostrò che il controllo del Rodano a partire dalla Provenza conduceva alla necessità di dominare il Reno e all’opportunità di controllare il Danubio. Questo processo fu iniziato da Augusto, poi realizzato da Traiano che conquistò la Dacia (l’attuale Romania).

La strategia di Cesare è sempre di attualità

Tutto ciò non è solo storia antica. La strategia di Cesare viene ripresa durante la seconda guerra mondiale, se si pensa che gli strateghi inglesi e americani abbiano non solo seguito i consigli del loro miglior geopolitologo, Mackinder, ma anche ben assimilato lo studio magistrale di Stegemann. Lo sbarco in Provenza, il 15 agosto 1944, permette alle truppe alleate di impadronirsi rapidamente della valle del Rodano per scontrarsi contro un’accanita resistenza tedesca all’altezza delle Porte di Borgogna, esattamente negli stessi luoghi dove Ariovisto aveva dato battaglia a Cesare. La vittoria delle truppe franco-marocchine e americane sui Vosgi alsaziani porta gli alleati ad impadronirsi delle Porte di Borgogna e dell’Alto Reno, poi di oltrepassarlo in direzione delle sorgenti del Danubio nella Foresta Nera, in piena Svevia («Svevia» che deriva dal nome della tribù di Ariovisto). La campagna cominciata con lo sbarco in Provenza fino alla presa di Belfort alla fine dell’anno 1944, è una moderna riedizione della campagna di Cesare contro Ariovisto.

Unificare i bacini del Rodano, del Reno e del Danubio

Questo doppio riferimento storico, prima al conflitto che oppose Cesare ad Ariovisto, poi alla campagna che seguì lo sbarco in Provenza nell’agosto del 1944, ci fa prendere coscienza della necessità geopolitica di unificare quanto più possibile i tre bacini del Rodano, del Reno e del Danubio, e sia il Mare del Nord (ed il Baltico attraverso i nuovi canali del Nord dell’Europa), il Mediterraneo occidentale e il Mar Nero, al fine che la futura Unione Europea possa avere il controllo delle grandi vie di comunicazione all’interno delle sue stesse terre, senza che sia possibile l’intervento di una potenza marittima esterna al nostro sub-continente. Questa necessità deve condurci a condannare senza appello l’ostruzionismo effettuato dai Verdi francesi, tra cui Madame Voynet, allo scavo di un canale di grande portata tra il Reno e il Rodano. Una tale manovra politica, criminale e abietta, non può che essere a vantaggio dei peggiori nemici dell’Europa. E, in ultima istanza, è stata sicuramente da essi « ispirata ». In questa stessa prospettiva romana e imperiale, la lunga guerra tra l’Austria-Ungheria e gli Ottomani fu una lotta per il Danubio, dunque, proseguendo il nostro ragionamento, per ricomprendere il Mar Nero nell’ecumene europeo, farne un mare interno senza infiltrazioni straniere, cioè senza l’intrusione di una dinamica geografica il cui punto di partenza non fosse europeo, non fosse situato sulla linea che parte dalla Danimarca ( l’Insula Scandza, matrice delle nazioni per i Romani) per terminare in Sicilia includendo lo spazio tra Vienna e Budapest. L’Europa doveva annullare gli effetti di ogni dinamica geografica esterna, prendendo per punto di partenza uno spazio mal definito situato al di là del Mare di Aral o del Lago Balkash (prospettiva turca o pan-turanica) o al centro della penisola arabica (prospettiva arabo-musulmana), nel Mar Nero e nel Mediterraneo orientale. Nessuna di queste dinamiche può sconfinare in prossimità del sub-continente europeo, non può avere Wachstumspitze (“punta di crescita” per riprendere il vocabolario di Karl Haushofer) nell’orbita dell’ecumene europeo, cioè in tutti i territori che un tempo hanno fatto parte dell’impero romano.

Permanenza dei fatti tellurici e « lunga storia »

La Hansa medievale si era estesa sul territorio della grande piana nord-europea, dove scorrono dei fiumi paralleli, all’epoca non collegati tra di loro. Per gestire utilmente il suo spazio, la Hansa ebbe l’idea di organizzare i mari interni del nord (Mare del Nord, Mar Baltico) acquisendo le merci dall’interno dei continenti sui porti situati alle foci dei fiumi, per suddividerle sui perimetri. Questa ottica resta di attualità. Conclusione: questo panorama di fatti storico-geografici ci deve condurre a cogliere la permanenza dei fatti tellurici, fondamenti della « lunga storia » (Braudel). Ogni impero fattibile deve essere portato da uomini in grado di guardare sempre agli elementi permanenti di questa « lunga storia », perché nessun impero può sopravvivere senza una tale « memoria dello spazio ». Oggi, noi avremmo di nuovo un « impero » in Europa, un sistema imperiale (reichisch), se noi ottimizzassimo i nostri sistemi di comunicazioni (soprattutto i satelliti di telecomunicazioni), se noi giungessimo direttamente a percepire le manovre di ostruzione condotte da politici corrotti al fine di combatterli immediatamente e senza pietà. Se noi avessimo avuto un tale atteggiamento, se avessimo avuto la « memoria dello spazio », non avremmo mai avallato la guerra americana contro la Serbia e, ipso facto, l’euro non avrebbe perso valore nella follia di questa guerra che è stata una catastrofe per l’Europa senza che le false élites che oggi la governano se ne siano accorte..

Principi politici di ogni “Reich”

Dapprima, bisogna precisare che il “Reich” non è una nazione, anche se, in teoria, esso è portato da un “populus” (il “populus romanus”) o da una “nazione” (la “Deutsche Nation”). Erich von Kuehnelt-Leddhin ci ha mostrato molto bene la differenza tra il “Reich” e la “nazione”; se la sua posizione non è nazionalista e nemmeno anti-nazionalista, egli non ha nulla contro i sentimenti di appartenenza nazionale, contro la fierezza di appartenere ad una nazione. Tali sentimenti sono positivi, scrive, ma devono essere trascesi da un’idea. Questa trascendenza conduce ad una verticalità, che si oppone a tutte le forme moderne di orizzontalità, cosa che è, d’altronde, l’idea principale, il nucleo ideale, di tutte le tradizioni, come sottolinea anche Julius Evola. Ma questa nozione tradizionale e verticale dimentica a volte la profondità dell’humus: tenendo conto di questo humus, noi diciamo che non vi è verticalità uranica senza profondità ctonia. Per riassumere brevemente la posizione tradizionale di Erich von Kuehnelt-Leddhin, diciamo che le orizzontalità moderne non permettono il rispetto dell’Altro, dell’essere-altro. Se l’Altro è giudicato squilibrante, inopportuno nella sua alterità, può essere puramente e semplicemente eliminato o ridotto a niente, senza il minimo rispetto della sua alterità, perché l’orizzontalità fa di tutti, dei “nulla ontologici”, privi di valore intrinseco. Tale è la conclusione della logica egualitaria, propria delle ideologie e dei sistemi che hanno voluto usurpare e sradicare la tradizione del « reich »: se tutto vale tutto nell’interiorità dell’uomo, o anche nella sua costituzione fisica, questo alla fine significa che niente ha più valore specifico e se un valore specifico cerca di spuntare verso e contro tutto, esso sarà presto considerato come un’anomalia che richiede lo sterminio, l’intervento fanatico e sanguinario di “colonne infernali”. La verticalità, in compenso, implica il dovere di protezione e di rispetto, un dovere di servire i superiori e un dovere dei superiori di proteggere gli inferiori, in un rapporto paragonabile a quello che esiste, nelle società e nelle famiglie tradizionali, tra genitori e figli. La verticalità rispetta le differenze ontologiche e culturali; essa non le considera come dei « nulla » che non meritano né considerazione né rispetto.

Sui servitori dell’Impero prodotti da tutte le nazioni

In un impero coabitano diverse comunità e pertanto, vista l’importante estensione territoriale di ogni impero, diversi popoli, che non ci si sogna di fondere in un magma insipido e indifferenziato. Gli imperi sono generalmente plurietnici. Era il caso della monarchia austro-ungarica, ultima detentrice dell’imperialità romano-germanica, in cui hanno servito uomini di ogni origine etnica, non solo Austriaci e Ungheresi, ma anche Slavi del sud come il generale serbo Bosoïev, poi, durante la seconda guerra mondiale, il generale di origine croata Rendulic, che fu l’ultimo a cedere le armi; durante la guerra dei Trent’anni, il brabançon Tilly de ‘t Serclaes comanda l’esercito bavarese, poi tutto l’esercito imperiale; la sua statua si erge ancora e sempre nella Feldherrenhalle di Monaco; il lombardo Montecuccoli serve egualmente l’Austria imperiale, senza dimenticare il più illustre dei Savoia, il Principe Eugenio. In Russia, i generali sono spesso tedeschi o tedeschi dei Paesi baltici, compreso Rennenkampf che invade la Prussia orientale nel 1914. Il ministro Witte è di origine fiamminga o olandese. Xavier de Maistre, fratello di Joseph, ha anch’egli esercitato un comando nell’esercito dello Zar, per lottare contro le follie rivoluzionarie e bonapartiste. Da uomini di Liegi vengono più tardi fondate le fabbriche d’armi russe, di cui sono un ricordo le pistole Nagant. In Belgio, in cui si è mantenuta la logica imperiale fino al 1918, in cui la seconda offensiva giacobina ha avuto ragione di tradizioni secolari, l’esercito del 1914 è comandato in Africa da un Danese, il Colonnello Olsen, e in patria da Jungbluth, renano e da Bernheim, viennese di origine israelita.

Autentica multiculturalità e multiculturalità sterminatrice

L’impero è dunque fatto di molteplicità, di differenze, che non hanno niente in comune con la falsa multiculturalità vantata dai media di oggi. Questa multiculturalità, truffa ideologica, deriva proprio da quella orizzontalità che mira a svuotare tutti gli uomini, autoctoni e alloctoni, della loro sostanza ontologica. Questa multiculturalità uccide l’essenziale che vive nell’uomo. Ogni politica che cerca di promuoverla è una politica criminale, sterminatrice, nel senso in cui intende il filosofo americano Thompson. A questa multiculturalità, maschera pubblicitaria per far accettare lo « sterminismo » moderno, bisogna opporre la verticalità imperiale o l’idea sublime di Herder, che vedeva l’Europa una « comunità di personalità etniche intrecciate nella storia ». Di seguito a queste riflessioni di Herder sulla diversità europea, la centralità geografica della Germania, ancora spezzettata, fa di essa, per i romantici che sono passati dall’ideale rivoluzionario e illuminista all’ideale di una restaurazione della carne al di là dei geometrismi astratti e disincarnati del giacobinismo, il perfetto “Sacrum Imperium”, allacciato territorialmente sui popoli romani, slavi e scandinavi, e per questo il solo adeguato a far dischiudere vivere una sintesi e vivere una sintesi europea. Alla luce di queste due serie di argomentazioni, le une di ordine organizzativo e territoriale, le altre di ordine filosofico ed etico, mi sembra opportuno, prima di concludere, porre due questioni importanti: – Quali categorie di uomini possono incarnare il “Reich”? – Come è emersa in seno all’umanità europea una tale categoria di uomini? La categoria di uomini capaci di incarnare un “Reich” è nata dalla tradizione persiana, la quale è stata a lungo un « oriente » (un modello su cui orientarsi), ma questo fatto di storia e di tradizione non viene più considerato nel suo giusto valore. Nella tradizione persiana, si parla di un « inverno eterno », più che probabile allusione all’inizio di un’era glaciale particolarmente rigida che sorprende i primi popoli europei nel loro habitat primordiale. Nel momento in cui sopraggiunge questo “inverno eterno”, un re-eroe, Rama, raduna le tribù e i clan e si dirige, alla loro testa, verso sud, verso il Caucaso, la Battriana e la Persia (gli altopiani iraniani). Questo re-eroe fonda le caste o, più esattamente, le funzioni che Georges Dumézil studierà in seguito. Dopo aver condotto il suo popolo verso una felice destinazione per sfuggire ai rigori di questo “eterno inverno”, Rama si ritira sulle montagne. Questa figura eroica e regale si ritrova nella tradizione avestica e vedica dove si chiama Yama o Yima. Per condurre questa spedizione e questa spedizione, Rama-Yama-Yima si servì di cavalli e di carri e pose così i primi principi di organizzazione di una cavalleria, principi che resteranno l’appannaggio primario di questi clan e tribù che si mescoleranno per formare il popolo iraniano (persiano o parto) dell’alta antichità. Più tardi, Zarathustra (Zoroastro) codifica le regole che ogni cavaliere deve seguire. La codificazione propriamente detta è opera del suo discepolo Gathas. La truppa di Zarathustra, che deve far rispettare il suo insegnamento pratico, è armata di mazze (la “Clava” nell’opera di Julius Evola). A partire dalla compagnia degli adepti di Zarathustra si forma la casta dei guerrieri, gli Kshatriya della tradizione indiana, una casta operativa agganciata al reale politico e geografico, che domina la casta dei sacerdoti, contemplativa e meno incline a esercitare su se stessa una disciplina rigorosa.

Un ideale semplice e rigoroso

Dai ranghi degli Kshatriya sono usciti i re, cosa che implica, a partire dalla tradizione indoeuropea dell’Iran, il dominio dell’uomo attivo sull’uomo contemplativo (preconizzato da Evola). La figura iraniana di Sraosha, che darà il San Michele della tradizione medievale, evoluto tra il cielo e la terra, cioè tra l’ideale della tradizione e la realtà, postula una formazione rigorosa, sull’esempio dei discepoli di Zarathustra. Questi, man mano che si consolida la tradizione iraniana, sono formati a rendere chiaro il loro pensiero, a purificare i loro sentimenti, a prendere coscienza del loro dovere. Armati di questi tre principi cardinali di orientamento, i discepoli di Zarathustra lottano contro Ahriman, incarnazione del Male, vale a dire della decadenza dei sentimenti, che rende inadatti a operare costruttivamente e in modo durevole nel reale. Solo i cavalieri capaci di incarnare questo ideale semplice ma rigoroso, daranno a se stessi un carisma, un risplendere, una luce, la kwarnah. Essi sono legati tra loro da un giuramento. Nel 53 a. C., quando le truppe dei Parti di Surena affrontano le legioni del triumviro Crasso, figura spregevole per la sua cupidigia e avaro del suo oro, i Romani sono orripilati da questo rigore, anche se decadenti come Crasso, sono affascinati, se hanno ancora il sentimento dello Stato. Durante la lunga lotta tra Romani e Parti, elementi di questa spiritualità militare iraniana vanno poco a poco a distillarsi nel mondo occidentale, specialmente quando dei cavalieri indo-iraniani, come i catafrattari sarmati o i cavalieri alani, si vanno a mettere al servizio di Roma. I Goti, venuti dalla Scandinavia, scoprono a loro volta questa spiritualità di Kshatriya quando piombano in Crimea, nello spazio scita. Essi riprendono tradizioni e tecniche dei popoli cavalieri della zona pontica e le introducono nel mondo germanico. Il dio Odino, con il suo corsiero, veicola alcuni elementi iraniani e Loki, dio briccone, eredita dei tratti prestati all’Ahriman persiano.

La tradizione iraniana arriva in Europa attraverso le Crociate

Presso i Franchi, l’ascia da combattimento, la framea, tra Clodoveo (Chlodweg) e le Crociate, implica un’arte militare trasmessa, ma l’Occidente non conosce ancora la cavalleria sul modello iraniano. I Franchi dispongono di una militia ma non ancora di una cavalleria, secondo i criteri dei periodi successivi. Nel corso delle crociate, quando le truppe Franche e Germaniche entrano in contatto con le cavallerie persiane (islamiche) e armene (cristiane), eredi delle tradizioni dell’antico Iran, esse riallacciano progressivamente con il lascito perduto dell’Oriente indoeuropeo che rappresenta la tradizione avestica, ancora sussistente malgrado la « pseudomorfosi » islamica. La fotowwat (“servizio”, “cavalleria”, “gioventù”) dell’Iran è una trasposizione dell’antica eredità in un quadro islamico. Jean Tourniac, discepolo di Guénon, nella sua opera Lumière d’Orient, esplicita il cammino che va da questa cavalleria dell’Iran, le cui origini sono zoroastriane e partecipano di un culto della Luce, alle cavallerie occidentali e templari, che si sono costituite sull’onda delle crociate. La cavalleria medievale è nello stesso tempo militare, ospitaliera e gestisce un sistema bancario, in modo che l’attività economica sia egualmente compenetrata da un’etica luminosa derivante, in ultima istanza, a risalire dalla concatenazione degli avatara della stessa matrice iraniana e zoroastriana uscita dai primi popoli indoeuropei approdati nell’attuale Persia. L’Iran tradizionale, nonostante la sua islamizzazione di superficie, fu distrutto più tardi dai Mongoli. Non si è più risollevato e non ha più potuto ridiventare un “oriente”. Nell’opera di Henry Corbin, il più grande iranologo e islamologo francese del XX secolo, noi troviamo più di un riconoscimento al filosofo persiano islamico Sohrawardi che, depositario dell’originaria saggezza iraniana, insorge, prima della distruzione del suo paese da parte dei Mongoli, contro il bigottismo, il razionalismo meschino che è il suo corollario, e reclama il ritorno ad una disposizione nobile, luminosa, arcangelica e micheliana, la quale altro non è se non la tradizione persiano/avestica delle origini più lontane. Sohrawardi reclama una rivolta contro la casta dei preti meschini e, pertanto, contro tutti i pensieri e le pratiche che implichino delle limitazioni sterilizzanti. Questa disposizione è sempre apparsa sospetta alle caste dei preti o degli intellettuali, preoccupati di imporre dei corpus irrigiditi alle popolazioni loro sottoposte, in Occidente come in Oriente. Arthur de Gobineau, al quale si rimprovera un nordismo che si decreta caricaturale e diretto precursore del nazismo, è stato il primo, in Europa, ad attirare l’attenzione degli Europei del suo tempo, sul passato luminoso dell’antica Persia, modello più fecondo, ai suoi occhi, della Grecia, troppo intellettuale e troppo speculativa. Il modello cavalleresco, le cui prime tracce risalgono a Rama e a Zarathustra, induce una pratica del dominio di sè, superiore, per Gobineau, alla speculazione intellettuale degli Ateniesi. E, difatti, quando la Persia fu annientata da Mongoli, l’intero Islam cominciò ad affondare nel declino. Il fondamentalismo wahhabita è l’espressione di questa decadenza, nella misura in cui è una reazione eccessiva, caricaturale, al declino dell’Islam, ormai privo della grande Luce della Persia. Le povere smorfie wahhabite non possono mai, naturalmente servire da « oriente ».

La “nouva cancelleria imperiale” secondo Carl Schmitt

Se il modello della cavalleria persiana ed armena ha potuto costituire un modello per l’Europa, un modo operativo tradizionale senza pari, di tipo “kshatriya”, o a dominanza “kshatriya”, non può essere pensato al di fuori del progetto di “nuova cancelleria imperiale europea”, enunciato da Carl Schmitt. Questi evocò la necessità di formare un’istituzione di questo tipo, dopo le catastrofi che avevano colpito l’Europa nella prima metà del XX secolo e per preparare la rinascita che avrebbe seguito l’assoggettamento del nostro sub-continente. Questa cancelleria deve basarsi su tre gruppi di idee:

1) il diritto secondo la scuola storica fondata da Savigny, in cui il diritto è incluso in una continuità storica ben controllata, che permetta la durata degli ordini concreti della società;

2) sull’economia, che esce dalla scuola storica di Rodbertus, e più particolarmente sul corpus che ci ha lasciato in eredità Schmoller;

3) Sulla riscoperta della tradizione fondatrice, a partire dalle ricerche di Bachofen, che hanno avuto ripercussioni in Julius Evola, difensore dei principi “kshatriya”, e in Georges Dumézil, che ha ben messo in evidenza le funzioni delle società tradizionali indoeuropee, tra cui beninteso la funzione “kshatriya”. Nell’opera di Kantorowicz, che ha riabilitato in maniera particolarmente luminosa la figura dell’Imperatore Federico II di Hohenstaufen, noi troviamo pure un filone che ci condurrà all’autentico « Oriente » persiano/avestico, che non ha nulla a che vedere con gli « orienti », grandi o piccoli, delle parodie criminali e meschine che hanno condotto l’Europa a perdersi. Lo studio dell’itinerario di Federico II ci conduce forzatamente alla spiritualità attiva dei cavalieri germanici, guerrieri e ospitalieri, e dei modelli armeni e iraniani incontrati durante le crociate, specialmente attraverso la luminosa personalità di Saladino, principe kurdo.

Lo studio di questo vasto dominio di tradizioni è un lavoro colossale, soprattutto se accoppiato al preciso studio del nostro proprio quadro geografico (necessario se si vuole conoscere la terra che il nostro “Reich” deve fecondare). Un lavoro colossale che noi dovremmo condurre senza mai cedere, fino all’ultimo respiro, come ci ha mostrato Marc Eemans, esploratore degli orienti persiani, delle tradizioni germaniche e della mistica di Fiandra e di Renania. Ma il richiamo della Luce, arcangelica e micheliana, è un imperativo al quale non possiamo sottrarci, a meno di commettere un imperdonabile tradimento, soprattutto nei confronti di noi stessi.

Conferenza al seminario di “Synergon-Deutschland” (aprile 2000)

Tratto dal sito Eurocombate
Traduzione dal francese a cura di Belgicus

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