Il problema che ha sempre preoccupato, per non dire ossessionato, Adriano Romualdi (1940-1973), è stato quello dell’Europa, in quanto ampliamento del concetto da lui ritenuto angusto e superato di “nazione”. A quest’ultimo, seppellito dalla seconda guerra mondiale, avrebbe dovuto sostituirsene un altro, più vasto anche se con gli stessi parametri, tanto da definirlo Europa Nazione. Un “mito” da indicare alle nuove generazioni in quella che egli definiva “l’epoca dei grandi spazî”, degli scontri di ideologie “internazionalistiche” come possono essere “l’americanismo e il bolscevismo”, se vogliamo usare i termini che Evola già indicava nel 1929. Il problema dell’Europa, di una tradizione europea, di un mito europeo, Adriano Romualdi l’ha affrontato secondo tutte le angolazioni possibili, quasi a volere consegnare a una Destra un po’ spaesata uno strumento completo per le sue battaglie ideologico-culturali. Peccato che questa lezione non sia stata adeguatamente sfruttata nei venticinque anni che sono passati dalla sua morte, un po’ per mancanza concreta di punti di riferimento giacché i suoi scritti sono ancora sparsi su riviste e opuscoli di difficile reperibilità, sia forse anche per mancanza di volontà pratica.
Le ultime ore dell’Europa (Ciarrapico, 1989) è l’aspetto storico del problema, dal mio punto di vista meno importante rispetto ad altri, nonostante la carica di forte suggestione ed emotività che promana dalle sue pagine. La sua efficacia ritengo sarà maggiore se affiancata agli altri testi scritti da Adriano quasi inconsciamente a suo completamento, secondo le indicazioni accennate nella parte iniziale, Finis Europae, là dove scrive “La seconda guerra mondiale segna la lotta estrema dell’Europa contro la morte politica e si conclude con la sua lunga, disperata agonia”. E poi: “La guerra la cui fine si celebra non fu solo guerra civile e mondiale, ma la grande tragedia storica che ha portato alla detronizzazione dell’Europa e ha trasferito le insegne del comando del territorio del nostro continente alla Russia e all’America”. Rapidamente potrei indicare alcune importanti intuizioni storiche di Adriano Romualdi in questa sua opera che si ritrovano poi anche in altri saggî, intuizioni oggi fatte proprie da quegli storici tedeschi che – con aggettivo spregiativo – sono stati definiti “revisionisti”: la Germania come “potenza del centro”, e la sua una politica consequenziale dal 1870 al 1940; la guerra mondiale intesa come “guerra civile europea”; l’esistenza di altri e non meno infami sterminî oltre l'”olocausto”. Spunti che Adriano avrebbe sicuramente sviluppato in maniera più organica se ne avesse avuto il tempo.
Il problema Adriano l’ha poi affrontato da varî punti di vista in tre opuscoli, che riunivano in parte scritti precedenti, tutti pubblicati nei primi mesi del 1973, l’anno della sua morte. Sul problema di una Tradizione Europea comprende tre articoli apparsi sulla rivista Vie della Tradizione. In esso si affronta un argomento ancora oggi importante: quale sia la base di fondo unitaria, che rende gli Europei un organismo dalle identiche radici, e alla quale rifarsi, dalla quale partire, per parlare di Tradizione Europea. La classicità? Il cristianesimo? Il razionalismo? “Il problema di una tradizione europea”, egli scrive, “è quello di trovare una forma spirituale capace di contenere tre e più millenni di spiritualità europea”. Così Adriano ne ripercorre la vicenda partendo dalla preistoria sino ai nostri giorni e vede una risposta prima nella comune matrice indoeuropea che informa di sè tutti i popoli del Vecchio Continente, quindi nell’atteggiamento rivoluzionario-conservatore di coloro i quali “tentaron di fondere la chiarità delle origini con la nuova chiarità irradiantesi dalla tensione atletica e dal dominio della materia”: “Difficilmente”, afferma, “potremmo articolare la tematica d’una nuova spiritualità europea prescindendo da quei tentativi di fondere chiarità antica e audacia moderna”. Anche in questo intervento troviamo una importante anticipazione, anzi due: la necessità delle differenze culturali con la condanna dell’omologazione planetaria, e l’importanza dell’ecologia, entrambi argomenti polemici della Destra odierna. “La profanazione fin delle ultime aree lasciate a modelli culturali diversi ha inutilmente infettato il nostro modello, impoverendo la ricchezza spirituale del mondo. Una paurosa desolazione dell’intero pianeta ne è la conseguenza, una devastazione che oggi ci minaccia anche nei suoi riflessi ecologici”, scriveva Adriano venticinque anni fa e mi vengono in mente immagini che io considero emblematiche e allucinanti insieme: l’indigena polinesiana, nel suo abbigliamento tradizionale, a petto nudo che spinge un carrello pieno di scatolame in non so più che supermercato, e gli indios amazzonici che per far conoscere le loro ragioni devono manifestare come gli studenti occidentali, far cortei, tenere congressi, portare cartelloni e manifesti, usare megafoni e microfoni, tutti però regolarmente addobbati secondo i loro più serî cerimoniali tradizionali.
La Destra e la crisi del nazionalismo è l’ampliamento del saggio Oltre il nazionalismo apparso su La Destra nel 1972. Qui il problema è affrontato, come si diceva inizialmente, dal punto di vista ideologico: soltanto se si supererà un nazionalismo gretto e si giungerà – se si può dire così – a un nazionalismo internazionalista, quello europeo, il Vecchio Continente potrà reggere la sfida e il confronto dei due colossi che l’hanno sconfitto e che lo schiacciano. Infatti, scrive Adriano, “l’idea di nazione qual è stata elaborata dalla cultura romantica, come sintesi dei valori di un popolo in antitesi ai valori degli altri popoli europei, è insufficiente a contrastare i miti internazionalisti della democrazia e del comunismo di cui si fan scudo gli imperialismi russo e americano: solo un’ideologia del nazionalismo europeo lo potrebbe”. Di conseguenza, “occorre avere un’idea da contrapporre alle varie internazionali che svuotano dall’interno la vita delle nazioni”, soprattutto in un Paese come il nostro, e, come scrive sempre Adriano, “per mostrare alla gioventù che, oltre al sesso, la droga, il comunismo, c’è una grande idea da portare avanti che si chiama unità e potenza della Nazione Europea”. Parole profetiche se si considera che ormai da tempo anche degli intellettuali laici come Ernesto Galli della Loggia hanno riconosciuto in modo esplicito come la cultura progressista non abbia dato alcun “valore” di tipo spirituale alla gioventù. Al punto che un ex sociologo “sessantottino” come Francesco Alberoni alla fine del 1993 pubblicò un libro intitolato Valori, come a dire che non ne esistevano più…
C’è infine Idee per una cultura di Destra, formato da due saggî: il primo scritto in origine nel 1965 e poi ripubblicato aggiornato; il secondo scritto “appositamente”, e ancora oggi illuminante, sulla moda della “cultura di Destra” nei primissimi Anni Settanta. C’è da rammaricarsi che le nuove generazioni non lo abbiano conosciuto e meditato a sufficienza per la chiarezza delle idee esposte, dato che solo nel 1986 se ne è avuta una ristampa, anche se da allora, alla luce di quanto poi avvenuto e degli sviluppi presi dalla cultura italiana degli Anni Ottanta, certi drastici giudizî sulle scelte culturali dell’inizio del 1970 sono da rivedere. Il concetto base è che una vera e propria “cultura di Destra” non è esistita per il semplice motivo che essa non ha mai avuto “una visione unitaria dell’uomo, dei fini della storia e della società”, disperdendosi in mille rivoli anche antitetici, cosa che viceversa si riscontra nella “cultura di Sinistra”: “La vera causa del predominio dell’egemonia ideologica della Sinistra”, scrive lucidamente Adriano Romualdi, “risiede nel fatto che là esistono le condizioni per una cultura, esiste una concezione unitaria della vita materialistica, democratica, umanitaria, progressista”. Pur se nell’arco di venticinque anni moltissime delle certezze della Sinistra si sono sgretolate producendo una crisi cui tuttora assistiamo per il tramontare di molti falsi miti, l’analisi resta valida perché l’appropriarsi da parte della Sinistra di motivi, opere e autori genericamente di Destra sta a significare sì il suo fallimento, ma anche che a essa non è andata a contrapporsi ancora una unitarietà di fondo, quella che egli definiva “una vera idea della Destra, una visione del mondo”. E questa Weltanschauung comune, Adriano la cercava anche qui a livello non nazionale, ma europeo indicando ancora una volta nella “rivoluzione conservatrice” un punto di riferimento: “Prima sta un certo modo di essere, una certa tensione verso alcune realtà, poi l’eco di questa tensione sotto forma di filosofia, arte, letteratura”, diceva. “Il fine è la costruzione di una visione del mondo che si ispiri a valori diversi da quelli dominanti”, una concezione che deve essere “organica e non meccanica, qualitativa e non quantitativa”. E ancora un’intuizione di attualità: l’ecologia. “Sarebbe assurdo che la Destra abbandonasse alle sinistre il tema dell’ecologia quando tutto il significato ultimo della sua battaglia si identifica proprio con la conservazione delle differenze e delle peculiarità necessarie all’equilibrio spirituale del pianeta, conservazione di cui la protezione dell’ambiente naturale è una parte”. Nella conclusione di Sul problema di una Tradizione Europea aveva scritto: “Spezzata la cerchia gotica e cristiana delle antiche città, noi riprendiamo a guardare alla natura come fonte di meditazione religiosa“. Questa rapida analisi degli ultimi saggî di Adriano Romualdi rivela così un nucleo intorno al quale ruotano tutte le analisi e considerazioni. Un punto fermo in un periodo in cui, per usare le sue parole, dominavano ancora “incertezza e imprecisione ideologica”. Questa chiarezza e questa organicità del suo pensiero fanno capire quanto sia stata grave la sua perdita: egli era infatti l’unico delle nuove generazioni post-belliche ad avere allora, all’inizio degli Anni Settanta, una “visione d’insieme” (definizione questa riferita da Adriano a Evola) e coordinata, e a lui si sarebbe potuto far riferimento, anche perché del suo stesso maestro, Evola appunto, egli non accettava tutto acriticamente, ma quanto si adattava alla Weltanschauung che intendeva proporre. Si veda per esempio la posizione che Adriano aveva nei confronti del “tradizionalismo” di cui indicava i limiti con il suo “volersi collocare fuori da tutto il mondo moderno”, verso cui invece oggi “un generico atteggiamento di condanna non può bastare”.
Ci si potrebbe chiedere – del tutto accademicamente – come Adriano avrebbe sviluppato le sue posizioni e il suo pensiero nell’arco dei successivi cinque lustri, di come avrebbe confrontato con una realtà in evoluzione le sue idee, visto che questa realtà, attraverso tutti gli anni Settanta, Ottanta e Novanta si è molto modificata pur avendo dei punti di contatto con quella esistente all’epoca delle sue analisi e delle sue proposte, e quindi – arrivato a quasi 60 anni – che posizioni avrebbe assunto. E’ inutile però chiederselo. Restano tutte le sue originali indicazioni e un fatto essenziale: si può dire che oggi, nel 1998, a differenza di ieri, il 1973, è stata recepita e consolidata quella “concezione unitaria” che allora Adriano vedeva a Sinistra e non a Destra, e in nome della quale la Sinistra lavorava “a un fine determinato, alla diffusione di una certa mentalità, di una certa concezione della vita”? A me sembra che la risposta sia purtroppo ancora negativa: ci sono innumerevoli fermenti, probabilmente più di venticinque anni fa, ma non si è ancora arrivati a quel punto che egli auspicava e per il quale ha operato. Ecco il motivo per cui la sua lezione, pur con gli inevitabili limiti dovuti alla mancanza di sviluppo e di aggiornamento, resta sempre valida.
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Tratto da Algiza 10.
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