Il Battistero di Parma e il Duomo di Fidenza sono, con la Basilica di Sant’Andrea a Vercelli, i più grandi monumenti elevati in Italia da quella maestranza di costruttori che ebbe in Benedetto Antelami il suo più illustre rappresentante. Si tratta di edifici caratteristici della tradizione romanica padana, dove le forme di derivazione franco-provenzale e gli elementi tipicamente lombardi si compongono in un linguaggio robusto, schietto ed essenziale, che ben corrisponde al gusto padano per la semplicità e la chiarezza e – oserei dire – riecheggia il vigore delle parlate volgari di questa parte d’Italia.
Ebbene, a questo stile solido e concreto Benedetto Antelami seppe adattare anche elementi che provenivano da lontano: da culture né europee né cristiane – quasi a volerci testimoniare un intervento dell’Oriente a sostegno della spiritualità occidentale e delle sue modalità espressive. Citeremo un paio di esempi a tale proposito.
Sul timpano della porta meridionale del Battistero di Parma troviamo un bassorilievo che contiene una rappresentazione allegorica della vita umana. La lunetta è notissima, poiché si trova riprodotta in molti libri d’arte. Al centro, tra i rami di un albero variamente identificabile, c’è un ragazzo coi piedi appoggiati sul tronco: con la mano sinistra estrae del miele da un alveare e con la destra se lo porta alla bocca. Intanto, però, due bestie non facilmente definibili corrodono le radici della pianta, mentre un drago eruttante fuoco attende minaccioso, giù in basso, che il ragazzo cada. Ai lati dell’albero, a sinistra e a destra, abbiamo quattro tondi. Nel tondo inferiore sulla sinistra è raffigurato il carro del Sole, trainato da due cavalli: Apollo, col capo raggiante, tiene con la sinistra una sferza e una sfera, e tende la mano destra verso la notte, quasi a volerne fugare le ultime tenebre. Sempre a sinistra, nel tondo superiore, c’è una figura maschile che rappresenta il Giorno. Sul lato destro, nel tondo inferiore, abbiamo il carro della Luna, trainato da due tori: Diana, col capo sormontato dal disco lunare, li stimola con un pungolo che tiene nella mano destra. Intorno a questo medaglione, troviamo disposti due fanciulli nudi che suonano delle trombe e due fanciulli vestiti che con delle specie di bastoni cercano di frenare la veloce corsa del cocchio. Nel tondo superiore di destra, si vede la Notte, con una fiaccola nella destra; dietro di lei, si scorge la testa di un toro. Tutt’intorno al semicerchio della lunetta, si attorce una decorazione vegetale, che richiama le foglie e i frutti dell’albero centrale.
Si tratta, come abbiamo anticipato, di una rappresentazione allegorica, il cui tessuto simbolico doveva ricordare all’homo religiosus che la vita sulla terra viene incessantemente consumata dall’implacabile incalzare del tempo, mentre le fauci dell’inferno attendono chi ha anteposto la dolcezza dei godimenti effimeri al Sommo Bene garante di vita eterna.
Questa allegoria non è un’invenzione dell’artista. Se prescindiamo dagli elementi formali desunti dalla tradizione greco-romana (cioè i due medaglioni con Apollo e Diana), ritroviamo nella scena antelamica l’episodio contenuto in una parabola assai nota all’Europa occidentale coeva, grazie alle versioni latine (1) del Barlaam e Ioasaf bizantino (2) e alle successive rielaborazioni italiane e francesi (3).
La parabola viene raccontata da Barlaam, il maestro spirituale, al principe indiano Ioasaf. Un uomo, racconta Barlaam, alla vista di un unicorno imbizzarrito fuggì via a gambe levate, ma andò a finire in un burrone. Aggrappatosi ad un arbusto, “pensò che da quel momento in poi poteva starsene tranquillo. Ma quand’ebbe guardato bene, vide due sorci, uno bianco e uno nero, che senza posa rosicchiavan la radice dell’arbusto al quale era sospeso: ed anzi, eran proprio sul punto di reciderla di netto. Allora guardò in fondo al burrone, e scorse un drago orribile alla vista, che spirava fuoco dalle narici: aveva un aspetto torvo e minaccioso, spalancava ferocemente le fauci e non vedeva l’ora di inghiottirselo. E ancora aguzzò lo sguardo a esaminar la base d’appoggio su cui teneva puntellati i piedi: scorse quattro teste d’aspidi che si protendean fuori dalla parete rocciosa, cui si teneva stretto. Allora levò gli occhi in alto, e vide che dai ramoscelli dell’arbusto stillava qualche goccia di miele. Così cessò di ragionar dei flagelli che lo circondavano (…). Di tutto questo, e di sì orrendi spettacoli, sconsideratamente si dimenticò, e con tutto il suo sentire si concentrò sulla dolcezza di quella piccola goccia di miele” (4).
Il principe indiano Ioasaf, al quale Barlaam racconta la parabola, non è altri che Siddharta, il futuro Buddha. Lo stesso nome Ioasaf (o Iosafat) è la corruzione greca dell’arabo Yûdâsaf (o Bûdâsaf), che a sua volta costituisce un adattamento del sanscrito bodhisattva.
Infatti la storia rappresentata sul Battistero di Parma arrivò in Europa dall’India tramite la mediazione musulmana, tant’è vero che a monte della redazione bizantina, così come di quella georgiana, siriaca, ebraica (5), troviamo due testi arabi: il Libro di Bilawhar e Bûdâsaf (6) e il Calila e Dimna (7). Questi due testi rappresentano una sorta di svincolo centrale nella diffusione della nostra parabola: essi non solo sono all’origine della sua trasmissione nell’area europea, ma la hanno anche consegnata, mediante una versione etiopica (8), alle comunità cristiane dell’Africa. Il Calila e Dimna, in particolare, è la traduzione di una versione pehlevica del Pañcatantra.
La recensione della parabola contenuta nel Pañcatantra (9) è successiva ad altre più antiche. Procedendo a ritroso, troviamo due testi buddhisti (10), un testo giainista (11) e, infine, un passo del Mahâbhârata. Nell’undicesimo canto del poema, il saggio panduide Vidura, consigliere ed amico degli eroi Pândavâs, cerca di consolare il suo regale discepolo Dhrtarâstra, addolorato per la morte dei figli, dimostrandogli la vanità delle cose terrene e insegnandogli come sia possibile giungere alla Conoscenza. E’ nel quinto adhyâya (“lezione”) che Vidura introduce l’apologo del quale ci stiamo occupando, mentre nel sesto ne spiega il significato. Citeremo i punti essenziali, basandoci sulle traduzioni di Agostino Zucco (12) e di Jean-Michel Péterfalvi (13):
“Quella che è detta la foresta è il grande samsâra; la selva impenetrabile è la profondità del samsâra (…). Quello che poi dimora nel fondo, drago immane, esso è il Tempo (kâla), distruttore di tutti gli esseri esistenti, rapitore universale degli esseri dotati di corpo. – La liana poi cresciuta sopra la cisterna, nel cui intrico l’uomo sospeso rimane impigliato, è l’attaccamento alla vita (jîvitâçâ) degli esseri corporei (çarîrinâm) (…). Quelli poi che l’albero rodono topi striscianti (oppure: topi e serpenti), – (di continuo) i giorni e le notti, questi, dicono, sono degli esseri esistenti gli affanni; quelle che ivi fabbricano il miele sono dette essere i piaceri. – Le gocce poi che di continuo cadono, lo stillicidio del miele, queste le si possono facilmente capire: sono il godimento dei piaceri (kâmarasân), in cui gli uomini sono immersi. – Così vortica la ruota del samsâra: i risvegliati (buddhâh) lo sanno; per cui della ruota del samsâra recidono i vincoli, i risvegliati”.
* * * * *
E veniamo ad un altro bassorilievo antelamico nel quale è rappresentata la scena di una leggenda che si trova diffusa, come la parabola precedente, sia in Asia sia in Europa.
Sulla fronte della torre di destra del Duomo di Fidenza, la cosiddetta Torre del Trabucco, si trova incastrata una formella “tanto consunta da apparire ormai come un fantasma di Pietra” (14). Vi si distingue, seduta tra due grifoni, una figura umana che con la destra e la sinistra sorregge due aste, simili a due rocche per filare. Tale somiglianza indusse più d’uno a scorgere nella lastra il motivo della proverbiale “Berta che fila” (15) e vi fu chi identificò Berta con la madre di Corrado II, uno degli imperatori da cui Borgo San Donnino avrebbe ricevuto particolari privilegi (16). Altri videro nel bassorilievo una rappresentazione simbolica della Chiesa (17), mentre la spiegazione popolare individuò nell’enigmatica figura l’immagine di una strega che cerca di salire in cielo. E tra tutte è proprio quest’ultima l’interpretazione meno lontana dalla realtà.
Come ben vide il De Francovich, la formella presenta una raffigurazione del “Volo di Alessandro” (18) analoga ad altre attestate altrove: ci limitiamo a ricordare San Marco e la cattedrale d’Otranto (19). Come fonte di tale scena, il De Francovich cita un testo della fine del XII secolo, ampiamente diffuso nel Medioevo francese, Li Romans d’Alexandre (20). Ma quello citato dal De Francovich non è l’unico testo francese che contenga la leggenda del volo di Alessandro Magno; ve ne sono altri, che sono ancora più rispondenti al rilievo borghigiano (21).
Non sembrerebbe dunque necessario ricercare fuori dalla Francia l’origine dello schema iconografico presente a Fidenza, se quest’ultimo non fosse attestato anch’esso, come la parabola di cui abbiamo parlato più sopra, nella cultura di lingua greca. Ma, se il terminus ante quem del Barlaam e Ioasaf era collocabile nel sec. VIII, il testo greco che ha ispirato i suddetti racconti francesi è più antico, anche se è praticamente “vana, e, forse, poco interessante, una datazione complessiva dell’opera” (22). Comunque, per il tramite di alcune traduzioni latine (23), i testi francesi ci rimandano al Romanzo di Alessandro dello Pseudocallistene (24), dal quale riportiamo il passo attinente al volo di Alessandro.
“Ordinai – è Alessandro a rievocare l’avventura – che fossero catturati due degli uccelli che v’erano in quel luogo: erano enormi, bianchi, fortissimi e mansueti, tanto che stavano a guardarci senza scappare. Ne feci catturare una coppia e ordinai che non fosse dato loro cibo per due giorni: al terzo giorno diedi ordine di preparare un giogo di legno e di legarlo al collo di quegli uccelli; feci preparare quindi una sorta di grande canestro di pelle di bue e ci montai dentro, tenendo in mano una lancia lunga sette pechi, sulla cui punta avevo infilzato del fegato di cavallo. Gli uccelli subito si alzarono in volo, tesi per mangiare il fegato, e io andai su con loro, nell’aria, tanto in alto che mi sembrava di essere vicino al cielo: tremavo tutto perché l’aria si era fatta fredda, per il moto delle ali degli uccelli. Ed allora mi si fa incontro un essere alato, antropomorfo, che mi dice: – O Alessandro, è forse perché non riesci a far conquiste sulla terra, che cerchi quelle celesti? Torna giù in fretta, sulla terra, se non vuoi diventare pasto di questi uccelli!” (25).
Ma l’episodio rappresentato dall’Antelami ricorre anche in aree culturali diverse (e talora molto lontane) da quelle cui si rapportano lo Pseudocallistene e i racconti francesi. In una leggenda etiopica, Alessandro monta su una specie di Pegaso e “vola attraverso il paese delle tenebre fino al Paradiso, dove ritrova Enoch ed Elia” (26), due profeti che, guarda caso, vediamo raffigurati sulla facciata del Duomo di Fidenza. Più problematica, invece, potrebbe sembrare l’origine dell’analogo motivo nella fiaba ungherese di Szélördög (27), dove il viaggio aereo del principe in groppa al grifone costituisce probabilmente lo sviluppo di un tema particolare, caratteristico delle tradizioni ugrofinniche e siberiane in genere: quello del volo sciamanico. Nell’Oriente persiano, una storia come quella di Alessandro ha per protagonista il re Kay Kâ’ûs, il quale, volendo estendere al cielo il proprio dominio, fece legare al suo trono quattro aquile e le incitò al volo con lo stratagemma della carne infilzata sulle aste, ma alla fine dovette atterrare in un luogo deserto e dal fallimento dell’impresa ricavò disonore e vergogna (28).
E’ stato notato (29) che alcune tra le imprese leggendarie di Alessandro si trovano precedentemente riferite a eroi babilonesi come Gilgamesh e come Etana. In particolare, l’archetipo dell’ascensione di un sovrano al cielo è attestato in un poemetto mitologico paleobabilonese che racconta come il re Etana salì al cielo supremo, tenendosi aggrappato ad un’aquila, per riportarne la pianta della vita (30). Ed è interessante che alcuni sigilli paleomesopotamici rappresentino la scena di questa ascensione (31): remoti prototipi della lastra di Fidenza…
Ora, prescindendo da ogni questione relativa all’origine storica della scena rappresentata a Fidenza da Benedetto Antelami, cerchiamo di affrontare un quesito più sostanziale: qual è il significato che il linguaggio artistico antelamico connette al motivo dell’ascensione di Alessandro?
Se è vero che talvolta il senso attribuito nel Medio Evo cristiano al leggendario volo di Alessandro è quello dell’orgoglio umano, tanto che un teologo del sec. XII giunse a paragonare Alessandro al serpente del paradiso terrestre (32), è parimenti vero che la leggenda medioevale conobbe anche un’interpretazione “in positivo” della leggenda. Un libro assai diffuso nell’area francofona, il Cy Nous Dit, attribuiva il tentativo ascensionale del Macedone a un grande desiderio di conoscenza e lo presentava come un modello esemplare per l’uomo che aspiri al possesso perpetuo della bellezza celeste (33): è in questo spirito che un capitello della chiesa di Saint-Médard a Thouars ci presenta la scena del volo. D’altronde, l’arte medioevale sembra aver espresso, in genere, proprio questo significato positivo della leggenda. L’arte del Medio Evo, dice Charbonneau-Lassay, “intendeva fare di questo monarca, malgrado il fallimento della sua audace impresa, l’immagine dell’anima trasportata verso Dio dall’animale aquilo-leonino” (34), cioè dal grifone, che appare spesso, in coppia, accanto ad Alessandro, come avviene nell’immagine antelamica di Fidenza.
Il grifone, come altri animali alati dell’iconografia tradizionale eurasiatica, svolge generalmente una funzione psicagogica, e questo basterebbe per riconoscere una valenza positiva anche nella scena antelamica.
Ma, in base a quanto altrove (35) abbiamo avuto modo di rilevare circa l’orientamento dell’arte antelamica e in base anche al contesto iconografico dello stesso Duomo fidentino, possiamo dire che la scena rappresentata a Fidenza non si limita ad esprimere un significato di tipo psicagogico, ma riveste un senso più complesso e più profondo, analogo a quello che Denis Roman ha intravisto nelle versioni etiopiche della leggenda allorché ha scritto: “Alessandro il Bicorne è arrivato, secondo la storia, alle estremità dell’Oriente. Secondo la tradizione islamica, giunse ‘là dove tramonta il sole’. A questa espansione nel senso della ‘ampiezza’ può aggiungersi una ‘esaltazione’, simboleggiata dall’ascensione del conquistatore (…). La figura di Alessandro può essere così rapportata a una dottrina completa del Sacro Impero, integrante le due dimensioni, individuale e sopraindividuale, del simbolismo della Croce” (36).
“Ampiezza” ed “esaltazione”, termini con cui Denis Roman traduce i vocaboli arabi inbisât e ‘urûj, specifici del lessico esoterico islamico (37), “corrispondono rispettivamente alle due parti del Viaggio Notturno del Profeta, simbolo per eccellenza del viaggio iniziatico: la prima, chiamata Isrâ’ (trasporto notturno), da Mecca a Gerusalemme, corrisponde alla dimensione orizzontale della croce, mentre la seconda, quella celeste, designata col termine Mi‘râj (mezzo d’ascensione, scala), corrisponde alla dimensione verticale e giunge al Signore della Gloria Onnipotente” (38).
Ora, noi vorremmo far notare che l’Islam ha particolarmente insistito sugli aspetti della storia di Alessandro il Bicorne (Iskandar Dhû’l-Qarnayn) più densi di significato spirituale. Agli elementi scritturali forniti dalla coranica Sura della Caverna (39), che parlano dell'”espansione” del Bicorne da un’estremità all’altra della terra, bisogna accostare il dato sulla sua “esaltazione” contenuto in un hadîth riferito da ‘Amr ibn al-‘As: dopo la fondazione di Alessandria d’Egitto, dice il hadîth, “l’Altissimo invio a lui (a Dhû’l-Qarnayn) un angelo che lo prese e lo innalzò in cielo”, fino a mostrargli tutto il creato.
Questo hadîth, oltre a confermare dal punto di vista islamico la storia che ispirò Benedetto Antelami nell’ideare la lastra di Fidenza, ci spiega anche perché, in un altro hadîth, il Profeta Muhammad abbia detto che Dhû’l-Qarnayn è stato, tra tutti gli uomini, il più simile a lui. Infatti, se è vero quel che scrive Fadlallâh al-Hindî, cioè che “sia l’esaltazione (‘urûj) sia l’ampiezza (inbisât) hanno raggiunto la loro pienezza nel Profeta, che Allâh lo benedica e gli dia la pace” (40), sicché Muhammad costituisce il modello esemplare dell’Uomo Perfetto (al-insân al-kâmil), è anche vero che pure Alessandro il Bicorne, prima con la sua “espansione” orizzontale da Occidente ad Oriente e poi con la sua elevazione in cielo, realizzò in una qualche misura una perfezione analoga a quella del Profeta.
E se Federico II di Svevia venne paragonato dai Musulmani ad Alessandro Magno, non fu soltanto perché la geopolitica federiciana sembrava recuperare (benché in misura poco più che simbolica) quella dimensione mediterranea ed euroasiatica che aveva caratterizzato le grandi sintesi imperiali a partire, appunto, dall’epoca di Alessandro; dire che Federico era il nuovo Alessandro significava riconoscere nella funzione imperiale il significato più grande possibile.
L’arte di Benedetto Antelami, che sulla facciata del Duomo di Fidenza così come sullo zooforo del Battistero di Parma ha scritto con simboli di pietra i princìpi di una dottrina integrale del Santo Impero, attribuisce alla funzione imperiale rappresentata da Alessandro Magno il massimo grado della dignità. Come l’Alessandro “esemplare” del mito greco e della ierostoria islamica ha realizzato sia la dimensione dell'”ampiezza” sia quella dell'”esaltazione”, così l’Imperatore ideale delineato dall’arte dell’Antelami non è solo rex, ma è anche pontifex. E’ rex, in quanto “regolatore” dell’ordine cosmico e sociale: in rapporto al mondo umano egli rappresenta la sintesi integrale dell’umanità, considerata sia come natura specifica sia come totalità degli esseri umani. Ma è anche pontifex, in quanto “fa un ponte” tra la terra e il cielo, anzi, è lui stesso il “ponte”, l’asse tramite il quale lo stato umano comunica con gli stati superiori dell’essere.
E’ questa qualità “pontificale” che l’Antelami ha voluto rivendicare, col simbolismo del volo di Alessandro, alla funzione imperiale, facendosi sommesso portavoce di un’idea di Impero che il Medio Evo occidentale formulerà nel modo storicamente più compiuto soltanto all’epoca di Federico II di Svevia.
E Federico II nacque mentre l’Antelami lavorava al Duomo di Fidenza.
Note
1 L. Di Francia (Una parabola buddhistica sul Battistero di Parma, “Études italiennes”, aprile-giugno 1934) classificava secondo tre gruppi di manoscritti le versioni latine della parabola conosciute dall’Europa occidentale nel sec. II: “1° la vulgata rappresentata dagli attuali manoscritti, conservati dalle biblioteche francesi, di cui si servirono posteriormente, in ordine di tempo, Jacopo da Vitry, Vincenzo di Beauvais, e, in Italia, Jacopo da Varazze, per fermarci al secolo XIII (…) 2° un gruppo di manoscritti che portava ‘due bestie’, in cambio dei due topi, da cui discendono, nel XIII secolo, i racconti di Odo (Sermones), di Gui de Cambrai, di Nicola Bozon e il ‘fabliau‘ De l’unicorne et du serpent; 3° racconti alterati, i quali sostituivano alle gocce di miele i saporiti frutti dell’albero (Gui de Cambrai), oppure li avevano entrambi (Odo, fab. XLV e Sermones)” (pp. 127-128). Sia il brano di Jacopo da Varazze sia il fabliau sono riportati in: Michele Lopez, Il Battistero di Parma, Parma 1864, pp. 176-177 e 199-202.
2 Il testo greco si trova in: J.F. Boissonade, Anecdota Graeca IV, Paris 1832; P. Migne, Patrologia Graeca, t. XCVI, c. 857 segg.; St. John Damascene, Barlaam and Joasaph, London 1914 (rist. 1967).
3 Cfr. H. Peri (Pflaum), Der Religionsdisput der Barlaam-Legende, Salamanca 1959.
4 Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf, a cura di S. Ronchey e P. Cesaretti, Milano 1980, pp. 108-109.
5 La versione georgiana sta in: Balavarianis K’art’uli redakciebi, a cura di I. Abuladze, Tiflis 1957. La traduzione inglese di tale versione è data da D.M. Lang, The Balavariani (Barlaam and Josaphat). A tale from the Christian East, London 1966, pp. 161-162. La versione ebraica, redatta nella prima metà del sec. XIII dal rabbino Joele, è andata perduta; da essa attinse Giovanni da Capua per il suo Directorium humanae vitae, che riferisce la parabola (ed. Puntoni, Pisa 1884, p. 135 seg.; Hervieux, Fabulistes latins, Paris 1899, vol. V, pp. 108-109). Per la versione siriaca e le altre, cfr. H. Peri, op. cit.
6 Kitâb Bilawhar wa Bûdâsaf, a cura di D. Gimaret, Bayrût 1972.
7 Silvestre De Sacy, Calila et Dimna ou Fables de Bidpaï en arabe, précédées d’un mémoire sur l’origine de ce livre, Paris 1816.
8 E. Cerulli, The Kalîlah wa Dimna and the Ethiopic Book of Barlaam and Josaphat, in “Journal of Semitic Studies”, IX, 1964. Di E. Cerulli, si veda anche La letteratura etiopica, Milano-Firenze 1968, pp. 220-224.
9 Th. Benfey, Pantschatantra. Fünf Bücher indisch. Fabeln, mit Einleitung, Leipzig 1859, vol. I, p. 81 segg. Le edizioni italiane del Pañcatantra, da quella di Italo Pizzi del 1896 fino all’ultima uscita presso Guanda, seguono lezioni diverse e non contengono l’apologo in questione.
10 Sono gli Avadânas 1, 131 e segg. e 1, 190 e segg. tradotti da St. Julien ai nn. 32 e 53 della sua raccolta: Les Avadânas, contes et apologues indiens, Paris 1859, vol. I, pp. 131-134 e 190-193. St. Julien traduce due versioni cinesi provenienti da una raccolta compilata nel sec. XVI, ma costituita di materiale più antico, che talvolta viene fatto risalire alla predicazione diretta del Buddha. Una terza recensione cinese è stata tradotta da G.B. Moule, A buddhist sheet-tract containing an apologue of human life (cit. in A. Zucco, Il significato originario di un’antica parabola, Genova 1971, p. 40). Dalle vite indiane del Buddha dipende anche la versione manichea antico-turca; cfr. A. von Lecoq, Ein christliches und ein manichaeisches Manuskriptfragment in türkischer Sprache aus Turfan, in Sitzungsberichte der Preussischen Akademie der Wissenschaften, Berlin 1909, p. 1202 segg.
11 E’ lo Sthavîrâvalîcarita di Hemacandra, ed. H. Jacobi, Calcutta 1883, II, p. 68 segg.
12 A. Zucco, op. cit., pp. 77-82.
13 Le Mahâbhârata, trad. J.-M. Péterfalvi, Paris 1986, II, p. 303.
14 R. Tassi, Il Duomo di Fidenza, Parma, 1973, p. 103.
15 Mss. Pincolini, Archivio di Stato di Parma, anni 1086 e 1101. Accolgono tale interpretazione anche A. Kingsley Porter (Romanesque Sculpture of th Pilgrimage Roads, Boston 1923) e V. Ghizzoni, Medioevo fantastico in Borgo, “Parma nell’arte”, dicembre 1974, p. 68 e fig. 13.
16 Corsini, Dì che furono, cit. in: C. Saporetti, Il Duomo romanico di Fidenza, “Parma nell’arte”, 1a parte, 1970, p. 29.
17 N. Pelicelli, I monumenti dell’agro parmense. Salsomaggiore e dintorni, Parma 1920.
18 G. De Francovich, Benedetto Antelami architetto e scultore e l’arte del suo tempo, Milano-Firenze 1952, I, p. 341.
19 Per una rassegna più estesa e per la relativa bibliografia, si veda il nostro L’Antelami e il mito dell’Impero, Parma 1986, pp. 14-15 e note.
20 Lambert Li Cors et Alexandre de Bernai, Li Romans d’Alexandre, Stuttgart 1846.
21 Come, ad esempio, quelli in cui il passo che ci interessa viene così riassunto da L. Charbonneau-Lassay (Le Bestiaire du Christ, Milano 1975, p. 369): “Alessandro avrebbe catturato due grifoni; dopo averli fatti digiunare per tre giorni, li attaccò ai due lati del suo trono e innalzò verso il cielo, al di sopra delle loro teste, due lunghe lance che recavano sulla punta della carne arrostita; i grifoni affamati, per raggiungere questa preda, presero il volo e continuarono a salire per sette giorni, portando Alessandro fino alla sede di Dio; ne avrebbe varcato la soglia, se un angelo non gli avesse detto: ‘Perché, o Re, voler conoscere le cose del cielo, quando ignori ancora quelle della terra?’ Il re si rese conto della propria presunzione, abbassò le lance, e i grifoni lo ricondussero sul nostro globo”. L’Autore rinvia a due saggi: E. Talbot, Essai sur la légende d’Alexandre le Grand dans le roman français du XIIème siècle, p. 160; E. Mâle, L’Art religieux au XIIème siècle en France, p. 271.
22 M. Centanni, Nota al testo, in: Il Romanzo di Alessandro, Venezia 1988, p. xxxiii.
23 Giulio Valerio Alessandro Polemio tradusse il Romanzo nel sec. IV (ed. B. Kübler, 1888). L’arciprete Leone di Napoli stese la sua versione (Historia de preliis Alexandri Magni) nella seconda metà del sec. X (ed. F. Pfister, Heidelberg 1913).
24 Leben und Taten Alexanders von Makedonien. Der griechische Alexanderroman nach der Handschrift L, a cura di H. van Thiel, Darmstadt 1983.
25 Il Romanzo di Alessandro, cit., pp. 120-121. Peccato che la nota relativa, a p. 194, non menzioni tra le raffigurazioni artistiche anche il bassorilievo di Fidenza.
26 D. Roman, Les Revues, in “Études Traditionnelles”, gennaio-febbraio 1975, p. 140. Trad. it. Il tabot etiopico, in: M. Vâlsan, Il cofano di Eraclio, Parma 1985, p. 53. D. Roman riprende una notizia apparsa su “Les Dossiers de l’Archéologie”, 8, gennaio-febbraio 1975.
27 Diavolo Vento, in: C. Mutti, L’asino e le reliquie, Parma 1986, pp. 53-61. Per restare nella favolistica, citiamo anche la favola bolognese di Sandrino (diminutivo di Alessandro!) che sfama con la carne del proprio corpo l’aquila che lo porta in volo (La rigeina del trèi muntagn d’or, in Al sgugiol di ragazù, fiabe popolari bolognesi raccolte e pubblicate da C. Coronedi Berti, Bologna 1883).
28 La storia è raccontata da Firdausî nel libro VI dello Shâhnâmeh. Se ne veda la trad. it. di Italo Pizzi alle pp. 181-182 del vol. I del Libro dei Re, Torino 1915: “Fecesi in legno di Qumàr un sedio – Principe Kàvus, e afforzò del sedio – Le tavole con oro. Ai quattro lati – Lunghe aste infisse ed apprestò in tal guisa – Abil congegno. Pingui coscie d’agni – Appese all’aste (…) – Quand’ebber fame le aquile volanti, – Avida s’avventava alle sospese – Carni ciascuna. E sollevaro insieme – Quel sedio allora dalla terra e il trassero – Alle nubi dal suol (…)”.
29 Il Romanzo di Alessandro, cit., pp. 193, 194 e passim.
30 Poemetti mitologici babilonesi e assiri, a cura di G. Furlani, Firenze 1954, pp. 14-15. Questa versione combina la redazione paleobabilonese con quella neoassira. Tra le altre traduzioni, si veda quella di J. B. Pritchard (Ancient Near Eastern Texts Relating to the Old Testament, Princeton 1955, p. 118, utilizzata da S. Moscati in Le antiche civiltà semitiche, Milano 1961, p. 65.
31 E. D. Van Buren, Akkadian Sidelights on a Fragmentary Epic, “Orientalia”, XIX (1950), pp. 160-162.
32 Gotifredo da Admont (Homiliae in Scripturam, in: Migne, Patr. Lat., CLXXIV, col. 1131) scrive infatti in proposito: “formidine Dei contempta, in tantam elatus est mentis superbiam, ut magis sub proprio quam sub Domini dominio esse eligeret, dicens in corde suo: Ponam sedem meam ad aquilonem, similis ero Altissimo (Isa. XXIV, 13-14)”. Allo stesso ordine di idee si ispira un capitello del Duomo di Basilea, dove l’ascensione di Alessandro è rappresentata assieme al peccato originale e alla cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden.
33 J. Durand, Légende d’Alexandre le Grand, in “Ann. arch.”, XXXV (1865), pp. 141-158.
34 L. Charbonneau-Lassay, op. cit., p. 370. 35 C. Mutti, Simbolismo e arte sacra, Parma 1978; L’Antelami e il mito dell’Impero, cit.; La pietra racconta i misteri dell’uomo, “Speciale Parma”, suppl. a “Bell’Italia”, 41, settembre 1989.
36 D. Roman, art. cit., in M. Vâlsan, Il cofano di Eraclio, cit., p. 55.
37 I due vocaboli arabi, che D. Roman rende con ampleur ed exaltation sulla scorta di ‘Abdul Hâdî alias Ivan Aguéli (“La Gnose”, dicembre 1910 – gennaio 1911) e di René Guénon (Le Symbolisme de la Croix, Paris 1931, cap. III), si trovano in un trattatello di Fadlallâh al-Hindî al-Burhânapûrî (m. 1620) intitolato At-tuhfatu ‘l-mursalatu ilâ ‘n-Nabî (“Il dono inviato al Profeta”), la cui traduzione, di ‘Abdul Hâdî, è stata riprodotta in Le Traité de l’Unité dit d’Ibn ‘Arabî, Paris 1977, pp. 49-62.
38 M. Vâlsan, Références islamiques du “Symbolisme de la Croix”, “Études Traditionnelles”, 424-425, marzo-aprile e maggio-giugno 1971, p. 53.
39 Corano, XVIII, 85-98.
40 Le Traité de l’Unité, cit., p. 53.
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