Gianbattista Vico ricercò una “storia ideale eterna sulla quale corrono nel tempo le storie delle singole nazioni”, e tale ricerca doveva necessariamente volgersi alla terza dimensione della storia, al sottosuolo da cui si sviluppano i fatti di superficie. La Scienza nuova risiedeva appunto nella integrazione della storiografia con la filosofia, nella accezione della filosofia come momento metodologico della storia, e fecondissime furono le riflessioni del pensatore napoletano, riassunte in formule concettose che egli chiamava degnità, sull’evoluzione dei pubblici ordinamenti dall’età omerica sino al medioevo e al periodo delle monarchie pure. Un medesimo proposito di visione sintetica e chiarificatrice ispira Julius Evola quando in Rivolta contro il mondo moderno (2 ediz. Bocca, Milano, 1951) e ultimamente in Gli uomini e le rovine (Edizioni dell’Ascia, Roma, 1953) formula la legge della regressione delle caste, secondo cui un processo involutivo si sarebbe attuato con il passaggio del potere politico da originarie caste di capi spirituali aventi carattere sacrale ad aristocrazie guerriere e successivamente ad oligarchie mercantili.
Lo scrittore chiama mondo tradizionale quello governato dalle “élites” del primo e del secondo tipo, a cui si oppone il mondo moderno caratterizzato dal tirannico primato dell’economia, e occorre notare che ai due termini egli non attribuisce soltanto un significato cronologico ma li considera anche come due distinte forme dello spirito umano, presenti e variamente operanti in ogni tempo.
Predominava nelle civiltà tradizionali l’elemento sovrannaturale, cioè lo spirito “concepito non come una astrazione filosofica bensì come una realtà superiore e come meta di una integrazione trascendente della personalità”, mentre nell’età moderna il razionalismo distruggendo il principio di autorità e negando ogni valore superindividuale consegnò la direzione della società al Terzo Stato e all’antica casta dei ‘mercanti’, moto regressivo che non può arrestarsi e che procede oggi verso il suo compimento che è la civiltà (o inciviltà) collettivistica del Quarto Stato.
Chi respinga come reazionaria questa sintesi storica (la preistoria e la storia delle prime civilizzazioni è una materia malsicura nella quale si possono trovare argomenti atti ad avvalorare le tesi più diverse) non può parimenti respingere la crisi dell’Occidente, intorno alla quale da un secolo si affaticano i pensatori e che ha lontane radici teoretiche e pratiche nella demolizione delle normali gerarchie umane.
D’altronde il reazionarismo di Evola ha un significato trascendente la sfera economica, poiché nelle contrapposte classi dei capitalisti e dei proletari egli vede due facce d’una stessa realtà che è la “demonia dell’economia”, l’assunzione d’una categoria strumentale a categoria finalistica, conseguente alla “invasione barbarica” dell’industrialismo.
L’illusorio miraggio delle conquiste tecnico-industriali, che egualmente abbacina i due antagonisti, vela ai loro occhi il deserto spirituale in cui il materialismo li ha condotti e dove essi officiano all’ultima divinità superstite: il progresso, tra i possibili fasti del quale vi è la distruzione scientifica dell’umanità.
Nec mala nostra nec remedia pati possumus: la parola di Cicerone è a buon diritto applicabile al nostro tempo, e nessuno nega la crisi, mentre il fatto stesso che della suddetta possibile distruzione si discorra e si scriva ovunque con fare tra compunto e snobistico, prova l’abisso di demenza in cui siamo precipitati. Lo sterminio atomico sospeso sul nostro capo si annunzia come l’epilogo d’un cammino che due secoli or sono prese le mosse dal “diritto alla felicità” consacrato nella Dichiarazione di Filadelfia.
Il termine di destra non può attribuirsi ad Evola se non in quanto egli difende i valori spirituali che la corsa a sinistra, allora iniziata, ha quasi interamente distrutti, difesa disperata poiché, come con verità lo scrittore osserva, gli stessi uomini disposti ad arginare la rovina sono più o meno intaccati dalle tossine del male che essi vogliono curare, delle quali la cultura moderna è impregnata. Nessuno come Evola ha operato su di sé una disinfezione altrettanto radicale e dispone di un coraggio mentale paragonabile al suo.
In Gli uomini e le rovine, che si apre con chiara presentazione del Principe Valerio Borghese, Evola riunisce sistematicamente temi che in parte aveva fatto oggetto di trattazioni giornalistiche.
Di importanza essenziale è il capitolo dedicato ai concetti di sovranità e di imperium, dall’autore riferiti a un principio inderivabile e incondizionato, ordinatore del mondo umano: istanza contrastata da Massimo Rocca nel periodico Italia di tutti (30-4-1953). La critica del Rocca, fondata sulla premessa immanentisca d’un giusnaturalismo che vede nella società il soggetto e non l’oggetto della politica, ripete in sostanza l’obiezione contro l’immortalità dell’anima sollevata nel Fedone da Simia, il quale concepisce l’anima come armonia del corpo e quindi da questo condizionata. Al discepolo Socrate oppone che l’anima pur poggiando sulla vita fisica ha leggi sue proprie, tali da piegare quella vita a proprii fini. Il rapporto resta valido sostituendo ai termini corpo e anima i termini società e Stato, il quale è da intendersi come l’entelechia, la forma o principio ordinatore della società. Tale relazione complementare è riscontrabile nelle origini di tutti gli organismi politici ed ha un chiaro esempio nel Regno di Prussia sorto dall’Ordine dei Cavalieri teutonici e creatore, o meglio formatore, della nazione germanica.
Posto questo dualismo di forma e materia della politica, occorre riconoscere che l’azione della prima non è necessaria soltanto durante il costituirsi e svilupparsi dell’aggregato umano, bensì anche in ogni successiva fase affinché questo non graviti verso gli stadi più bassi degli appetiti e degli istinti elementari. Sotto l’iridescente vernice del progresso tecnico tale gravitazione è in atto da quando i dotti hanno fatto tabula rasa di ogni credenza nel sovrasensibile, e gli indotti ne hanno tratto le inevitabili illazioni edonistiche, non lasciando spazio ad altro ordine che non sia l’instabile equilibrio dei contrapposti equilibri. Equilibrio così instabile, che i paesi i quali non siano all’interno e nelle relazioni esterne lacerati dalle rivalità e dagli odii costituiscono piccole oasi in un mondo convulso e sconvolto.
È ancora possibile un arresto del processo involutivo?
Lo scrittore si richiama talora a una élite a carattere spirituale, formata da uomini esprimenti un ideale di virilità immateriale, dotati di una fedeltà incondizionata, ascetica, incrollabile all’idea che li accomuna.
Come nell’antica Grecia sarebbe da attendere un ritorno degli Eraclidi? Siffatti uomini non possono formarsi nel presente “clima” che ormai si è diffuso a tutta la terra senza rispettare alcuna Tule boreale, e l’esperienza induce a pensare che il ciclo debba svolgersi sino al compimento e che solo dalle “rovine” possano sorgere gli “uomini”.
Evola nutre forse la nobile ambizione d’essere il Socrate che Kierkegaard auspicava per la nascita d’un ordine nuovo.
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(Recensione apparsa sul Secolo d’Italia del 13 maggio 1953, e riportata, nella sezione ‘Archivio’, in Margini n. 32, aprile 2001.
Andrea
Ottima recensione per un libro così particolare.