Quel che stupisce di Ernst Jünger non è la pur straordinaria longevità, ma la lucidità con cui percorre questi estremi anni della sua vita. Versatile e operoso, continua a scrivere con la disinvoltura di un uomo maturo, passando da un appassionante romanzo giallo, Un incontro pericoloso (Adelphi 1986), a un diario di un viaggio in Malesia e Indonesia, Due volte la cometa (Guanda 1989), a saggi e raccolte di aforismi. I suoi libri vengono tradotti con qualche anno di ritardo, sicché soltanto ora, mentre compie centouno anni, ci giunge La forbice (Guanda), che scrisse quando ne aveva appena novantacinque: una serie di brevissimi capitoletti che seguono un percorso spiraliforme, enigmatico, balenante di intuizioni, di immagini, di domande. Chi vi si addentri non si aspetti un discorso formalmente compiuto, dovrà porsi in ascolto per captare le più impercettibili risonanze, perché sono queste a dare il tono alla riflessione. Lo stile stesso, come ha osservato Quirino Principe nella sua introduzione, è meno smagliante, meno trasparente che nel passato, ma forse più adamantino: ma sarà difficile accorgersene per i lettori italiani perché la traduzione di Alessandra Iadicicco non è sufficiente per restituircene interamente l’aroma.
Ogni lettore sarà colpito dai temi che più lo interessano, lo preoccupano, lo incantano. Impossibile riassumerli tutti, possibile invece percorrere quelli che sono le nervature più consistenti del libro, cominciando dalla continua presenza dell’invisibile nel tessuto quotidiano così come nell’opera d’arte, la quale altro non è se non visione poiché è dal Silenzio, dal non manifestato, che essa sorge, è nel contatto con il trascendente che trae la sua forza: «Non è il mondo, sia pure con quanto di bello o di tremendo gli appartiene, né la società con le sue virtù e i suoi vizi, ciò che conferisce all’opera d’arte riuscita la sua durata. Doveva sopraggiungere qualcosa che si sottraeva all’intenzione: come il contatto di una mano su una spalla, come il fugace bagliore di un faro che nella notte sfiora la fronte. Ciò che è senza tempo si ripete in modo sorprendente nel tempo».
Jünger accenna a un bagliore: metafora che rimanda a quella dimensione di luce e di splendore che appare negli astri, non casualmente chiamati con i nomi degli dei, e si cela persino nelle cose apparentemente inanimate, come nelle Miniere di Falun di Hoffmann, dove Elis Fröbom, indirizzato dallo Spirito della Montagna, entra in una caverna dove lo splendore della pietra gli permette di scorgere persino ciò che è nascosto al di sopra delle nuvole. D’altronde non è una voce comune fra coloro che sono ritornati in vita dal coma di aver incontrato una indescrivibile luce proveniente dall’aldilà? Me lo narrò in una delle sue bizzarre cartoline postali anche Giuseppe Prezzolini, quasi centenario, dopo un suo tentato suicidio. Luce così straordinaria, così pacificante che molti provano delusione tornando in vita fino al punto di domandare: «Perché non mi avete lasciato morire?». È quel luogo di luce dove la forbice, che dà il titolo al libro, non taglia: la forbice della divisione, della morte, dell’esclusione, l’opposto della spirale che avvolge tutto, nulla separa, l’opposto del tempo senza tempo, dell’eternità.
Ma altri temi costellano queste pagine spiraliformi, dove si avvertono le presenze di una vena sapienziale che dal platonismo giunge fino a Hölderlin e Goethe, attraversando il nichilismo di Nietsche: i territori della visione, della profezia, della preveggenza che mostrano come il tempo possa essere percorso, anticipato in una sorprendente incursione che rende paradossalmente passato il futuro visitato; la storia vista senza meta, il cammino valutato più importante della meta poiché è in esso che si realizza il destino di un uomo: «Il cammino», scrive Jünger, «è più importante della meta, nel senso che esso la contiene in ogni istante, soprattutto in quello della morte». In esso è significativo ogni tratto, è il cammino il compito di ogni persona. «La meta è sempre possibile, sempre e dappertutto; il viandante la porta con sé, come il suo orologio. E se il cammino è pensato come una passione, egli si porta la sua croce fin dal principio. Nessuno muore prima di aver realizzato il suo compito».
Vi sono infine quelle riflessioni sulla nostra epoca che i lettori dello scrittore tedesco conoscono già dai suoi libri precedenti: la carica elettrica e plutonica dell’attuale atmosfera dove trionfa la potenza del fuoco sulla terra, l’aria e l’acqua, la riduzione in cifre della società, il senso di insoddisfazione che le istituzioni e le conquiste tecnologiche, pur nel benessere generano nell’uomo contemporaneo insieme con una difficilmente sopportabile inquietudine. E soprattutto la profezia secondo la quale sta giungendo il secolo dei Titani; che tuttavia è destinata a tramontare: «Che i Titani non siano alla fine sufficienti», conclude enigmaticamente lo scrittore, «fu dimostrato in forma augurale dal naufragio sull’iceberg della nave battezzata con il loro nome. È ben raro che Cassandra scenda, come allora, nei dettagli».
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Tratto da Il Giornale del 29 marzo 1996.
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