Gli ultimi giorni di Mussolini costituiscono un’intricata matassa: da oltre sessant’anni storici e giornalisti da una parte, e mestatori politici dall’altra, si ingegnano per cercare di districarla oppure per complicarla. Sappiamo che in quei giorni sulle rive del lago di Como si dettero convegno interessi diversi, dai servizi segreti americani, inglesi, svizzeri, ai partigiani comunisti e a quelli anticomunisti. Tutti volevano Mussolini: vivo o, più spesso, morto. Sappiamo anche che il famoso “oro di Dongo”, cioè le riserve auree della RSI, come appare appurato, servì al PCI per comprarsi la sede di via delle Botteghe Oscure e per farsi il tesoretto con cui è campato per decenni.
La recente uscita del volume di Giorgio Cavalleri, Franco Giannantoni e Mario J. Cereghino La fine. Gli ultimi giorni di Benito Mussolini nei documenti dei servizi segreti americani (1945-1946), pubblicato da Garzanti, avrebbe la pretesa di dire la parola definitiva in argomento. Gli autori scrivono che, dopo la loro consultazione degli archivi americani, ogni altra precedente ricostruzione deve essere considerata superata o frutto di illazioni. Cereghino ha avuto libero accesso alla consultazione di due memorandum, conservati negli archivi del I nel Maryland, stesi nel 1945 dall’Office of Strategic Services (OSS), che farebbero testo come fonti dirette e autentiche circa le ultime ore vissute dal capo del Fascismo. Da questi documenti esce in ogni caso un primo dato: le ricostruzioni fatte dai comunisti sin dal primo maggio 1945 e poi nel 1947 in più puntate da Walter Audisio, uscite su “L’Unità”, seguite dalle cosiddette rivelazioni dell’ex-partigiano Lampredi nel 1996, non sarebbero che accomodamenti posteriori, reticenti e intesi a coprire fatti e persone.
Del resto, è risaputo che subito dopo la “liberazione” tra i partigiani che ruotarono intorno al Duce in quei giorni di aprile si scatenò una faida. E che alcuni “compagni” non troppo ossequienti verso le direttive del PCI, che avevano visto e saputo troppo, ci rimisero la testa. Il racconto addomesticato dai comunisti prevedeva il lancio della figura del “vendicatore”, il “colonnello Valerio”, sorto come dal nulla per giustiziare il tiranno in nome del popolo italiano. Questa versione propagandistica viene contestata anche dagli autori del libro segnalato. Per altro, già da molti anni si sapeva che le cose andarono diversamente, che a uccidere Mussolini e Claretta Petacci non fu Audisio ma con tutta probabilità il partigiano Moretti, che ad essere presenti furono in parecchi, e che c’è anche il fondato dubbio che tutta la storia sia stata montata a posteriori, per abbellire uno scenario altrimenti inglorioso per i partigiani.
Gli storici de La fine confermano che la versione di comodo fornita dal PCI fu garantita da svariate eliminazioni nei primi giorni del maggio 1945. I testimoni scomodi vennero liquidati alla sovietica: il partigiano “Lino”, uno dei due carcerieri del Duce nella casa dei De Maria a Bonzanigo, fu ucciso la notte tra il 4 e il 5 maggio, il “capitano Neri” sparì il 7 e la sua fidanzata, la partigiana “Gianna”, anch’essa presente il 28 aprile al momento della fucilazione di Mussolini, fu eliminata nel giugno seguente insieme ad altri due o tre testimoni dei fatti. E persino Franco De Agazio, il giornalista direttore del settimanale “Il Meridiano d’Italia”, che per primo aveva indagato sulla vicenda rivelando la vera identità del “colonnello Valerio”, venne ucciso agli inizi del 1947. Insomma, qualcosa di mafioso e di omertoso sembra intimamente connesso con l’assassinio di Mussolini.
Giorgio Pisanò, nel 1956, nel corso di una sua inchiesta per il settimanale “Oggi”, riuscì a incontrare Sandrino, il partigiano “Menefrego”, l’altro dei due che insieme a “Lino” aveva fatto la guardia a Mussolini e alla Petacci nella notte tra il 27 e il 28 aprile, e cercò di farlo parlare.
Tra mille reticenze, ma con l’ammissione che si trovava sotto minaccia di morte qualora avesse parlato, Sandrino fece chiaramente capire al giornalista che dietro tutta la faccenda c’era qualcosa di poco pulito, ma che aveva troppa paura per parlare. Poi, nel 1996, Pisanò raccolse nel volume Gli ultimi cinque secondi di Mussolini il risultato di quarant’anni di ricerche sulla vicenda. Sulla scorta soprattutto della sensazionale testimonianza di Dorina Mazzola, all’epoca ragazza, che abitava proprio davanti alla casa De Maria, e che fu testimone oculare dell’esecuzione della Petacci, Pisanò così ricostruì le fasi del dramma: «Mussolini, avendo capito che erano arrivati per ucciderlo, si era difeso, forse impugnando quella pistola che secondo alcuni gli aveva lasciato il capitano Neri; uno dei partigiani gli aveva sparato contro, ferendolo in maniera non grave… poi l’avevano spinto fuori dalla stanza e giù per le scale fino al cortile… e lì l’avevano finito». Poco dopo sarebbe toccato a Claretta, ammazzata senza tante storie. E Pisanò concludeva che con tutta probabilità fu Longo in persona a compiere il massacro, giunto a Como espressamente inviato dai falchi del CLNAI, tra cui Pertini e Valiani. Questa ricostruzione rimane la più credibile. La stessa autopsia stesa dal dottor Alessiani stabiliva infatti che Mussolini e Claretta erano morti svariate ore prima della finta “fucilazione”, orchestrata davanti al cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra. Pisanò registrò anche testimonianze di persone che avevano raccolto i due cadaveri davanti alla villa: niente sangue per terra e rigidità dei corpi, segno che la morte era avvenuta in altro luogo e diverse ore prima: «Mussolini e la Petacci, allora, non erano stati uccisi davanti al cancello. Ce li avevano portati già morti, dopo averli ammazzati lontano da lì. Ma dove? Il dottor Alessiani – continuava Pisanò nel suo libro del 1996 – sosteneva che erano stati uccisi in casa De Maria, e che la Petacci era stata colpita a morte nel tentativo di difendere Mussolini gettandosi sul suo corpo già raggiunto dai primi proiettili». I riscontri effettuati sulle foto, che mostravano i fori dei proiettili sui corpi del Duce e di Claretta, andavano anch’essi in questa direzione.
Ma non occorre andare oltre sulla strada degli indizi, delle prove e delle testimonianze. Probabilmente, ormai, la verità chiara non la sapremo mai. Quello che però sappiamo con certezza è che qualcosa di grosso fu tenuto nascosto dai comunisti. Sandrino lo disse apertamente a Pisanò nel ’56: «Non è andata come la raccontano. Ma io non posso dirti niente di più. Sono legato al segreto». Il recente libro La fine, su questo terreno, non smentisce nulla di quanto affermato da Pisanò. E tace sui famosi documenti che il Duce portava con sé e che furono certamente frutto di mercato tra americani e partigiani alla Prefettura di Como e anche dopo, come documentò nel 1982 Gaetano Contini nel libro La valigia di Mussolini. Piuttosto, i tre autori ci illuminano su altri dettagli. Uno è la documentazione dei rapporti di collaborazione tra i servizi americani e i comunisti: e questo già non è poco e getta ombre sulla pretesa “gara” tra di loro per mettere le mani su Mussolini. In sostanza: siamo sicuri che gli americani volessero Mussolini vivo? Altro dettaglio importante che emerge è che una liberazione del Duce nei giorni 27 e 28 aprile da parte dei fascisti era ancora possibile. Dai documenti esaminati da Cereghino in America si apprende che questo fu un costante timore dei partigiani, che sul lago di Como erano pochi, divisi tra loro da rivalità e male armati. Nel primo memorandum, stilato ai primi di maggio dall’agente Lada-Mocarski, e poi nella cronaca fatta da Giovanni Dessy, agente segreto della Marina italiana, si legge che nel pomeriggio del 27 aprile a Como «erano arrivate da Bergamo tremila camicie nere che si posizionarono nei dintorni della città. Erano bene armate e avevano molte mitragliatrici». Che, sempre intorno a Como, c’erano consistenti reparti dell’esercito di Graziani; che la mattina del 26 erano già a Como, inviatevi da Pavolini, altre forze fasciste, «circa 1500 uomini, 6/7 autoblindo e un centinaio di veicoli»; che nello stesso momento le Brigate Nere stavano anch’esse «convergendo su Como», in previsione di arrivare a Menaggio «scelta come linea di prima resistenza». Si legge poi che nelle ore in cui Mussolini veniva catturato «le forze fasciste erano ancora padrone della situazione, perché più numerose e con armi migliori»… Senza contare i molti sbandati, i tre battaglioni della Milice Française di Darnand in rotta dal fronte occidentale… e poi i tedeschi, che a migliaia transitavano in zona rifluendo dal Po: il perché le cose andarono come andarono, dopo queste conferme dei documenti conservati in America, e raccolti nell’immediatezza degli avvenimenti, è un ulteriore mistero.
Mussolini fu lasciato solo, egli stesso non chiamò a raccolta i suoi. Eppure, sempre dagli archivi del Maryland, esce la conferma che Mussolini non pensò affatto a una fuga personale, magari in Svizzera, ma che tutto doveva andare nel senso di una resistenza finale a Como o in Valtellina. Nei memorandum si dice con chiarezza che Porta, il federale di Como, confidò a Castelli, membro del Consiglio federale fascista pure di Como, che l’autocolonna con cui viaggiava Mussolini «era diretta in Valtellina». Le informazioni raccolte dagli agenti segreti riportano che l’intendimento finale di Mussolini era di «resistere fino all’ultimo con le ultime truppe rimaste fedeli nella provincia di Como» e che la mattina del 26 aprile si aspettava Pavolini: «era atteso con il grosso delle forze fasciste quella stessa mattina». Come mai il Duce sia invece improvvisamente partito da solo per Menaggio il giorno dopo, come mai si sia infilato poi nell’imbuto della colonna sulla quale fu fermato a Musso (per altro composta da numerosi uomini armati, italiani e tedeschi), come mai non si attuarono collegamenti con il grosso dei fascisti, che era vicinissimo e che facilmente avrebbe potuto intervenire a liberarlo il 27 e ancora nella notte sul 28 – avendo di fronte solo poche decine di partigiani male armati e molto preoccupati per questa prospettiva – è a tutt’oggi materia oscurissima.
Il fatto che rimane è che, anche alla luce dei documenti americani esaminati, non risulta alcuna intenzione di fuga da parte di Mussolini, ma semmai solo un susseguirsi di stati d’animo umani, troppo umani. In ogni caso, ciò che emerge dai documenti è che l’estrema battaglia – quella che avrebbe permesso agli ultimi combattenti fascisti di “morire col sole in faccia” – non fu un inganno disperato, ma un piano conosciuto e condiviso, che fu alla base degli spostamenti delle colonne fasciste nei giorni 25, 26, 27 e ancora 28 aprile.
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Tratto da Linea del 18 settembre 2009.
giuseppe
un crimine privato per atavici rancori personali di Audisio caporale e non colonnello e li duce, fatto passare per esecuzione politica. In quei momenti privi di governo e di leggi tutto faceva brodo. Beppe.