È ammissibile, è opportuno che il comandante di una spedizione, dopo che il suo dirigibile è precipitato, accetti di mettersi in salvo per primo, lasciando sul ghiaccio il suo equipaggio, e sia pure per delle ragioni umanamente e tecnicamente valide?
È, questo, l’interrogativo che ha troncato la brillante carriera di un giovane e ambizioso generale dell’Aeronautica italiana, nonché uno dei massimi esperti mondiali del «più leggero dell’aria», quando era ancora aperta la disputa sulla sua eccellenza rispetto al «più pesante dell’aria» (ossia l’aeroplano), che solo il disastro dell’Hindenburg, al suo arrivo a New York, avrebbe definitivamene chiuso a favore del secondo, alcuni anni dopo.
Tutta la vita del generale Umberto Nobile, dopo quel fatale incidente che, nel 1928, pose fine alla trasvolata del Polo da parte del dirigibile Italia, non fu che un continuo, angoscioso interrogarsi con se stesso su quella fatale decisione, presa allorché il pilota svedese Lundborg, che poteva portare con sé uno solo dei superstiti, pretese che a salire a bordo del suo velivolo fosse proprio lui, il capo della spedizione.
Era stata la decisione giusta?
Era stata una decisione saggia?
Certo, Nobile era ferito; e, inoltre, egli era l’uomo più adatto ad organizzare le operazioni di soccorso, per portare in salvo al più presto possibile anche gli altri naufraghi dell’Italia, i quali avevano approvato che fosse proprio lui il primo a partire con l’aereo di Lundborg.
E nessuno di loro avrebbe potuto immaginare che il brusco peggioramento della visibilità e il movimento del pack avrebbero fatto sì che, per altri lunghi giorni, la posizione della «tenda rossa» dei superstiti (così chiamata perché dipinta di rosso, proprio per richiamare la ricognizione aerea, contro il bianco candido del mare ghiacciato) sarebbe stata nuovamente perduta; e che il dramma del salvataggio si sarebbe gravemente complicato.
Ma, tuttavia, l’interrogativo, implacabile, rimane: aveva fatto bene Nobile a salire a bordo del velivolo di Lundborg, lasciando a terra i compagni, stremati e infreddoliti?
Un’ombra, da quel momento, si era posata sulla sua reputazione; l’intera opinione pubblica mondiale lo aveva giudicato severamente, tanto più che il generoso esploratore norvegese Roald Amundsen, il conquistatore del Polo Sud, aveva perso la vita proprio nel tentativo di individuare la «tenda rossa», precipitando con il suo aereo.
Già traversando l’Europa per ferrovia, dopo il salvataggio dei superstiti, si vide che l’atteggiamento dell’opinione pubblica era ovunque pesantemente critico nei confronti di Nobile e anche degli altri Italiani: come è testimoniato – fra l’altro – dal libro di memorie di uno di essi, Felice Trojani: La coda di Minosse.
Per tentare di rispondere allo scottante interrogativo, il regista Mikahail Konstantinovic Kalatozov ha immaginato, nel suo film La tenda rossa, del 1969, che si riunisca una specie di tribunale formato dai principali protagonisti della drammatica vicenda, compreso lo scomparso Amundsen, il che dà un tocco di surrealismo a quella giù strana assise.
Il lettore avrà notato che, fino ad ora, nella serie di articoli Un film al giorno (come anche, del resto, in quella Una pagina al giorno e in quella Un film al giorno) ci siamo occupati solo ed esclusivamente di opere italiane. E ciò non per bieco nazionalismo culturale, ma per ricordare i tesori di arte e capacità creativa della nostra nazione, nonché per reagire a una esterofilia che investe ormai tutti i campi, non solo della cultura, ma anche della vita quotidiana, compresi i prodotti del supermercato, la marca dell’automobile e la clinica in cui ricoverarsi (beninteso, per chi può permettersene una in Svizzera o negli Stati Uniti, magari per farsi un prezioso trapianto di capelli….).
Se, in questo caso, abbiamo deciso di fare una parziale eccezione (parziale, perché il film La tenda rossa è stato una co-produzione italo-sovietica), è perché vi hanno recitato alcuni bravi attori italiani, e perché esso racconta una difficile pagina di storia italiana; che offre, al tempo stesso, l’opportunità di riflettere su una questione deontologica e morale che varca i confini di una singola nazione, e non cessa di appassionare e dividere le opinioni, a tanti e tanti anni di distanza.
Ricapitoliamo, innanzitutto, la vicenda che portò al dramma della «tenda rossa», soggetto del bel film di Kalatozov.
Umberto Nobile, nato a Lauro, in provincia di Avellino, nel 1885, era stato l’ideatore dei nuovi dirigibili semirigidi della classe N e ne aveva costruiti diversi per conto di varie nazioni: Stati Uniti, Giappone, Spagna e Argentina.
Alla sua attività di esperto di questioni aeronautiche aveva affiancato quella di esploratore polare, unendosi nel 1926 ad Amundsen e ad Ellsworth a bordo del dirigibile Norge, nella sua trasvolata artica.
Due anni dopo, nel 1928, egli volle ritentare l’impresa, a fini essenzialmente scientifici, col dirigibile Italia, compiendo tre voli sulla calotta polare e portandosi al di sopra di regioni quasi inesplorate a nord della Russia, particolarmente sulla Severnaja Zemlja. Al ritorno dal terzo volo, durante il quale era stato sorvolato con successo il Polo Nord, l’aeronave, per ragioni che non sono mai state del tutto chiarite, ma assai probabilmente per il peso del ghiaccio formatosi su di essa, si abbatté sul ghiaccio nel corso di una furiosa tempesta.
Era il 24 maggio del 1928; e, mentre nove uomini venivano scaraventati a terra, con pochissimo materiale (fra cui la preziosa tenda), tosto il vento sollevò nuovamente il dirigibile, che si perdette all’orizzonte, con altri sei uomini a bordo. Né il mezzo né i suoi occupanti sarebbero mai più stati trovati; così come non venne mai ritrovato l’aereo con il quale Amundsen volle mettersi alla ricerca del suo vecchio amico e collaboratore.
A corto di viveri e con un apparecchio radio rice-trasmettitore che era stato gravemente danneggiato nella caduta, i nove uomini della «tenda rossa» attesero angosciati l’arrivo dei soccorsi, in condizioni sempre più proibitive, tanto che, alla fine, tre di essi – Zappi, Mariano e Malmgren – decisero di mettersi in cammino per cercare personalmente aiuto.
Male equipaggiati, con pochi viveri e una protezione insufficiente contro il freddo, il loro era un tentativo disperato, benché fossero quelli nelle migliori condizioni fisiche. Nobile li aveva sconsigliati di partire, ma non ritenne di poterglielo ordinare, vista l’incertezza della situazione: e, anche in questo caso, qualcuno potrebbe obiettare che un comandante, benché ferito, ha il dovere di assumersi la responsabilità di dare degli ordini, in base a ciò che ritiene più idoneo per assicurare la salvezza di tutti.
In seguito, Malmgren sarebbe morto di fatica; e nemmeno gli altri due ce l’avrebbero fatta a raggiungere le Svalbard, se non fossero stati soccorsi dai Sovietici quando le loro condizioni – con Mariano semicongelato – erano ormai chiaramente disperate.
Intanto, le ricerche continuavano da parte delle forze aeree e navali di vari Paesi.
L’idrovolante Latham-47 con a bordo Amundsen, decollato da Tromsö il 18 giugno, non fece più ritorno alla base, perdendosi nel Mare di Barents.
Il 22 giugno due idrovolanti italiani, guidati dagli aviatori Maddalena e Penzo, avvistarono la «tenda rossa» e scaricarono numerosi viveri e materiali ai loro compagni sul ghiaccio; ma, sul momento, non poterono fare altro.
Poi, finalmente – come si è detto -, la sera del 23 giugno, il pilota svedese Lundborg avvistò la «tenda rossa», atterrò con notevole abilità e con rischio personale; e, assicurando che presto anche gli altri sarebbero stati tratti in salvo, insistette perché sull’unico posto disponibile salisse il generale Nobile, che, oltretutto, era seriamente ferito.
Ecco come lo stesso Nobile ha rievocato l’episodio nel suo libro di memorie Ali sul Polo, scritto con l’evidente scopo di difendersi dalle aspre accuse che, dopo il rientro in Italia, gli erano state mosse per il suo comportamento (Ali sul Polo. Storia della conquista aerea dell’Artide, Mursia Editore, Milano, 1975, pp. 251-53):
Lo straniero, in tenuta di aviatore, aveva un aspetto simpatico: un volto un po’ rude ma aperto, gli occhi cerulei. Sentii Viglieri dirgli in inglese: «Qui è il generale». Lo straniero salutò rispettosamente, e si presentò: «Tenente Lundborg». Gli risposi ringraziandolo a nome di tutti, poi sembrandomi che le parole fossero insufficienti, mi feci sollevare per poterlo abbracciare. Indi mi feci rimettere a giacere.
Lundborg cominciò a parlare: « Generale, sono venuto a prendervi tutti. Il campo è eccellente. Vi trasporterò tutti nella nottata. Deve venire lei per primo».
«È impossibile» risposi. E additandogli Cecioni: «Trasportate prima lui, così ho stabilito».
Lundborg disse: «No, ho l’ordine di portare lei per primo, perché lei deve dare istruzioni per la ricerca degli altri compagni».
Proprio due o tre giorni innanzi il comando della Città di Milano mi aveva chiesto istruzioni per la ricerca del dirigibile scomparso, ma non ero riuscito a trasmetterle per il cattivo funzionamento della radio. Fui portato a mettere le parole di Lundborg in relazione con quella richiesta e a pensare che gli aviatori volessero approfittare delle eccezionali condizioni atmosferiche di quei giorni per quello scopo. Tuttavia, pur convinto di essere assai più utile ai compagni sulla Città di Milano che non sul pack, l’idea di tornare alla terraferma per primo mi ripugnava. Insistei con fermezza nel diniego.
«La prego, prenda prima lui. Così ho deciso».
Lundborg replicò: «Generale, non insista. La condurremo alla nostra base aerea non lontano da qui. Così potrò tornare presto per trasportare gli altri». E, poiché io accennavo ad insistere ancora perché pendesse Cecioni, egli tagliò corto, e recisamente disse:
«No, ora non posso pendere lui. È troppo pesante. Sarebbe impossibile prenderlo senza lasciare qui il mio compagno e questo non posso farlo. Più tardi tornerò solo e allora potrò portarlo. D’altronde ci vorrebbe troppo tempo per trasportare lui fino all’aeroplano, e non possiamo aspettare. La prego, venga. Nel giro di poche ore, vi porterò via tutti. Faccia presto, prego.» E mi indicava l’apparecchio, di cui si vedeva sempre l’elica in movimento. «La prego, faccia alla svelta». Mi rivolsi ai compagni. Viglieri, Behounek mi incitarono ad andare. Biagi disse: «Meglio che vada lei per primo. Saremo più tranquilli». Cecioni aggiunse: «Vada lei. Qualunque cosa accada, ci sarà chi pensa alle nostre famiglie». Mi trascinai nella tenda per interpellare Trojani. «È meglio così. Vada lei». Allora mi decisi.
Non era stato facile risolversi.. Ci voleva assai più coraggio a partire che a restare; ma avevo finito col convincermi che consentire a Lundborg, che asseriva essere io atteso per la ricerca degli altri due gruppi di compagni [quello della «tenda rossa» e quello di Zappi], era per me un preciso dovere. Non potevo assumermi la responsabilità di un rifiuto. Dovevo andare.
I fatti provarono che questa decisione, penosa per me, fu provvidenziale per i miei compagni. E non vi è altro da dire.
L’aereo dello svedese rientrò alla base, nella Baia del Re (Isole Svalbard); ma, poi, le cose non andarono come previsto.
Nonostante la gara di solidarietà accesasi fra le varie potenze, e nonostante il governo italiano avesse inviato in soccorso la nave Città di Milano, appositamente attrezzata, al comando del capitano di fregata Romagna, l’accampamento dei superstiti fu di nuovo perso di vista, e le avverse condizioni atmosferiche costrinsero i soccorritori a sospendere i voli di ricognizione. Quando essi furono ripresi, la deriva dei ghiacci sui cui era stata allestita la «tenda rossa» aveva reso di nuovo imprecisabile il luogo ove avrebbero dovuto concentrarsi le ricerche.
Lo stesso Lundborg, tornato alla «tenda rossa», ebbe un incidente al suo idrovolante e rimase prigioniero dei ghiacci, con gli Italiani; sarebbe stato poi salvato da un aereo dei suoi compatrioti che, però, non poté prendere a bordo nessun altro.
Solo molto più tardi il rompighiaccio sovietico Krassin riuscì a individuare e prendere a bordo sia Zappi e Mariano (quest’ultimo con un piede congelato che, più tardi, dovette essergli amputato), sia gli altri, rimasti in attesa nella tenda. Il salvataggio di questi ultimi avvenne il 12 luglio, dopo che il viaggio del Krassin era stato messo più volte in serie difficoltà dalle condizioni sempre più minacciose della banchisa artica.
Il ritorno dei superstiti in Italia fu accompagnato da roventi polemiche circa il comportamento del comandante della spedizione, che portarono all’istituzione di una commissione d’inchiesta. Nonostante fosse stato difeso da esperti sia italiani che stranieri, Nobile si vide costretto a rassegnare le dimissioni dall’Aeronautica, in seguito alla conclusioni a lui sfavorevoli formulate dalla commissione stessa (1929).
Nel 1931 egli si unì alla spedizione artica della nave russa Malighin, nella speranza – risultata poi vana – di individuare i resti dell’Italia; e continuò a lavorare, in Unione Sovietica, a progetti di dirigibili. Solo nel 1945, a seconda guerra mondiale terimnata, sarebbe stato riassunto nell’Aeronautica, venendo anche eletto deputato all’Assemblea Costituente come indipendente nelle liste del Partito Comunista. È morto a Roma nel 1978.
Questi, i fatti.
Nel film, la parte di Nobile è interpretata dall’attore inglese Peter Finch, artista noto per la sua fiera indipendenza, che lo ha portato a rifiutare film commerciali per scegliere solo produzioni di buon livello. Molti lo ricorderanno, probabilmente, per la sua intensa interpretazione del personaggio di Oscar Wilde nel film Il garofano verde; qui è un generale Nobile dalla personalità amletica e tormentata, che bene ha saputo rendere la sofferta umanità del protagonista.
La parte dell’esploratore Amundsen, invece, è affidata a un altro attore britannico, Sean Connery: sono queste le due uniche concessioni, nel cast degli attori, alle esigenze di un pubblico internazionale, che si aspetta di vedere comunque qualche star di grande richiamo.
Quanto all’Unione Sovietica, che ha firmato la regia e contribuito alla produzione con una parte dei capitali, essa è rappresentata da un unico attore, Juri Solomin (che sarà, qualche anno dopo, coprotagonista del bellissimo Dersu Uzala di Akira Kurosawa) nella parte del comandante della nave salvatrice, la Krassin.
Quasi tutti gli altri sono italiani.
La bella Claudia Cardinale, per la verità, è stata inserita ella pure, crediamo, per ragioni più che altro di pubblico: la vicenda della «tenda rossa» è una tipica storia avventurosa al maschile, come lo sarebbero la grande maggioranza di quelle del genere western; il regista Kalatozov ha voluto inserire un personaggio femminile (nella fattispecie, la fidanzata di un membro svedese della spedizione, il professor Malmgren, che faceva parte del gruppo di Zappi e che morirà di stenti sulla neve) allo scopo di introdurre una nota romantica e gentile in un contesto austeramente virile. È lei che, disperata per la sorte del suo uomo, si reca ad Oslo, a casa dell’ormai anziano Amundsen, e lo convince, con le sue lacrime, a mettere a repentaglio la vita per cercar di individuare il luogo in cui si trovano i naufraghi dell’Italia.
Il resto del cast italiano è formato da alcuni dei più bei nomi del nostro cinema di quegli anni: Luigi Vannucchi, Massimo Girotti, Mario Adorf (quest’ultimo è svizzero tedesco, ma di padre italiano, e la sua carriera di attore con numerosi registi italiani lo ha reso così popolare presso il nostro pubblico, da averlo fatto idealmente «adottare»).
Luigi Vannucchi (Caltanissetta, 1930 – Roma, 1978) è stato un attore notevole, troppo presto – a nostro parere – dimenticato sia dal pubblico, che dalla critica. Veniva dal teatro, dove aveva lavorato nella compagnia di Vittorio Gassmann e Luigi Squarzina, e aveva raggiunto la notorietà interpretando una serie di sceneggiati televisivi, spesso tratti da importanti opere letterarie. Era stato un allucinato e convincente Raskolnikov in Delitto e castigo, da Dostoevskij (1963), e un altrettanto persuasivo don Rodrigo ne I promessi sposi (1967), prestando poi la sua voce di narratore fuori campo in Cristoforo Colombo di Cottafavi (1968).
Sempre per la televisione avrebbe recitato, dopo la partecipazione a La tenda rossa, nella riduzione del romanzo di Emilio De Marchi Il cappello del prete (1970), nel ruolo del barone di Santafusca; nello sceneggiato di fantascienza, ispirato a un lavoro di Fred Hoyle, A come Andromeda (1972); e, nello stesso anno, ne I demoni, dal romanzo di Dostoevskij, nel ruolo del freddo e spietato Stavroghin.
Sarebbe poi morto suicida, nel momento di maggiore successo della sua carriera, poco dopo aver portato sul piccolo schermo una biografia di Cesare Pavese, Il vizio assurdo, togliendosi la vita proprio come lo scrittore torinese: in una camera d’albergo, solo, e con un libro di Pavese posato accanto al letto, sul comodino.
La sua interpretazione di Filippo Zappi è vigorosa, ma sobria, e bene rispecchia il carattere irruento, ma generoso dell’uomo (che sarebbe divenuto oggetto di atroci sospetti, dopo la fine della vicenda dell’Italia, per via della morte di Malmgren).
Massimo Girotti, che nel film di Kalatozov interpreta il comandante del Città di Milano, Giuseppe Romagna (Mogliano, Macerata, 1918 – Roma, 2003), è un attore troppo noto perché qui se ne delinei un ritratto. Basterà dire che era divenuto un beniamino del pubblico sin dal 1941, quando Alessandro Blasetti lo aveva chiamato a recitare ne La corona di ferro, e aveva poi lavorato con i migliori registi italiani: Visconti (Ossessione, 1943, e Senso, 1954), Germi (In nome della legge, 1949), Antonioni (Cronaca di un amore, 1950), Pasolini (Teorema, 1968, e Medea, 1970), Bertolucci (Ultimo tango a Parigi, 1972), Scola (Passione d’amore, 1981).
Ma Girotti era stato anche molto amato dal pubblico televisivo, avendo interpretato, per il piccolo schermo, personaggi indimenticabili, come Heatcliff in Cime tempestose (1956, regia di Mario Landi), fra Cristoforo ne I promessi sposi (1967, regia di Sandro Bolchi), l’avvocato Utterson in Jekyll (1969, regia di Giorgio Albertazzi) e Powell, un amico solo in apparenza svagato del protagonista Edward Foster, nel celeberrimo Il segno del comando (1971, regia di Daniele D’Anza), insieme a molti altri.
Nel film di Kaltozov, Girotti è un capitano Romagna freddo e diffidente, che tratta il redivivo generale Nobile come uno che è venuto meno ai suoi doveri, abbandonando l’equipaggio per la fretta di mettersi in salvo. Forse è un ritratto ingiusto: ma bisogna pensare che le circostanze erano, all’apparenza, contro il generale; e che, molto probabilmente, chiunque altro, al posto di Romagna, avrebbe nutrito analoghe diffidenze.
Né bisogna dimenticare il clima politico di quegli anni e la dimensione politica e propagandistica della missione dell’Italia, che rischiava di trasformarsi per il regime fascista – e specialmente per il Ministro dell’Aviazione, Italo Balbo – in un vero e proprio boomerang di fronte all’opinione pubblica internazionale.
Infine Mario Adorf (Zurigo, 1930) attore di solida formazione teatrale, che ha lavorato con alcuni dei maggiori registi a livello mondiale, è stato molto amato dal pubblico italiano quale eccellente caratterista presente in moltissime produzioni, soprattutto per il piccolo schermo. Nel film La tenda rossa è il radiotelegrafista Giuseppe Biagi: personaggio umano, simpatico, commovente per una sua certa ingenua fedeltà e per un senso della disciplina che non lo abbandona mai, neppure nelle circostanze più drammatiche.
La sceneggiatura è di Ennio De Concini, che si avvale della collaborazione di Nicola Badalucco e Robert Bold.
La regia di Kalatozov è di sicuro mestiere e non priva di accenti epici e di squarci di autentica poesia, come nella scena (immaginaria) in cui Amundsen, precipitato col suo aereo, ritrova i resti di un dirigibile e si appresta ad attendervi la morte con stoica rassegnazione.
Non siamo d’accordo con il severo giudizio di Paolo Mereghetti, il quale definisce il film una
Megaproduzione italosovietica (…), sopportabile quando esalta l’epicità dell’uomo che lotta contro la Natura, approssimativa quando caratterizza i personaggi.
Al contrario, e senza nulla togliere alla bravura del direttore della fotografia e alla superba bellezza delle immagini, ci sembra che proprio la parte psicologica sia la più originale e quella meglio caratterizzata.
Molto interessante, come dicemmo, l’idea del «processo» al comportamento di Nobile da parte dei maggiori protagonisti della vicenda, che ha il taglio inusitato e la sottile inquietudine di uno psicodramma.
Il che ci riporta alla domanda iniziale che ci eravamo posta, e attorno alla quale ruota l’intera problematica morale del film: fu giusta, fu saggia la decisione del generale Nobile di partire con Lundborg, lasciando i suoi uomini, da soli, sul ghiaccio?
Domanda difficile, e per tentar di rispondere alla quale bisogna tener conto di svariati fattori esterni: dalla fretta dell’aviatore svedese, ansioso di guadagnarsi la celebrità salvando anzitutto un famoso esploratore artico, ai risvolti politici dell’impresa dell’Italia, nel particolare clima politico di allora (e con Balbo che scommetteva sull’aereo a scapito del dirigibile).
Forse, fatta salva la buona fede e la coscienziosità professionale di Nobile, le ragioni pro e contro la sua decisione stanno – e stavano – quasi in equilibrio.
La spinta decisiva a partire con Lundborg fu data, probabilmente, da una umanissima, comprensibile debolezza psicologica, che viene messa chiaramente in luce da una domanda di Amundsen-Connery a Nobile-Finch, e dalla risposta di quest’ultimo:
«Quale fu la cosa a cui pensò per prima, quando fu a bordo dell’idrovolante che la stava riportando in salvo, verso la civiltà?».
«La prima cosa?… Non so… A un bel bagno caldo, credo».
E Amundsen-Connery, con un sorriso indulgente: «Appunto. Il salvataggio degli altri superstiti sembrava questione di poche ore. E chiunque altro, nei suoi panni, avrebbe avuto lo stesso pensiero che ebbe lei: quello di immergersi al più presto in un bel bagno d’acqua bollente».
* * *
Tratto, col gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.
Claudio
Avete ragione: troppo negativi i giudizi di un film che talvolta rivedo e che mi commuove
non poco.