Jack Kerouac

jack-kerouacBello? Può darsi. Dannato? Sicuramente. Quarant’anni fa se ne andava per sempre Jack Kerouac, uno dei papà – non il solo naturalmente – della Beat Generation, una delle ultime vere correnti di pensiero del nostro secolo – poesia, letteratura, vita, amore, libertà ed emozioni – in grado di ispirare per lungo tempo i giovani dell’Occidente sospirante. Si può parlare di Beat per dieci-quindici anni, neanche venti forse: Kerouac è stato un fenomeno consumatosi come un grande giocatore di football, nell’arco di brevi, lunghe stagioni. Considerava scrittori nati – come lo era lui stesso – Herman Melville, Walt Whitman e Hanry David Thoureau; e amava Aldous Huxley, Thomas Wolfe, Henry Miller, Céline e perfino il più “ordinario” Shakespeare. Ma la critica finì per bastonarlo insieme a tutti gli amici del “gruppo”. A cominciare da Allen Ginsberg e dal suo Urlo del 1956.

In realtà grande sportivo, in gioventù, Jack lo era stato davvero. Poi però si era trovato dinnanzi al più comune dei bivi: giocatore o scrittore? Per nostra fortuna, Jack non aveva faticato molto a scegliere il proprio futuro, voltando per il primo dei due sentieri (continuando tuttavia, ad amare lo sport), il più lungo e difficile; un sentiero che l’avrebbe condotto post mortem fino alle glorie dell’empireo dei narratori “maledetti”, con l’altro grande Jack – London – e dopo di lui con Bob Dylan («Ho letto le poesie di Mexico city blues nel ‘59, quando era a St. Paul. Mi hanno colpito profondamente. Era la prima volta che la poesia mi parlava utilizzando il mio stesso linguaggio»), un punto di riferimento di una seconda America, non quella del Sogno (S maiuscola) ma quella “vagabonda”, i cui sogni piccoli e sbrigativi correvano verso luoghi lontani, dai quali occorresse prontamente ripartire.

D’altra parte i Grandi Sogni di Jean Louis Lebris de Kerouac (questo il suo vero nome), di famiglia cattolica e franco-canadese, nato nel 1922 a Lowell nel Massachusetts, erano svaniti già molto presto, a quattro anni, con la morte del fratello Gerard. Risalgono a venti-ventidue anni, invece, i primi contatti con gli altri esponenti Beat, e non è ancora il 1950 quando Jack esordisce nella letteratura con un buon successo (il romanzo ove saggia la cosiddetta prosa “spontanea” in stato di eccitazione: La città e la metropoli). Il suo capolavoro, il libro per cui è universalmente conosciuto però, come tutti sanno, è On the Road (“Sulla strada”), pubblicato nel 1957, ma riscritto quasi di getto – dopo una prima stesura – nel ‘51 in appena tre settimane, dopo una serie di viaggi col “mito” vivente – amico e in un certo senso maestro – Neal Cassady. Un libro a suo modo difficile; amicizia e fuga dal quotidiano, rifiuto delle consuetudini e ricerca del nuovo ne fanno un altro manifesto della più classica agenda della controalienazione novecentesca. Ha scritto Fernanda Pivano: «Ricerca di mezzi espressivi primordiali, ricerca di intensità di linguaggio, ricerca di valori morali originari: tutte le strade, per questi giovani scrittori, riconducono a uno stesso problema di ripiegamento su se stessi per liberarsi dalle pressioni del mondo contemporaneo».

Ma gli altri romanzi per i quali Kerouac andrebbe ricordato e che costituiscono capitoli staccati di una scrittura vivente, sono la storia d’amore de I sotterranei (1958), lo spiritual-buddhista I vagabondi del Dharma (1958) e poi il “memorialistico” Vanità di Duluoz (1968). A modellare le sue ispirazioni (le sue continue ricerche) e a riempire i contenuti, sono i più grandi autori dell’era moderna – ancorché di autori “difficili” si tratti – da Schopenhauer a Nietzsche, da Rimbaud a Pound da William Blake a Spengler; ma anche la grande musica da Charlie Parker a Frank Sinatra, da Wagner a Beethoven. Un po’ l’uno, un po’ l’altro dei temi e dei ritmi, insomma, perché Kerouac grazie alla ricerca di un legame stretto anima-corpo è stato un bravo sperimentatore consapevole del rispetto di “regole anarchiche” e un costruttore di leggende personali. Già nel ’47 aveva coniato il termine Beat Generation, diffuso poi nel 1952 da un paio di lavori di John Clellon Holmes. Beat Generation è per molti versi anche una continuazione con altri mezzi della Lost Generation di un ventennio prima (denominazione che si deve a Gertrude Stein), dunque la generazione – straordinaria – di Francis Scott Fitzgerald, di Ernest Hemingway ed anche di Pound e di Dos Passos. In ordine di tempo fra le due coppie, Jack Kerouac morirà a causa dell’abuso di alcol nell’ottobre del 1969. Ma, ci ha spiegato la Pivano, sarebbe bene guardare ai Beat col riguardo che si deve a un fenomeno unico, particolare. Prima sociale, individuale o esteso (da gioventù bruciata, insomma), poi artistico. Tipico di quei giorni, insomma, perché eccezionale fu la storia degli anni Cinquanta: «A questa dilagante massa di ragazzi reticenti e scontrosi, tristi e freddi, avidi d’affetto e in perpetua ricerca di una ragione d’essere, staccati senza speranza da “anziani” incomprensibili e che non li capiscono, aggrappati come ad una fede ad un ideale di vita intenso e libero da qualsiasi pregiudizio o sovrastruttura, appartengono gli scrittori della beat generation».

Kerouac è oggi un’icona ribelle della letteratura universale, ma fin dagli inizi degli anni Sessanta anche parte della cultura italiana (straripante di modi d’importazione), guardava a quell’“altra” America con tutto l’interesse possibile. C’era, sì, nei giovani che vivevano gli anni del boom, una forte attrazione verso il consumismo e la logica del guadagno, ma c’era anche un’autentica infatuazione per l’America anti-sistema, quella appunto protestataria pacifista ed esasperatamente libertaria di Jack Kerouac & co. In molti ricorderanno che a far conoscere autori e cultura Beat in Italia era stata l’indimenticabile Pivano, studiosa fra le più importanti di letteratura americana e grande amica di Hemingway. “Nanda”, già allieva di Pavese e Abbagnano amerà certa cultura italiana almeno quanto quella americana. Sua una famosa dichiarazione di qualche lustro fa sul concittadino (genovese come lei), Fabrizio De Andrè: «Sarebbe necessario che invece di dire che Fabrizio De André è il Bob Dylan italiano si dicesse che Bob Dylan è il Fabrizio De André americano». Si può affermare a questo punto, che col De Andrè cantastorie democratico e anarchico a un tempo, portavoce degli emarginati, dei ribelli e di ogni bastian-contrario, il cerchio del mondo “ribelle” si sia chiuso proprio dalle nostre parti.

Beat… ma che cosa è Beat? Il significato di un termine che ha accompagnato quasi per intero l’esistenza dei nostri cinquantenni è multiforme, come poliedrici sono i criteri comportamentali dei giovani (e meno giovani) che hanno sposato la madre di tutte le contestazioni del dopoguerra (i cui “capiscuola”, ricordiamolo, oltre Kerouac sono Ginsberg, William Burroughs, Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti, il poeta-editore). Beat è soprattutto un viaggio. Un viaggio in alcuni casi, senza ritorno, per almeno tre significati. Viaggio fisico, spostamento dunque, voglia di andare senza un vero perché razionale; e viaggio “mentale” grazie all’utilizzo dell’alcol e delle droghe (nel marzo del ‘68 il periodico Panorama, pubblicava un’inchiesta sulle sostanze allucinogene – con tanto di carta d’identità delle droghe – che veniva così introdotta: «Dalla prima sigaretta di marijuana all’internamento nell’ospedale municipale di San Francisco in uno stato mentale forse incurabile, erano passati 18 mesi. In questo breve periodo Bill W., 19 anni … aveva esperimentato una vera escalation della droga. Dalla quasi innocua marijuana … era passato all’Lsd… dopo qualche mese neanche l’Lsd gli bastava più e Bill assaggiò l’Stp, una nuova potentissima sostanza chimica intossicante…»); viaggio, infine, nel costume, nei modi e nei comportamenti ma non più e non solo degli americani di entrambi i versanti, prima di New York poi di San Francisco capitale della libertà. Non per niente la sezione dedicata a “Beat e capelloni”, tratta dal libro di Francesco Donadio e Marcello Giannotti, Teddy-boys rockettari e cyberpunk – Ed. Riuniti, 1996 – così comincia: «Come la gioventù italiana intraprende un cambiamento a tutt’oggi senza ritorno…».

Ma anche in modo più concreto Beat può essere tradotto in vari altri modi. Come “beatitudine”, ascetismo, spiritualismo-Zen e ricerca di un paradiso (artificiale) in terra, ma anche come sconfitta, come l’esser stati battuti da un mondo circostante di cui poco o nulla si può condividere (oramai quel che c’era da dire è stato detto e le denunce appartenevano alle generazioni precedenti). Ma Beat è anche ritmo, musica, soprattutto jazz nello stile be-bop, utilizzati perfino come modello di scrittura. In fondo Beat è forse unicamente ricerca e speranza di novità, in un mondo stretto nella morsa del consumo e della guerra fredda ed è anche ricerca e speranza di una vita vissuta in parallelo o, magari, di nascosto (e della quale, chissà, poteva far parte quel campionato di baseball di cui si è parlato nei mesi scorsi, creato dalla fantasia adolescenziale di Kerouac). Una vita dalle forme ristrette e consumata in fretta, colma e stracolma di curiosità e oggetti minuscoli di uso quotidiano, e, poco o nulla, di abusata grandeur (da questo punto di vista fa in un certo senso scuola, la poetica di Charles Bukowski, anche se, a rigore, il vecchio “Hank” non può essere considerato uno scrittore facente parte del gruppo della generazione Beat). Tanto che l’eredità Beat e kerouachiana può essere concentrata in poche semplici voci: spiritualità – nel senso di religiosità laica, nel senso di ricerca di una via trascendente – ecologia, liberazione sessuale depenalizzazione delle droghe, condanna di ogni forma di censura. E poi soprattutto: antipolitica. Le grandi rivoluzioni, si sa, si costruiscono fuori dalle complicatissime aule “sorde e grigie”.

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Tratto da Linea del 21 ottobre 2009.

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Marco Iacona, dottore di ricerca in “Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee”, scrive tra l’altro per il bimestrale “Nuova storia contemporanea”, il quotidiano “Secolo d’Italia”, il trimestrale “La Destra delle libertà” e il semestrale “Letteratura-tradizione”. Per il “Secolo d’Italia” nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in dodici puntate. Ha curato saggi per le Edizioni di Ar e per Controcorrente edizioni. Per Solfanelli ha pubblicato: 1968. Le origini della contestazione globale (2008).

2 Responses

  1. Cristina
    | Rispondi

    Gentile redazione

    ho letto con interesse l'articolo su Kerouac, tanto che vorrei riproporlo sul sito da me gestito assieme ad altri collaboratori ( ovviamente citando Autore e fonte)

    Chiedo scusa per il luogo poco adatto per fare questa richiesta , ma non sapevo come contattarvi in privato.

    Attendendo vostre notizie vi auguro una felice giornata.

    Cristina D.

  2. Centro Studi La Runa
    | Rispondi

    Salve Cristina e grazie. "Puoi farlo, salva diversa specificazione, purché citi la fonte inserendo almeno un link all’articolo originale (privo dell’attributo “nofollow“)": cito dalla pagina delle "FAQ".

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