Nato a Nicomedia, in Bitinia, attorno al 95 e. v., dove fu nominato sacerdote a vita di Demetra e Core, divinità protettrici della città, Lucio Flavio Arriano è noto soprattutto per aver sintetizzato e divulgato l’insegnamento del filosofo stoico Epitteto, del quale era stato seguace, in un Manuale o Encheirìdion e pubblicando inoltre otto libri, di cui quattro si sono conservati, di Conversazioni o Diatribaì.
“Accanto all’impegno filosofico e letterario dell’uomo di studi si colloca l’intensa attività pubblica del cittadino romano all’interno del sistema imperiale” (p. 22). Sembra che Arriano abbia amministrato la provincia Hispania Baetica, nel 130 o in un anno di poco anteriore fu designato consul suffectus, dal 131/2 al 136/7 rivestì la carica di legatus Augusti pro praetore Cappadociae, provincia ai confini dell’Impero ed esposta alle minacciose incursioni degli Alani (Cassio Dione LXIX, 15,1 ricorda l’abilità di Arriano nel bloccarne l’invasione nella guerra mossa dagli Alani).
L’Indikè è una delle opere minori di Arriano ma essa costituisce “l’unica monografia sul subcontinente indiano che ci sia giunta nella sua integrità dal mondo classico” (p. 5) da qui la sua importanza.
Arriano scrisse l’India per celebrare l’impresa della flotta di Alessandro Magno guidata dall’ammiraglio Nearco, il cui diario di bordo ne fu la principale fonte, dagli affluenti dell’Indo alla Mesopotamia. Ma i capitoli più interessanti rimangono quelli dedicati alla descrizione dell’India.
Arriano non pretendeva per la sua opera alcun’originalità. Presentandosi come un collage di fonti nel quale sono giustapposte e in parte sintetizzate le informazioni provenienti dagli autori considerati più autorevoli, la sua opera acquisisce un valore documentale di tutto rispetto. Il libro arrianeo registra un “fatto rilevante in India: che tutti gli Indiani sono liberi e che nessun indiano è schiavo” (X, 8). E poco dopo che “l’insieme degli Indiani è diviso generalmente in sette caste” (XI, 1). Come giustamente osserva la curatrice di quest’edizione “alcuni preferiscono tradurre qui <> anziché <>, poiché è noto che le tradizionali caste indiane sono in realtà quattro: i brahmani, ossia i sacerdoti, i guerrieri, i contadini e lo strato inferiore comprendente tutti gli altri lavoratori manuali. La classificazione introdotta da Arriano, di derivazione megastenica, sembra invece basarsi su una distinzione di mestieri. Essa del resto ricorre anche in Diodoro II, 40 e, con maggior abbondanza di particolari, in Strabone XV, 1, 49. Tuttavia, poiché i gruppi sociali indicati in ciascuna delle tre fonti presentano le caratteristiche di chiusura rigida proprie del sistema di caste indiane, non sembra fuori luogo pensare che appunto a questo sistema si faccia riferimento” (n. 18, pp. 66-67).
“Fra queste – seguiamo nuovamente quanto scrive Arriano – vi è la casta dei saggi, inferiori agli altri per numero, ma i più ragguardevoli per fama e onore. Essi non sono obbligati a svolgere alcuna attività fisica né a destinare al patrimonio comune i frutti del proprio lavoro. In una parola, i saggi non sono soggetti a nessun’altra costrizione eccetto quella di offrire sacrifici agli dèi a nome della comunità indiana; e se qualcuno sacrifica in privato, uno di questi saggi gli fa da guida, perché altrimenti il sacrificio non sarebbe gradito agli dèi. Essi solo fra gli Indiani sono capaci di praticare l’arte divinatoria e a nessun altro fuorché a un saggio è permesso predire il futuro. Fanno profezie riguardo alle stagioni dell’anno o prevedono se qualche sciagura incombe sulla comunità; non si occupano, invece, di predire il futuro in rapporto agli affari privati dei singoli” (XI, 1 – 5).
A riguardo degli agricoltori annota che “non possiedono armi da guerra né si dedicano ad attività belliche, ma lavorano la terra e pagano tributi ai re e alle città autonome. Se scoppia una guerra interna fra gli Indiani, non è permesso mettere le mani su quanti coltivano la terra né devastare la terra stessa, ma mentre gli uni combattono e si uccidono tra loro a seconda delle circostanze, gli altri, accanto a loro, in tutta tranquillità arano o raccolgono i frutti o potano gli alberi oppure mietono” (XI, 9 – 10).
Dopo aver accennato alla casta dei pastori ed a quella degli artigiani e dei commercianti passa a quella dei guerrieri, “quella che conduce la vita più libera e piacevole. Costoro esercitano soltanto attività belliche. Le loro armi sono fabbricate da altri e così pure i loro cavalli sono forniti da altri; negli accampamenti, infine, è prestato servizio da altri, i quali curano i loro cavalli, puliscono le loro armi, conducono gli elefanti, mettono in ordine i carri e li guidano. Quanto a loro, finché bisogna combattere, combattono, ma una volta conclusa la pace, se la godono; e ricevono dalla comunità uno stipendio tale da poter mantenere agevolmente altre persone” (XII, 2 – 5).
Le altre due caste per Arriano sono quella dei cosiddetti ispettori e quella di coloro che deliberano sui pubblici affari insieme al re, o nelle città autonome insieme ai magistrati. Riguardo alla rigidità castale Arriano ricorda che “non è lecito sposarsi con una persona di un’altra casta, ad esempio per gli agricoltori sposarsi con un membro della casta degli artigiani, o viceversa. Non è neppure lecito che la stessa persona eserciti due mestieri o passi da una casta all’altra, come ad esempio che da pastore si diventi contadino o da artigiano pastore” (XII, 8).
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Lucio Flavio Arriano, L’India, saggio introduttivo di D. Ambaglio, a cura di A. Oliva, testo greco a fronte, BUR, Milano 2000, pp. 160, Lire 16.000 (L&F) (IBS) (BOL) (LU)
Tratto da Arthos, 7-8 n.s., 2000, pp. 291-293.
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