Con quali mezzi l’umano sconfigge il demoniaco, e non parlo
dell’uomo assoluto, bensì dell’uomo di oggi, dell’uomo storico,
che non vive più nell’era delle evocazioni monoteistiche,
ma nell’epoca venuta dopo Nietzsche,[…]nell’epoca delle
tempeste d’acciaio e degli orizzonti imperiali? La risposta è:
l’uomo occidentale della nostra epoca sconfigge il demoniaco
con la forma, il suo demonismo è la forma, la sua magia è l’elemento
tecnico-costruttivo, la sua cosmogonia glaciale recita: la creazione
è l’anelito della forma, l’uomo è il grido che chiede espressione,
lo Stato è il primo passo in questa direzione, l’arte il secondo,
altri non ne conosciamo.
Gottfried Benn (1)
Forse siamo nell’occhio del ciclone. Venti possenti sono intorno a noi, eppure l’aria che respiriamo è decisamente stagnante. Ecco un modo per definire il nostro rapporto con la tecnica. Essa, letteralmente, ci circonda. Abbiamo quotidianamente a che fare con gadget sempre più sofisticati, sempre più inutili, ma i veri problemi, quelli per cui ne va del nostro destino, sono assenti dal dibattito e dalle coscienze. Tecnocratico, il nostro mondo ignora totalmente quale sia l’essenza della tecnica. Possiamo anche smontare fino all’ultimo circuito il nostro i.Pod; invano vi cercheremo il senso dell’avvenire che ci aspetta. L’ottica con cui ci apprestiamo a vivere questo terzo millennio è in qualche modo simile a quella ottocentesca ben tratteggiata dalla caustica penna di Gottfried Benn:
“Eccolo qui tutto adunato insieme, questo secolo del reale e del conoscere, in cui lo spirito ha creato la statistica e l’analisi dell’orina, in cui la tabella trionfava e la creazione sprofondava, in cui per diventare professore ordinario bastava dominare le cavità laterali del naso e per diventare presidente di congressi bastava aver visto tre pustole mentre quel tale accanto ne aveva viste solo due, in cui non c’era casa e non c’era strada dove non abitassero un cavadenti e un agente di brevetti, un urologo o un geodeta – per conquistare la terra e dominare il mondo” (2).
D’accordo, l’ottimismo beota del secolo che pure fu di Nietzsche oggi appare demodé: con il terrorismo culturale dei TG su epidemie prossime venture e su pazzi islamici nucleari pronti a riversare il loro odio su noi poveri “occidentali”, le quotazioni delle “magnifiche sorti e progressive” appaiono in ribasso. E tuttavia l’ottica banalizzante e minimalista di fondo non cambia. Il che non favorisce la presa d’atto delle grandi questioni cui la tecnica comunque finisce per metterci di fronte. Questioni che vengono semplicemente rimosse ponendo la testa sotto la sabbia e sperando che il mercato acefalo o i “comitati di bioetica” cattocomunisti mettano le cose a posto. Sfortunatamente, né le fluttuazioni incontrollate e potenzialmente suicide del primo, né il risibile proibizionismo antifaustiano dei secondi appaiono adatti alla bisogna. È di un altro punto di vista, di un’altra ispirazione, di un altro linguaggio che abbiamo bisogno. Se la tecnica mette in gioco potenze mai affrontate prima, per dominarne l’impeto occorreranno non le filastrocche consolatorie delle vecchie favole ma l’armatura d’acciaio di un nuovo mito.
Il nuovo mito e l’Interregnum
“Nuovo Mito”: è proprio così che Giorgio Locchi (3) definiva la visione del mondo che con la filosofia nietzscheana e l’arte wagneriana aveva fatto irruzione nell’asfittico panorama ottocentesco, per ispirare poi l’intera Konservative Revolution (tedesca e non solo) ed inverarsi storicamente nella prassi dei fascismi europei. Un mito di cui Ernst Jünger ha immortalato lo spirito e l’essenza nel suo Der Arbeiter, del 1932 (4). La consapevolezza della fine di un epoca e della venuta di tempi nuovi, in effetti, permea l’intera opera (5). L’Operaio apparve in un periodo di sana confusione e di commistioni liberatorie, di fratture e ricomposizioni, di lapsus ed ossimori; un periodo in cui “nessuno ormai poteva negare che il vecchio ordine di cose fosse insostenibile, né sopravvivevano dubbi sull’avvento di nuove forze”, per dirla con lo stesso Jünger nella premessa all’opera scritta nel 1963 (6). Accenno alla putrescente repubblica weimariana ed al movimento crociuncinato? Senz’altro, ma c’è anche di più. Ciò che ispira il testo jüngeriano ha valenze ben più che politiche. Quando Jünger parla riecheggiano sempre profondità insondate e potenze elementari. Il “vecchio ordine” e le “nuove forze”, quindi, non possono essere semplici “partiti”, “repubbliche” “ordinamenti”, quanto piuttosto figure del destino, forme cosmico-storiche, creazioni titaniche comprese in una lotta che investe le sorti di un’intera civiltà. In questo scontro il momento di passaggio, l’epoca indecisa – che diviene quindi epoca decisiva – prende il nome di Interregnum. Il profilo stesso dell’Operaio jüngeriano richiama inequivocabilmente l’Interregnum. Con il suo nome pregno di significati e di richiami passati e presenti, eppure con una fisionomia incredibilmente nuova, l’Operaio è esso stesso figura di passaggio, figlio di un’epoca che parla una lingua antica e superata, l’unica che ancora possiede, e che pure porta alla luce significati inauditi.
Di fronte all’elementare
Ora, che cos’è che annuncia la fine (certa) dell’epoca umanistico-borghese e l’irrompere (possibile) di un nuovo inizio? È la necessità, propria di questa fase storica, di un rapporto rinnovato con l’elementare. L’uomo indurito dalla totale Mobilmachung nella guerra mondiale ha preso coscienza della vacuità della retorica borghese e, con sguardo “fisiognomico” (7), si è portato nei pressi delle cose stesse, in una sorta di “fenomenologia eroica” (8). Al contrario “le grandi scuole del pensiero progressista”, nota Jünger, “sono contrassegnate dalla mancanza, al loro interno, di qualsiasi rapporto con le forze primigenie” (9); “Un autentico rapporto col mondo delle forme non [è] alla [loro] portata […]; nell’età borghese, tutto si è liquefatto in idee, concetti o meri fenomeni, e i due poli di questo liquido spazio sono stati la ragione e il sentimento” (10). Arida ragione e sentimento arcadico: tutto ciò per cui, nell’era contemporanea, non c’è più tempo, né voglia, né senso. L’Operaio, “devoto a potenze arcane” (Cantimori), “spirito che plasma i suoi mondi” (Benn), va oltre e mette alla frusta i demoni della modernità per creare un disegno grandioso che è mistico senza avere dei ed è spirituale pur essendo al di là di ogni religione positiva. Di questa nuova figura si è giustamente detto che rappresenta “il ‘milite del lavoro’, l’asceta costruttore di una nuova società, la cui rinunzia ad ogni personale sentimento e ad ogni motivo di azione individuale, il cui contegno generale posson esser paragonati solo a quelli del ‘soldato’, del ‘milite’, come s’è presentato specie verso l’ultima epoca più meccanica della guerra mondiale” (11). Dorico e futurista, prussiano e bolscevico, egli giunge fra noi “come signore e ordinatore del mondo, come tipo umano dominatore in possesso di un potere assoluto finora soltanto intuito oscuramente” (12). Padrone degli elementi, l’Operaio è l’Übermensch nietzscheano o il “terzo uomo” locchiano, colui che sa che “Dio è morto” e decide di prendere in mano il proprio destino, di essere custode e forgiatore della propria libertà. L’ “elementare”, in fondo, è solo il mondo spogliato degli orpelli metafisici che torna a risplendere nudo e possente, caotico poiché in attesa di forma e sottomesso ad una rinnovata volontà demiurgica. Un mondo che il prisma pericoloso e seducente della tecnica moderna fa apparire con tonalità più accese e attraverso sfide più esaltanti.
L’essenza della tecnica
Già, la tecnica. Perno fondamentale dell’intera epoca moderna, eppure così mal compresa. Proviamo a domandarci quale sia la sua essenza. Non soggetta all’ipoteca esclusiva di una qualche ideologia, non per questo la tecnica è “neutrale” o svuotata di ogni contenuto. Essa, piuttosto, ci prende per mano e ci porta sull’orlo della nostra libertà abissale. E lì tace. La sua natura intrinseca e peculiare è di portarci al cospetto del nostro destino, e di distogliere subito dopo lo sguardo: lì entriamo in gioco noi. Questa è l’essenza della tecnica. La quale, come notava Heidegger, non è essa stessa tecnica. Jünger lo sa bene: “Il lavoro [inteso come l’attività di “mobilitazione totale” posta in essere dall’Operaio] non è un’attività tecnica” (13). Certo, è la tecnica a fornire gli strumenti decisivi, ma non sono essi l’aspetto essenziale del grande cambiamento in atto: è la volontà che sempre decide. È la volontà che muove gli strumenti. “Mediante la tecnica nulla viene risparmiato, nulla semplificato e nulla risolto” (14). È un pensiero della tecnica ed una volontà della tecnica ciò di cui abbiamo bisogno, non di un pensiero tecnomorfo. Di fatto, la tecnica non pensa, come dice giustamente Heidegger; è però vero che essa dà da pensare. Saper essere all’altezza di un tale pensiero è la sfida cruciale eternamente rinnovata. Sfida a cui è assurdo sottrarsi: se la polvere da sparo cancella dalla faccia della terra la guerra cavalleresca, la cosa può dispiacere, e non senza ragione. Ma ciò che unicamente conta è che da quel momento scendere sul campo di battaglia senza cannoni diventa un’assurdità (15).
Si può pensare la propria epoca in un’ottica nuova o pensare al di là di essa; mai contro di essa. In questo senso, l’Operaio appare come colui che dimora presso il cuore stesso della sua epoca e, così facendo, presso l’essenza stessa del proprio destino. Egli, cioè, comprende l’importanza cruciale del fattore “tecnica”, fattore che definisce e, oggi più che mai, porta a ripensare lo specifico essere-nel-mondo della specie umana (16). Dopo Gehlen sappiamo bene come l’essere umano sia l’animale non specializzato, colui che non ha un ambiente specifico (Umwelt) in cui muoversi con padronanza innata, ma possiede l’intero mondo (Welt) come scenario aperto a cui dare una forma e grazie a cui poter formare se stesso. Uno scenario in cui l’uomo recita la sua tragedia pro-gettandovisi senza che la rotta sia già tracciata da qualche parte. Sta infatti a lui e solo a lui di essere artefice del proprio destino. Ed egli ha cominciato a farlo da quando, sprovvisto di artigli, ha modellato un ramo per farne una clava. Eccola, la tecnica come spengleriana “tattica della vita”. Spietata come solo la vita stessa sa essere. Checché ne pensi una certa retorica ottuso-ottimistica fuori tempo massimo, né le origini né le possibili destinazioni dall’avventura tecnica recano le stimmate delle sacre leggi della morale progressista e pacifista; è solo in una breve parentesi centrale (quella illuminista e borghese, appunto) che si possono scorgere in essa tratti emancipativi e democratici. Parentesi necessaria ma destinata “per forza di cose” a finire, ad essere tolta e superata. “La tecnica, infatti, appare nello spazio borghese come organo del progresso, operante in un quadro di compiutezza razionale ed etica”; e tuttavia “il lato marziale della sua testa di Giano bifronte mal si adatta a questo schema” (17). La contraddizione, gravida di sviluppi grandiosi e di micidiali pericoli, deve presto o tardi risolversi nel senso di una fine della storia o, al contrario, di una rigenerazione della stessa.
La modernità eroica
Il che ci porta nei pressi di quell’idra a più teste con cui gran parte del pensiero non conformista ha dovuto fare i conti, soccombendo spesso per mancanza di slancio vitale causato da una guerra persa e da un dopoguerra interminabile: l’idra della modernità. Disprezzata, non a torto, per tutto ciò che in essa appare come il compimento di un bimillenario processo di decadenza, la modernità conserva tuttavia in sé germi insospettati di palingenesi. Egualitaria ed omologante, l’“oscurissima Aufklärung” (Botho Strauss) mostra anche, da una diversa prospettiva, riverberi di una luce nuova e chiarori aurorali rigeneratori. Pericolosa, essa contiene pur sempre, come voleva Hölderlin, la possibilità della salvezza. Questo carattere ambiguo della modernità, Jünger lo ha visto con straordinaria lucidità:
“Come l’illuminismo non è soltanto illuminismo ma qualcosa di più profondo, così anche il progresso non è privo di retroscena e di spessore. […] C’è un’ebbrezza della conoscenza, la cui origine non è soltanto logica, e c’è un orgoglio di conquiste tecniche, l’orgoglio del primo passo verso uno sconfinato dominio dello spazio, in cui si avverte un presagio di recondita volontà di potenza ancora in germe. A questa volontà, tutte le conquiste tecniche servono semplicemente da armatura per impreviste battaglie e insospettate rivolte […]. Di conseguenza, a noi non deve assolutamente interessare quell’atteggiamento che tenta di opporre al progresso i mezzi, ad esso subordinati, dell’ironia romantica, e che è l’inconfondibile contrassegno di una vita spossata nel suo nerbo. Il nostro compito di giocatori non è quello di fare le puntate come avversari del tempo, bensì quello di puntare sul banco di cui il tempo è croupier” (18).
Rileggiamo: “Presagio di recondita volontà di potenza ancora in germe”. Ecco ciò che Jünger vede nella modernità. Beninteso: è l’eterna legge dell’eterotelia che produce tali bagliori eroici in una modernità che nasce con un preciso “discorso filosofico” alle spalle di marca egualitarista, universalista, mondialista. Se e quando la modernità si fa “mobilitante”, ciò accade a dispetto dell’ideologia che essa ha creduto di incarnare. E non è un caso che vasti settori del pensiero dominante ripieghino ormai su posizioni apertamente reazionarie, sostenendo che il “progetto incompiuto” moderno vada perfezionato (e non piuttosto superato e rivoluzionato) nei termini emancipativi che esso aveva preteso di incarnare. È in quest’ottica che Horkheimer invita ad abbandonare il mito – intrinsecamente “fascista” – della rivoluzione, che Habermas o Wolin condannano il pericoloso nietzscheanesimo che soggiace ad ogni post-modernismo, o ancora che la truppa radical chic di “Repubblica” si mette a covare nostalgie illuministiche (19). Nel campo opposto, se già un Adriano Romualdi aveva visto nella tecnica moderna uno spirito di razionalità e di padronanza tutto apollineo, è un Guillaume Faye, da parte sua, a far esplodere le contraddizioni del pensiero dominante con gioiosa spietatezza:
“La sfiducia verso il modernismo contemporaneo sembra tanto più giustificata in quanto quest’ultimo si ritorce contro la stessa modernità, contro la sua parte “sensitiva” e la dinamica futurista che le è propria. […] Il destino implicito delle ideologie moderniste è lo scontro con la modernità in quanto essa porta con sé la tentazione della storia. […] Tutto accade come se, dopo essersi fatta scudo della modernità, l’ideologia occidentale ed egualitaria si fosse accorta che questa modernità finisce col contraddire gli ideali occidentali, perché la sua essenza sta nel mettere il mondo in movimento. Un movimento necessario per rovesciare il vecchio mondo; ma che fare se, come il fiume di Eraclito o la freccia di Zenone, esso non si arresta? Che fare, se la modernità che si credeva segmento si svela una sfera e continua a girare?” (20)
Già: che fare? Scegliere l’ipermodernismo di chi vorrebbe riprendere il “progetto incompiuto” egualitario depurando la modernità di ogni pericolosa deriva eroica, oppure optare per un reale postmodernismo apertamente nietzscheano, solare, archeofuturista? Reprimere ogni tentazione di superamento ed istinto di libertà o far deflagrare la contraddizione percorrendo la direzione dello sguardo con cui la modernità guarda già oltre se stessa? Scegliere la fine eterna o la rigenerazione continua?
L’idra ci guarda negli occhi ed invoca una sola parola: decisione.
Note
1) Discorso per Stefan George, in Lo smalto sul nulla, Adelphi, Milano 1992, pag. 171-172.
2) Gottfried Benn, L’io moderno, in Lo smalto sul nulla, op. cit. pag 16.
3) Cfr Giorgio Locchi, Wagner Nietzsche e il mito sovrumanista, Akropolis, Roma 1982.
4) Tr. it. a cura di Quirino Principe: L’Operaio. Dominio e forma, Guanda, Parma 1991.
5) A titolo di esempio cfr: “La condizione in cui ci troviamo somiglia all’intermezzo tra due atti, durante il quale il sipario resta calato e si compie la sorprendente mutazione dei personaggi e dell’arredo scenico” (Ibidem, pag 86).
6) Ibidem, pag 7.
7) Robert Steuckers, Annulation magique de la crise et “méthode physiognomique” chez Ernst Jünger, in “Vouloir”, luglio 1995.
8) Come si ricorderà, “andare verso le cose stesse” era il motto di Edmund Husserl – e, attraverso l’influenza di quest’ultimo, di Martin Heidegger – e della tendenza filosofica detta appunto fenomenologica. Il fatto che Jünger compia un’operazione analoga ma stavolta non più su un piano meramente contemplativo, ma anche e soprattutto su quello dell’azione e della “messa in forma” di sé e del mondo ci autorizza ad apporre l’aggettivo “eroico”.
9) L’Operaio, op. cit., pag 43.
10) Ibidem, pag 36.
11) Delio Cantimori, Ernst Jünger e la mistica milizia del lavoro, in Id., Tre saggi su Jünger, Moeller van den Bruck, Schmitt, Settimo Sigillo, Roma 1985, pag 17-18.
12) L’Operaio, op. cit. pag 40-
13) Ibidem, pag 82.
14) Ibidem.
15) Cfr. ibidem, pag 81.
16) Sul rapporto uomo-tecnica e sulla re-definizione dell’umano alla luce delle nuove biotecnologie cfr. l’imprescindibile Stefano Vaj, Biopolitica. Il nuovo paradigma, SEB, Milano 2005.
17) Ibidem, pag 145.
18) Ibidem, pag 43.
19) Cfr. Max Horkheimer, Materialismo e morale, in Teoria Critica, Einaudi, Torino 1974; Jürgen Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 1987; Richard Wolin, The seduction of unreason, Princeton University Press 2004; Eugenio Scalari (a cura di), Attualità dell’illuminismo, Laterza, Roma-Bari 2001.
20) Guillaume Faye, Noi ci saremo, in “La voce della fogna” n° 31, 1983.
Fondo Magazine|Mutare o perire.La sfida del transumanesimo
[…] conseguenza della metamorfosi che la tecnoscienza ci spalanca – può spalancarci, se sapremo guardare al nostro destino negli occhi. Giacché tale difesa dell’ “antropocentrismo”, nel senso in cui Roberto […]