[La prima parte di questo articolo è stata pubblicata qui: Gregorio Barbarigo (1625-1697) e la sua inclinazione per l’arabico e altre lingue orientali. Prima parte].
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La tipografia[1]
La fondazione della tipografia del seminario di Padova, avvenuta nel 1684, era strettamente legata alla mancanza di testi adeguati per l’apprendimento delle lingue orientali[2]. I libri per lo studio di queste lingue o non esistevano affatto, oppure erano molto difficili da reperire e, anche se venivano fatti arrivare da paesi lontani, i costi erano troppo elevati[3]. Quando la situazione economica glielo permetteva, il Barbarigo faceva stampare i testi scolastici da alcuni tipografi che operavano nel territorio veneto. Nella copertina del volume veniva apposta, per volere del vescovo, la seguente dicitura: ad usum Seminarii Patavini. In questo modo si esplicitava che i sussidi didattici erano destinati alla circolazione interna del seminario di Padova[4]. I rapporti con gli stampatori non erano sempre facili e sembra che «[…] l’idea del Barbarigo di mettersi in proprio gli venne allorché non riuscì ad accordarsi con un tipografo di Padova per la stampa della grammatica greca (ad usum Seminarii Patavini), il quale gli chiese un prezzo molto alto»[5]. Fu in quest’occasione che il Barbarigo esclamò: «Facciamo noi un torcoletto!» [6] e, così, prese la decisione di istituire una stamperia.
Le prime matrici tipografiche che il Barbarigo riuscì a possedere, spendendo poco o niente, furono quelle coi caratteri greci che gli erano state consegnate dalla stamperia di Propaganda Fide a Roma[7].
I caratteri arabi, invece, erano molto difficili da reperire: da una parte vi erano le leggi vigenti nell’impero ottomano che contrastavano lo sviluppo della stampa[8] e, dall’altra, da un punto di vista religioso, l’inviolabilità della scrittura, in modo particolare quella del testo sacro dell’Islam. Non è un caso, dunque, che anche in Italia, come nel resto dell’Europa seicentesca, le opere in lingua araba date alla stampa fossero pochissime e la maggior parte edite a Roma[9].
Stanco, perciò, di dover affrontare importanti spese per stampare volumi in arabo, il Barbarigo inviò a Milano padre Agapito dalla Val di Fiemme, titolare della cattedra di lingua e cultura araba del seminario, a cercare punzoni e matrici tipografiche presso la Biblioteca ambrosiana. Essi sono stati rinvenuti, per caso, sparsi in alcune stanze, tant’è che nessuno degli addetti alla biblioteca era a conoscenza della loro esistenza. Padre Agapito fu raggiunto a Milano da Giuseppe Soardi, arciprete di Breganze, affinché potesse fondere questi esemplari, ma non ce ne fu bisogno perché il cardinale Federico Borromeo e i dirigenti della biblioteca offrirono in dono al Barbarigo le due cassette contenenti gli originali che appartenevano alla tipografia del Collegio ambrosiano[10].
Tuttavia l’apporto più considerevole di caratteri orientali il Barbarigo lo ricevette dalla stamperia Medicea Orientale[11], per mezzo del granduca di Toscana, Cosimo III (1642-1723), che a questo proposito scriveva:
«Tanto era lo zelo di sua Eminenza per la propagazione della Fede e dei riti della Chiesa Cattolica Romana, e per la conversione e salute delle anime, che, avendo sua Eminenza notizie d’aver noi alcune matrici di caratteri e di lingue orientali dei nostri Serenissimi predecessori, ci fece istanza che gliele concedessimo, ad effetto che gli alunni del suo Seminario potessero apprendere con maggiore facilità dette lingue orientali, per quindi rendersi più atti a disseminare la gloria di Dio e i misteri divini della Fede, dove occorresse che fossero stati deputati dalla Sede Apostolica e dalla Congregazione di Propaganda»[12].
Cosimo III regalò al Barbarigo ben undici cassette contenenti le matrici: arabo antico e nord africano, caldeo nestoriano pontificale, ebraico, greco, greco tebaico e copto egizio, persiano, siriaco, siriaco silvio grosso e ordinario, per un totale di 2.894 pezzi[13]. Difficilmente, in questo periodo, si sarebbe potuta trovare una tipografia con tanta abbondanza di caratteri tipografici orientali[14]. Il fatto di possederli, la differenziava dalle altre stamperie e l’annoverava tra le poche «[…] famose, piantate non da commercianti, ma da insigni mecenati»[15].
La tipografia iniziò a lavorare a tempo pieno fin dai suoi esordi. Inizialmente il progetto del Barbarigo era quello di impegnare la stamperia solo per quei testi che servivano alle scuole del seminario, specialmente per le edizioni in greco e in lingue orientali, ma già nel primo anno di attività egli prese in considerazione l’idea di stampare anche per conto terzi (autori o librai)[16].
Vi lavoravano circa una trentina di operai ai quali veniva offerta la possibilità di vitto e alloggio all’interno del seminario, spese che venivano poi sottratte dal loro stipendio[17]. Le principali figure che vi lavoravano erano le seguenti: l’ingegnere dei caratteri, il torcoliere, il compositore, il bagnacarta, il macinatore di cinabro, gli apprendisti.
L’ingegnere dei caratteri si chiamava Gian Antonio Bresadola, che operò in stamperia per quattordici anni, in qualità di esperto dei caratteri, con uno stipendio molto alto. A lui spetta il merito di averli fusi, assistito per i caratteri orientali, da Timoteo Agnellini[18]. Ecco l’elenco dei caratteri orientali, già disponibili per le composizioni, che vennero creati[19]:
Abissinio | sotto testo d’Aldo |
Arabico | antico |
» | Silvio |
» | garamoncin |
» | filosofia |
» | testin |
» | turco filosofia |
Caldeo | filosofia |
Etiopico | Silvio |
Greco | testin |
» | Silvio |
» | garamon |
» | garamoncin |
» | filosofia |
» | testo d’Aldo |
» | d’Aldo da Roma |
Hebreo | testin |
» | garamoncin |
Persiano | antico |
Rabin | garamoncin |
» | sottotesto d’Aldo |
Siriaco | garamoncin |
» | filosofia |
La lista che segue, invece, elenca le quantità e il tipo di matrice di caratteri (non soltanto orientali), possedute dalla tipografia di Padova[20]:
n°1 | Abissinio |
n°1 | Angola |
n°5 | Arabici |
n°1 | Arabo turco |
n°2 | Armeni |
n°2 | Caldei estrangeli |
n°1 | Nestoriano |
n°1 | Congo |
n°11 | Ebraici |
n°1 | Georgiano minuscolo |
n°1 | Georgiano plebeo |
n°1 | Giapponese |
n°1 | Illirico geronimiano |
n°1 | Irlandese |
n°1 | Iberico ecclesiastico |
n°1 | Indiano |
n°4 | Rabbinici |
n°1 | Samaritano |
n°9 | Siriaci |
n°1 | Tedesco |
Il torcoliere era colui che lavorava al torchio e per ogni torchio ne servivano due: il primo detto tirador che aveva i compiti di azionare la stanga collegata alla vite e di disporre e levare i fogli; il secondo detto battitore che doveva dare l’inchiostro alle forme preparate dal compositore[21]. «[…] Ogni battitore provvedeva da sé con miscela di trementina, olio di noce o di lino cotto, pan nero e cipolle. A questa miscela, che era detta vernice, si aggiungeva poi la tinta: o nero di lampada (nero fumo) o rosso cinabro; il tutto ben manipolato, purificato e bollito»[22]. La retribuzione mensile corrisposta ai torcolieri era tra le più elevate e si aggirava tra le 600 e le 744 lire all’anno[23].
I compositori percepivano uno stipendio più basso che andava dalle 432 alle 528 lire annue, ma dopo un po’ di tempo, il Barbarigo stabilì che il loro salario dipendesse dal tipo di carattere usato, come si evince dalla tabella seguente[24]:
composizione | in latino | 10 lire |
» | in greco | 11 lire |
» | in ebraico | 12 lire |
» | in arabo | 13 lire |
» | in caldaico e altre lingue orientali | 14 lire |
Le composizioni in lingua araba erano tra le più costose. Nei periodi di maggiore concentrazione di lavoro, l’officina si avvaleva di compositori esterni, che venivano pagati a seconda del numero di forme preparate[25].
Il bagnacarta asciugava i fogli appena stampati e preparava i libri per la rilegatura[26]. La sua retribuzione annua si aggirava intorno alle 396 lire.
Il macinatore di cinabro, oltre a triturare il solfuro di mercurio (per lo più in masse granulari di color rosso vermiglio), aiutava nell’assemblaggio dei libri e portava l’acqua e la legna, il tutto per 312 lire all’anno.
Gli apprendisti erano quei ragazzi che lavoravano in officina a titolo gratuito. La tipografia fungeva, in questo caso, da scuola di preparazione professionale e ai ragazzi che trascorrevano un periodo piuttosto lungo al suo interno veniva data la possibilità di imparare un mestiere dignitoso[27].
Una stampa, secondo il Barbarigo, era perfetta solo quando erano presenti tre ingredienti fondamentali e cioè la bellezza dei caratteri, l’opportuna inchiostrazione e, infine, l’esattezza nella correzione tipografica[28]. Quest’ultima era, per il Barbarigo, la vera «anima dei libri»[29] e per la correzione dei testi si avvaleva di chiunque: dagli alunni ai maestri del seminario ai professori universitari, al prefetto degli studi e a tanti altri personaggi, non solo illustri.
La produzione di opere in caratteri orientali mobili stampate dalla tipografia del seminario fu inaugurata nel 1685 con il libro di Pietro Bogdano dal titolo Cuneus Prophetarum de Christo Salvatore mundi et eius evangelica veritate, italice et epirotice contexta, et in duas partes divisa a Pietro Bogdano, Macedone, Sacra Congregatione de Propaganda Fidealumno, philosophie et sacrae theologiae doctore, olim episcopo scodrensi et administratore antibarensi, nunc vero archiepiscopo Scuporum, ac totius regni Serviae administratore, che contiene un’ampia istruzione alla dottrina cristiana[30]. Quest’opera ha una duplice importanza: da un lato rappresenta il primo libro uscito in Italia in lingua e in caratteri albanesi e dall’altro è qui che la tipografia patavina usa, per la prima volta, i caratteri arabi[31].
Al 1687 risale l’edizione in latino della grammatica araba di padre Agapito dalla Val di Fiemme dal titolo Flores grammaticales Arabici idiomatis, collecti ex optimis quibusque grammaticis, nec non pluribus Arabum monumentis, & ad quam maximan fieri potuit brevitatem, atque ordinem revocati: studio & labore fr. Agapiti a Valle Flemmarum ordinis Minorum S. Francisci reformatorum, Provinciae Tridentinae, in Seminario Patavino lectoris. Opus omnibus Arabicae linguae studiosis perutile, & necessarium: cui accedit in fine Praxis grammaticalis, & exercitium pro lectione vulgari.
Nel 1688 uscirono due opere di Timoteo Agnellini, il quale oltre a insegnare arabo, turco e persiano nel seminario e a essere il supervisore della sezione lingue orientali nell’officina tipografica, fu anche autore[32]. La prima s’intitola Breve compendio della perfettion christiana diviso in due parti dove si vede una prattica mirabile per unire l’anima con Dio. Trasportato in idioma arabico da Monsign. Timotheo Agnellini, Arcivescovo della Mesopotamia; la seconda, Proverbii utili e virtuosi in lingua araba, persiana e turca, gran parte in versi, con la loro ispiegazione in lingua latina & italiana: et alcuni vocaboli di dette lingue[33]. Nel 1690 uscì un altro libro in versione latina, araba e persiana di Timoteo Agnellini intitolato Flores soliloquium ad dilectum & admonitionum ad proximum. Poesis Arabica admirabili metro & alphabeto compacta in Latinum soluta oratione versa: unicuique summè necessaria. Nel 1693 vide la luce un’altra sua opera in versione araba e italiano volgare intitolata Libro della Penitenza e Passione di N.S. Giesù Christo e sua Santissima Madre.
Numerosi erano i manoscritti provenienti da Roma che ambivano di essere stampati nella tipografia padovana. Tra questi vide la luce nel 1698, l’Alcorano, il testo sacro dell’Islam tradotto in latino da padre Ludovico Marracci (1612-1700)[34], che rappresentò l’ultima e probabilmente la più grande impresa editoriale affrontata dal Barbarigo durante la sua vita[35].
Riferimenti bibliografici
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Pedani Fabris 2000 | M.P. Pedani Fabris, Ludovico Marracci: la vita e l’opera, in G. Zatti e Centro Ambrosiano di Documentazione per le Religioni (a cura di), Il Corano: traduzioni, traduttori e lettori in Italia, Milano 2000, pp. 9-29. |
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Serena 1963 | S. Serena, San Gregorio Barbarigo e la vita spirituale e culturale nel suo Seminario di Padova, 2 voll., Padova 1963. |
Vercellin 2001 | G. Vercellin, Venezia e l’origine della stampa in caratteri arabi, Padova 2001.
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Siti internet | http://www.catalogo.unipd.it |
[1] Il Barbarigo fu l’ispiratore, il fondatore, il finanziatore e il direttore della tipografia del seminario per quattordici anni fino al 1697, anno in cui morì, v. Bellini 1938, p. 69; v. Serena 1963, i, p. 12.
[2] V. Bellini 1938, p. 46 e v. Callegari 1999, p. 231.
[3] V. Bellini 1938, pp. 15-16. Prima di creare la tipografia, il Barbarigo si rivolgeva a editori, non necessariamente di Padova, ai quali faceva specificare nel titolo che il volume era un sussidio didattico a circolazione interna del seminario di Padova (ad usum Seminarii Patavini). V. anche Serena 1963, ii, pp. 406-407.
[4] V. Bellini 1938, p. 16. La specifica ad usum Seminarii Patavini compare alla fine del titolo.
[5] V. Bellini 1938, nota 1, p. 17 e Serena 1963, i, p. 160.
[6] V. Serena 1963, i, p. 160. Il torcoletto era il torchio usato nelle stamperie.
[7] V. Bellini 1938, p. 35. Dopo la Controriforma le tipografie che stampavano testi in arabo erano: la tipografia del Collegio romano dei Gesuiti attiva dal 1556 al 1615; la tipografia Medicea Orientale attiva dal 1590 al 1614; la stamperia della Sacra congregazione di Propaganda Fide attiva dal 1627; la tipografia del Collegio ambrosiano di Milano; la Reale stamperia di Palermo, v. Vercellin 2001, nota 25, pp. 20-21.
[8] L’arte tipografica in caratteri arabi mobili non era ancora diffusa in Oriente. Essa iniziò a fiorire nei primi decenni del XVIII secolo e con precise limitazioni a proposito del contenuto delle opere stampate. Questo ritardo era dovuto a due motivi principali: il primo di natura religiosa riconducibile al rifiuto da parte dei fedeli di pulire i caratteri di piombo con i pennelli di setole di maiale, (animale notoriamente impuro per la religione islamica); il secondo di natura tecnica legato alle difficoltà che presenta ogni lettera araba la quale assume una forma diversa a seconda che si trovi all’inizio, in mezzo, in fine di parola oppure nella sua forma isolata, oltre ai numerosi segni diacritici che servono a indicare le vocali e altre occorrenze consonantiche. I tipi mobili arabi comparvero per la prima volta nel mondo musulmano nel 1706, grazie all’impresa del patriarca melchita di Aleppo Athanasios III al-Dabbas (1647-1724). Il primo testo edito con caratteri arabi da musulmani nelle terre d’Oriente fu, invece, quello di Ibrahim Müteferriqa, che vide la luce a Istanbul nel 1727. V. Vercellin 2001, pp. 14-15; nota 33, p. 24.
[9] V. Pedani Fabris 1999, p. 358.
[10] V. Serena1963, i, p. 110 e v. Pedani Fabris 1999, p. 362.
[11] Fu la prima stamperia a operare in modo rigoroso con caratteri arabi. Tra il 1590 e il 1595 produsse svariate importanti opere in arabo che venivano rivendute nel mondo ottomano attraverso dei mercanti italiani autorizzati del sultano Murad III (1574-1595) a vendere libri in caratteri arabi, persiani e turchi. Nel 1610 la tipografia fallì, perché non riusciva a vendere i libri stampati. V. Vercellin 2001, nota 25, p. 21 e v. Bellini 1938, nota 2, p. 35.
[12] V. Serena 1963, i, p. 156.
[13] V. Bellini 1938, pp. 35-36 e v. Pedani Fabris 1999, p. 362.
[14] V. Bellini 1938, p. 26.
[15] V. Bellini 1938, p. 34. Pare che la tipografia fosse costata 80.000 lire venete, v. Bellini 1938, nota 1, p. 41.
[16] V. Callegari 1999, pp. 233; 238.
[17] V. Serena 1963, ii, p. 436. La detrazione dallo stipendio faceva risparmiare il Barbarigo, v. Callegari 1999, p. 236.
[18] V. Bellini 1938, p. 33.
[19] V. Bellini 1938, p. 30.
[20] V. Bellini 1938, pp. 31-32. Nel 1687, quando il Barbarigo morì, la sua tipografia possedeva circa 40.000 caratteri di ogni tipo di lingua, v. Serena 1963, ii, p. 438.
[21] V. Callegari 1999, p. 233-234.
[22] L’industria degli inchiostri da stampa si sviluppò solo nel XVIII secolo e non prima, v. Bellini 1999, p. 49. Il rosso cinabro è il colore rosso brillante.
[23] V. Callegari 1999, p. 234.
[24] V. Callegari 1999, p. 235.
[25] V. Callegari 1999, p. 235.
[26] V. Callegari 1999, p. 235.
[27] V. Callegari 1999, p. 236. Questo rimarca il costante interessamento del Barbarigo nei confronti dei più bisognosi, v. Bellini 1938, p. 18.
[28] V. Bellini 1938, p. 47.
[29] V. Bellini 1938, p. 53. I correttori erano, per l’arabo, Agapito dalla Val di Fiemme e il suo successore Timoteo Agnellini.
[30] V. Serena 1963, i, p. 157.
[31] L’Albania faceva parte dell’Oriente cristiano e il Barbarigo si interessava delle condizioni delle famiglie venete che abitavano le sponde opposte del Mar Adriatico, v. Mrkonjic’ 1999, p. 1172-1173. È bene precisare che il testo riporta solo alcuni passi in caratteri arabi, ma il fatto che essi siano stati stampati qui per la prima volta, ci ha spinti a inserire il volume tra gli incunaboli arabi, v. Bellini 1938, p. 312 e v. Serena 1963, i, p. 116.
[32] V. Serena 1963, i, p. 156. Egli dichiarò di aver pubblicato almeno dodici opere. Invero l’Agnellini stampò nella tipografia di Padova altri libri in lingua turca e persiana esclusi da questa indagine. V. Bellini 1938, p. 297.
[33] Nel 1688 fu pubblicato un altro libro di Timoteo Agnellini intitolato Adagi turcheschi con la paraphrase latina et italiana. Il contenuto di entrambi i testi è molto simile a quello uscito a Venezia, nello stesso anno, dalla stamperia dell’editore Poletti, su interessamento del bailo Giovan Battista Donà dal titolo «[…] Raccolta curiosissima di adagi turcheschi, tradotti dai giovani di lingua che lo avevano accompagnato a Istanbul per impararvi il turco», v. Pedani Fabris 1999, p. 364.
[34] Originario di Torcigliano di Camaiore in provincia di Lucca, entrò tra i Chierici della Madre di Dio all’età di circa 15 anni. Fu teologo e arabista. Compì i suoi studi nel collegio romano di S. Maria in Campitelli ove apprese il greco, il siriaco, il caldaico, l’ebraico e l’arabo. La parte più importante della sua attività fu quella legata alla conoscenza delle lingue: partecipò alla traduzione della Bibbia in arabo; studiò le cosiddette Lamine granatensi, delle lastre di piombo incise con caratteri arabi; tradusse in arabo l’Officium Beatissimae Virginis Mariae; corresse la grammatica araba stampata nel 1689 dal suo allievo Giovanni Battista Podestà, maestro di arabo a Vienna e il Breviario Siriaco del padre maronita Fausto Nairon; tradusse dall’arabo alcune lettere indirizzate a Propaganda Fide; scrisse per primo una monografia che ha per tema una bandiera decorata con iscrizioni in caratteri arabi. Dal 1656 al 1675 ricoprì la cattedra di lingua araba presso l’Università La Sapienza di Roma, v. Pedani Fabris 2000, pp. 24-28.
[35] V. Bellini 1938, pp. 23 e nota 1; p. 104. I tipografi veneti erano indispettiti dal fatto che i loro laboratori non fossero destinati a lavori importanti simili a quelli eseguiti dalla stamperia del Barbarigo. I libri del seminario si vendevano in molte città italiane come Bassano, Feltre, Venezia, Salò, Brescia, Milano, Bergamo, Bologna, Rimini, Sinigaglia e altre ancora e, perfino, nei mercati oltremontani dove facevano concorrenza a quelli usciti dalle principali stamperie europee.
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