Il mito e l’antimito di Giuseppe Garibaldi

La cartolina di Garibaldi “eroe dei due mondi”, metà caudillo e metà carbonaro, eterno attore di un melodramma che anticipa le telenovelas, non rende onore a un personaggio di levatura europea. Garibaldi fu una figura di primo piano nel divenire dell’Europa.

Oswald Spengler, Il tramonto dell'Occidente Oswald Spengler nel Tramonto dell’Occidente definì come “bonapartismo” quel particolare momento in cui alcune individualità dotate di carisma militare riescono a suscitare un entusiasmo quasi religioso, a fondere istanze sociali e richiami alla Tradizione, a creare un nuovo ordine di Stato. Garibaldi, esattamente come Napoleone in Francia, come George Washington nel New England, è stato esponente della stagione del “bonapartismo”. Spengler ha delineato nella sua opera le costanti storiche di questa stagione: la perdita di autorità degli antichi ceti dirigenti, il rapido diffondersi di nuove idee, l’ascesa prorompente di nuove classi sociali unita al timore di un caos esplosivo, il prestigio delle forze armate.

A differenza di Washington in America e di Napoleone Bonaparte, a Garibaldi mancò l’esperienza del governo della nazione. Tuttavia l’entusiasmo che egli seppe suscitare, l’intelligenza strategica con la quale riuscì a portare a termine un progetto politico che confinava con il sogno irrealizzabile (l’unificazione di un penisola frantumata da più di mille anni) lo inseriscono di diritto nella galleria dei grandi demiurghi, degli artefici di Stati.

“Garibaldi fu ben poco garibaldino – ci dice lo storico Aldo A. Mola – se per garibaldino si intende un tipo umano irruente. Votato all’azione coraggiosa, ma improvvisata. Garibaldi non fu mai temerario. In ogni sua impresa tenne conto della sicurezza delle truppe, della copertura sanitaria, dei risvolti politici delle operazioni. In ciò somiglia, più di quanto si sospetti comunemente, a Napoleone”.

Nati entrambi sul versante occidentale dell’Italia, a Nizza e in Corsica, il Bonaparte e Garibaldi emergono in uno scenario di rivoluzione e comprendono la necessità di incanalare i cambiamenti sociali negli argini di un ordine e di una tradizione. Napoleone restaura per sé l’autorità monarchica, Garibaldi si pone sotto l’egida di Vittorio Emanuele. “Non al grido di viva il suffragio universale, ma a quello di O Roma o morte marciano i volontari garibaldini”, scriveva compiaciuto Adriano Romualdi. Gli illuministi avevano sradicato la tradizione creando gli orrori di massa della rivoluzione giacobina. Metternich a sua volta era stato miope nel voler restaurare un ordine tradizionale escludendo la borghesia. I grandi politici dell’Ottocento (Cavour e Garibaldi in Italia, Bismarck in Germania, ma anche certi ministri dell’impero britannico) operarono per inserire le forze borghesi nella tradizione degli Stati europei.

Dunque anche Garibaldi fu a suo modo “conservatore” e “rivoluzionario”. Abbatté le monarchie legittimiste e si inchinò al sovrano di una antica dinastia militare del Nord. Fu anticlericale convinto, e devoto ad un Dio concepito – scrive ancora Mola – come “Intelligenza Infinita”. Il dio di Giordano Bruno, ma evidentemente anche quello della tradizione greca-aristotelica. Frequentò i rivoluzionari dei suoi tempi, ma chiamò i suoi figli con i nomi di antichi romani. Chiese che alla morte il suo corpo fosse arso su un’alta pira. Come un guerriero omerico. Rudolf Steiner, da orgoglioso austriaco qual era, non esitò a paragonarlo ai grandi re-iniziati del mondo antico.

Gilberto Oneto, L'iperitaliano. Eroe o cialtrone? Biografia senza censure di Giuseppe Garibaldi Fino a ieri Fascisti e Comunisti si contendevano l’eredità del Duce delle camicie rosse. Oggi “parlar male di Garibaldi” sembra essere diventata una delle tante “provocazioni conformiste” alla moda. In certe valli bergamasche si dimentica che l’unità d’Italia fu fatta da Nord verso Sud. In certi angoli di meridione indebitamente si confonde l’azione di Garibaldi con la spoliazione delle risorse del sud. Indebitamente si cerca di promuovere il brigantaggio meridionale a dignità di “resistenza patriottica”. Certo sbagliavano i generali piemontesi quando confondevano i lealisti di Re Francesco con i briganti. Ma sbagliano anche quelli che presentano i briganti delle campagne meridionali come eroi della lealtà al Trono e all’Altare. Come disse il brigante La Gala, figura schietta e tosta dell’epoca, ad un suo prigioniero che equivocava sulle idealità di chi lo aveva messo in catene: “Tu hai studiato, sei avvocato, e credi davvero che noi fatichiamo per Francesco II?”.

Erano numericamente pochi i volontari di Garibaldi, non erano un “popolo”. Già, ma quanti erano e dove erano i patrioti difensori della monarchia borbonica nel 1861? Quanti erano quelli che accorsero volontari per difendere il Papa-Re?

Forse è un bene che il “garibaldinismo” retorico, così simile al sansepolcrismo del regime e al reducismo partigiano della repubblica sia finito. I grandi personaggi hanno tutto da perdere a causa dei loro zelanti ammiratori.

Il culto di Garibaldi permane in alcuni angoli preziosi dello Stato. “La devozione per il Generale non è mai cessata tra noi bersaglieri”, ci dice il capitano Gerardo Capasso. Grandi occhi azzurri, aria scanzonata. Un tipo che facilmente potresti immaginare tra i Mille. Ma è tempo che la figura di Garibaldi ritorni in auge anche nella società civile.

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Tratto da L’Indipendente del 29 aprile 2007.

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