Augusto Fraschetti, in questo volume della collana “Biblioteca Essenziale”, delinea un agile ma puntuale profilo di una delle figure chiave della storia di Roma e, come per altri suoi libri (1), bisogna riconoscere all’Autore di riuscire ad abbinare una facilità di lettura al rigore delle fonti (per venire incontro al lettore non specialista le note sono raccolte dopo il testo (2)).
Dalla nascita, durante il consolato di Gaio Mario, suo zio, ai suoi tumultuosi funerali “gestiti” da Antonio scorre la movimentata vita del più famoso Pontefice Massimo della Repubblica Romana. Come ricordò in occasione degli elogi funebri della zia Giulia, discendendo da parte di madre (nonna paterna di Cesare), da Anco Marcio e discendendo gli Iulii da Enea e quindi da Venere, si trovavano nella loro stirpe “sia la santità dei re, che hanno potere supremo sugli uomini, sia il culto degli dèi, sotto il cui potere sono anche i re”.
Giovanissimo, ma già al secondo matrimonio, venne “designato flamen Dialis: sacerdote di Giove e pertanto ‘statua vivente’ di quel dio, ma appunto come tale anche preda di arcaicissimi tabù (ad esempio, la necessità di appartenenza del flamen Dialis e di sua moglie a famiglie del patriziato romano, la sua impossibilità ad allontanarsi da Roma e a vedere eserciti in armi)”. Se non fosse stato per la nuova guerra civile forse non l’avremmo mai potuto ricordare come gran condottiero. Sulla, dittatore “per scrivere le leggi e ripristinare la repubblica”, privò Cesare, nipote di Gaio Mario e cugino di Mario il giovane, della sua carica sacerdotale ed avrebbe preteso che ripudiasse la moglie Cornelia. Su questo punto Cesare fu irremovibile e si salvò dalle proscrizioni e dall’ira di Sulla per l’intervento dei parenti materni, i sullani Aurelii Cottae, e delle vergini Vestali.
Dovette allontanarsi da Roma trasferendosi in Asia, dove prestò servizio militare sotto la sorveglianza del governatore sullano. Non è nostro compito ripercorre la sua vita e carriera ma approfitteremo del libro del Fraschetti per alcune evidenziazioni.
Ormai Pontefice Massimo (dal 63, anno del consolato di Cicerone), dopo il suo primo consolato (59) lo troviamo Proconsole nelle Gallie. Giustamente il Fraschetti rileva la grandezza dell’autore dei Commentarii ricordando quanto evidenziato dallo stesso Cicerone, che certo politicamente non era molto vicino a Cesare: “Sono tanto universalmente lodati che sembra vogliano non offrire ad altri l’occasione di scrivere sullo stesso argomento. Per quanto mi riguarda, la mia ammirazione è ancora maggiore; tutti infatti ne conoscono l’eleganza e la purezza di stile, ma io so con quanta facilità e rapidità siano stati scritti”. Addirittura Concetto Marchesi, nel secolo scorso, ha potuto sostenere: “La prosa di Cesare ha l’eleganza perfetta e trasparente di una vera e propria opera d’arte e nello stesso tempo ha la solenne semplicità del linguaggio imperatorio e ufficiale. I commentari sono veramente gli atti ufficiali della grandezza di Cesare”.
Il de bello Gallico non è una mera descrizione di battaglie ma anche una fonte etnologica. “L’interesse di Cesare per le popolazioni con cui viene in contatto non è […] in funzione solo del buon esito di una determinata campagna, ma rivela anche una vera e propria curiosità che lo induce talvolta a digressioni assai ampie, quasi da etnologo estremamente attento che operi sul campo, tanto da poter essere facilmente paragonato a un antropologo moderno”. Tra l’altro, “da buon etnologo che opera sul campo, lo stesso Cesare – non solo proconsole, ma anche pontefice massimo – differenzia Galli e Germani in base soprattutto alle credenze e agli usi religiosi”.
Tornando all’attività politica militare lo troviamo costretto alla guerra civile per la difesa delle prerogative dei tribuni della plebe (nel caso specifico Marco Antonio e Cassio Longino) calpestate dal senato. A proposito della resistenza pompeiana in questo libro si ricorda che “i senatori romani, che avevano trovato rifugio in Africa, si sostenevano però solo grazie all’aiuto di Giuba, che a Utica aveva ordinato nuovi massacri, evidentemente e ancora una volta di cittadini romani”; di Catone suicidatosi, dopo la conquista da parte di Cesare, diventando l’Uticense: “Un cognome forse troppo enfatizzato tanto dagli antichi quanto dai moderni come simbolo di libertà, appena si pensi che la “libertà”, cui aspirava Catone, era pur sempre quella dell’antica repubblica ottimate”.
Come giustamente ricorda nell’epilogo il Fraschetti “la classe politica tardorepubblicana, soprattutto quella che in senato faceva parte del gruppo ottimate, era una classe politica corrotta e faziosa, tutta tesa alla lotta per il mantenimento dei suo potere e del suo rango, che nascondeva comunque scopi diversi e abbastanza inconfessabili”. Questa era la classe politica che Cesare dovette fronteggiare, quindi “si spiegano bene a questo punto […] i suoi pretesi atteggiamenti di arroganza nei confronti di quella stessa classe politica”.
Sulla vexata quaestio se Cesare aspirasse alla monarchia il Fraschetti è chiaro: è solo assurdo pensarlo. “Nelle aspirazioni del dittatore c’era piuttosto la creazione di un regime che potrebbe essere definito ‘paternalistico’ e allo stesso tempo autoritario, nel cui contesto tutto fosse sotto il suo controllo: dalla nomina dei magistrati all’assegnazione delle province”. Del resto come notava il Pais : “Valeva la pena di sfidare l’opinione publica, assumendo il titolo di re, mentre in via di diritto e di fatto, egli già possedeva tutto l’imperio militare e la suprema potestà tribunizia?” Ormai dittatore perpetuo, Cesare aveva un grande e indiscutibile progetto la campagna contro i Parti. Per i “sospetti di aspirazione al regno e alla tirannide, fu resa impossibile dai congiurati alle idi di marzo del 44. Secondo Suetonio, ci sarebbe stato a proposito della campagna partica un responso dei libri Sibillini, introdotti a Roma da Cuma ai tempi del regno di Tarquinio il Superbo, quei libri antichi e misteriosi che predicevano il futuro del popolo romano: ‘E si diceva inoltre che nella prossima seduta del senato il quindecemviro Lucio Cotta avrebbe proposto che Cesare fosse chiamato re, poiché i Parti non potevano essere vinti se non da un re’. Lucio Cotta avrebbe fatto quella proposta appunto in qualità di quindecemviro (3), in altri termini come uno dei membri del collegio sacerdotale incaricato della consultazione di quei libri”.
Numerosi prodigi annunciarono la morte di Cesare e Fraschetti riporta i resoconti di Suetonio, Plutarco e Cassio Dione. Il vile assassinio fu compiuto nella curia di Pompeo. Il console Antonio, che non era potuto intervenire in difesa di Cesare, convocò il senato nel tempio di Tellus. Il 17 marzo Antonio riuscì a mettere in rapporto tra loro il tipo di onori funebri, compreso l’eventuale drastica privazione anche di semplici funerali, con il riconoscimento della validità degli atti di Cesare e del suo testamento. “Erano problemi da discutere contestualmente per un motivo molto semplice dal momento che la loro soluzione sarebbe dipesa da un’unica circostanza: il giudizio che il senato avrebbe voluto esprimere, dopo la morte, sulla validità dello statuto di Cesare, decidendo senza ambiguità alcuna se lo stesso Cesare avesse detenuto un potere legittimo o se, al contrario, almeno a partire da un certo momento, avesse esercitato un potere tirannico. Da un simile giudizio non solo sarebbero dipesi la validità dei suoi atti, del suo testamento e il destino da riservare al suo cadavere, ma anche lo stesso giudizio da esprimere sui cesaricidi: in connessione solidale con lo statuto di Cesare, assassini del più alto magistrato cittadino o al contrario liberatori della patria”.
La proposta fu avanzata nella certezza che la maggior parte dei senatori, compresi gli anticesariani, erano interessati alla rettifica di quegli atti. In previsione della campagna contro i Parti, Cesare aveva distribuito per il quinquennio successivo tutte le cariche pubbliche (le magistrature cittadine, i sacerdozi, i governatorati provinciali, i comandi degli eserciti). Antonio mise così in salvo il cadavere di Cesare ed il suo testamento. Per salvare i congiurati, su proposta di Cicerone, si ricorse all’espediente dell’amnistia (istituto inusuale o “addirittura sconosciuto ai Romani”). Si svolsero i grandiosi funerali e al termine dell’elogio funebre, come dimentico dell’amnistia Antonio aveva mostrato – o comunque avrebbe permesso che fossero mostrate – le ferite “che i congiurati avevano inferto al corpo di cesare: nel linguaggio gestuale e ritualizzato dei Romani chiamando così il popolo e i veterani esplicitamente alla vendetta”.
“Dopo aver avuto notizia del testamento di cui era stato beneficato, dopo aver ascoltato l’elogio funebre di Antonio, dopo aver avuto modo anche di contemplare le ferite sul cadavere di Cesare, il popolo e i veterani dettero inizio al tumulto”. Il popolo, ormai padrone del feretro cremò il cadavere su una pira improvvisata dove poi sarebbe sorto il tempio del Divo Giulio, “lasciando spento e inutilizzato il rogo rituale già approntato al campo di Marte. Quel giorno dunque fu infranto a Roma un interdetto rigidissimo e secolare, già contemplato nelle dodici tavole: la proibizione di cremare e quindi di seppellire i morti all’interno della città […]. Se il corpo di Cesare veniva ormai considerato dal popolo e dai suoi veterani come il corpo di un dio, esso evidentemente non poteva costituire per la città fonte di contaminazione; da questo punto di vista il corpo del dittatore veniva assimilato di fatto a quello delle vergini Vestali defunte, che godevano anch’esse il privilegio di essere sepolte all’interno del pomerio”.
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NOTE
1) Nella stessa collana è stato pubblicato: Augusto Fraschetti, Augusto, Roma-Bari 2004, II ed.; sul quale vedi la nostra Rassegna bibliografica in “Arthos”, n. s. VIII, 12, (pp. 247 – 253) p. 249.
2) Mi piace ricordare e consigliare un libro i cui saggi d’autori vari abbiamo visto citati: L’ultimo Cesare, Roma 2000.
3) Ettore Pais, Cesare aspirò a diventare re? in Roma, dall’antico al nuovo impero, Milano 1938 – XVI, (pp. 293 – 300) p. 296.
Tratto da “La Cittadella”, 19 n. s., luglio-settembre 2005, pp. 65-69.
Augusto Fraschetti, Giulio Cesare, Editori Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 164, € 10,00.
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