Fridtjof Nansen, uno dei più grandi esploratori norvegesi (degno di stare accanto al grandissimo Roald Amundsen, il conquistatore del Polo Sud), nasce il 18 ottobre 1861 a Store Froen presso Cristiania – oggi Oslo -, la capitale della Norvegia e muore a Lysaker il 13 maggio 1930, all’età di sessantotto anni. Scienziato di formazione, nel 1882 si reca sulle coste della Groenlandia con una baleniera per studiare da vicino la vita delle foche; e, cinque anni dopo, nel 1887, realizza un’impresa notevolissima: l’attraversamento dell’interno della grande isola artica, eseguendo fondamentali studi scientifici sulla sua calotta glaciale. Ma un grande sogno lo accompagna da anni, quello di penetrare lungo la costa settentrionale dell’Asia e di lasciarsi catturare volontariamente, con una nave attrezzata allo scopo, nella morsa dei ghiacci, per sfruttare una corrente marina che, a quanto sembra, si dirige a settentrione; indi, con le slitte, tentar di raggiungere il Polo Nord. In un certo senso si tratta di mettersi nella scia di quanti erano andati alla ricerca del favoloso passaggio di Nord-est, croce e miraggio di generazioni e generazioni di navigatori ed esploratori; poiché nessuno aveva osato costeggiare l’estremità settentrionale della Siberia in tutta la sua lunghezza, fino al 1878 (il viaggio verrà effettuato invece a ritroso, ossia partendo dallo Stretto di Behring, dalla Maud di Amundsen fra il luglio del 1922 e l’agosto del 1925). Nel 1878 la nave Vega, al comando dell’esploratore svedese Otto Nordenskjöld, riesce a condurre a termine, finalmente, la prima navigazione dall’Atlantico al Pacifico, costeggiando a nord la Siberia, sia pure al prezzo di uno sverno nella morsa dei ghiacci. E nel 1879 una nave americana, la Jeannette, partita da San Francisco, tenta a sua volta di penetrare nel Mar Glaciale Artico dallo Stretto di Behring, facendo al contrario il viaggio della Vega, ma fa miseramente naufragio e l’equipaggio perisce di stenti e di freddo nel tentativo di raggiungere a piedi dei luoghi abitati.
“Nel 1893 – scrive Silvio Zavatti – [Nansen] mise in atto l’ardito progetto di farsi imprigionare dai ghiacci con una nave e di raggiungere il Polo Nord lasciandosi trasportare da una corrente che egli riteneva esistesse a nord delle regioni siberiane. La nave, armata a spese dello stato e del re, era la Fram, comandata dal capitano Otto Sverdrup. La nave venne fermata dai ghiacci a 70°45′ di latitudine Nord e 133° di longitudine Est e lentamente portata fino a 84° di latitudine nord. Allora Nansen, accompagnato dal luogotenente J. H. Johansen, abbandonò la nave e con slitte trainate da cani si diresse verso il Polo, raggiungendo 86°13′ di latitudine Nord, punto fino allora mai toccato. Le avversità lo consigliarono al ritorno e nell’estate del 1896 raggiunse Capo Flora incontrandosi con una spedizione inglese. Il 13 agosto ritornò in Norvegia e pochi giorni dopo anche la Fram. I risultati scientifici furono importantissimi, primo fra tutti la sicurezza che la Terra di Francesco Giuseppe era formata da innumerevoli isole e non da una terra unica come allora si credeva. Dopo questa spedizione si dedicò a vita politica e solo nel 1913 fece un importante viaggio nel Mare di Kara” (1).
Aggiungiamo solo che, dal 1897, Nansen è nominato professore di zoologia nell’Università di Oslo e, dal 1901, di oceanografia; che, nel 1900, naviga dalla Norvegia alle isole Svalbard (Spitzbergen); e che nel 1913 compie la traversata, parte per via fluviale e parte per ferrovia, dal Mar di Kara all’Estremo Oriente, pubblicando su questi viaggi una serie di volumi di notevole valore scientifico. Come uomo politico, favorisce lo scioglimento dell’effimera unione fra Svezia e Norvegia e dapprima svolge funzioni di ambasciatore a Londra, dal 1906 al 1908, indi negli Stati Uniti, durante la prima guerra mondiale; e svolge poi un ruolo non secondario nella fondazione della Società delle Nazioni. In tale organismo si segnala per l’attività dispiegata a favore dei profughi, specialmente gli Armeni reduci dal genocidio turco e i Russi reduci dalla guerra civile nel loro paese, nonché a favore del ritorno a casa dei prigionieri di guerra. Tutte queste attività gli valgono il conferimento, nel 1922, del premio Nobel per la pace; mentre, dopo la sua morte, viene costituito l’Ufficio internazionale Nansen per i rifugiati, un organismo autonomo delle Nazioni Unite per proseguire l’opera da lui iniziata a favore dei profughi di tutte le guerre. (2)
Ma torniamo al viaggio della Fram degli anni 1893-96. Il piano ideato da Nansen tiene conto delle recenti esperienze sia della Vega che della Jeannette ed è al tempo stesso semplice e geniale, oltre che notevolmente coraggioso.
“Qualche tempo dopo il naufragio della Jeannette – scrivono Guido Petter e Beatrice Garau – i resti della nave stritolata dai ghiacci vennero ritrovati dal grande esploratore norvegese Nansen in un luogo molto lontano dal punto del naufragio, e cioè sulle coste della Groenlandia, vale a dire proprio nella parte opposta del Mar Glaciale Artico.
“Abbiamo già veduto che il banco di ghiaccio in cui la Jeannette era rimasta intrappolata era in movimento; e il fatto che i resti della nave venissero ritrovati così lontano dal punto in cui la nave si era sfasciata stava a significare che il ghiaccio aveva compiuto, sotto la spinta dei venti o delle correnti, tutta la traversata del Mar Glaciale Artico.
“Questa constatazione suggerì a Nansen un’idea geniale. Egli pensò che sarebbe stato possibile recarsi con un’altra nave nella zona in cui la Jeannette era stata bloccata dai ghiacci, e lasciare che la nave venisse imprigionata aspettando poi che venisse trascinata anch’essa, come la Jeannette, lungo una rotta polare, nella direzione della Groenlandia. Così facendo, essa sarebbe probabilmente passata nelle vicinanze del Polo.
“Per affrontare una simile impresa erano tuttavia necessarie alcune cose. Nessuno poteva sapere se il campo di ghiaccio avrebbe seguito proprio un itinerario abbastanza simile a quello percorso dai resti della Jeannette, senza finire invece in altre zone dalle quali fosse poi impossibile ritornare: occorreva dunque una certa fiducia nella regolarità con la quale certi grandi fenomeni si ripetono (in questo caso, una certa fiducia nella regolarità dei venti e delle correnti del Mare Artico), che nessuno conosceva ancora. E Nansen aveva questa fiducia, perché aveva una mentalità da scienziato. Era inoltre indispensabile progettare e costruire una nave che fosse in grado di resistere alla pressione dei ghiacci, e dotarla di attrezzature e viveri sufficienti per trascorrere fra i ghiacci un periodo che poteva anche essere lunghissimo e per compiere osservazioni sistematiche nelle varie regioni che la nave avrebbe attraversato.
“Nansen riuscì a realizzare il suo progetto. Costruì una nave, la Fram (che in norvegese vuol dire ‘Avanti’), che aveva la chiglia tutta arrotondata, quasi come una saponetta. Se i ghiacci intorno a essa avessero cominciato a premere, la nave sarebbe sgusciata fuori, verso l’alto, sfuggendo così alla loro pressione.
“Durante questo lungo viaggio, che Nansen ha descritto nel suo libro Fra ghiacci e tenebre, furono compiute numerose ed importanti osservazioni scientifiche, in un ambiente nel quale nessuno prima di quel tempo aveva soggiornato a lungo. Nansen, inoltre, ad un certo momento decise di abbandonare la nave, che seguiva una rotta obbligata, per raggiungere a piedi il Polo, da cui non era più molto distante. Egli infatti si era ormai reso conto che la nave non sarebbe passata dal Polo. Con un solo compagno, utilizzando delle slitte e delle leggere imbarcazioni, necessarie per attraversare i canali che durante la buona stagione si aprono di tanto in tanto nella banchisa, nell’estate del 1895 si diresse verso il Polo Nord giungendo sino a 86° e 13′ di latitudine, e cioè a poco più, di 400 chilometri dal Polo […] Ad una così breve distanza dal Polo nessuno, prima di Nansen, era mai riuscito ad arrivare.
“Respinti dalle bufere e dal freddo, che l’inizio della cattiva stagione rendeva sempre più difficile sopportare, i due esploratori, non potendo più, evidentemente, ritornare alla nave che avevano lasciato da varie settimane e che aveva continuato a spostarsi insieme ai ghiacci, decisero di passare l’inverno nell’Artico. Nella primavera seguente, parecchi mesi dopo avere abbandonato la Fram, e dopo avere corso molti pericoli, fra i quali quello di perdere le loro due imbarcazioni con tutte le provviste, si imbatterono per caso in un’altra nave, che li raccolse e li riportò in patria” (3).
La formazione e la mentalità da scienziato di Nansen traspaiono nello stile e nell’impostazione generale del volume Tra vento e ghiacci, senza però che la precisione e l’oggettività della narrazione diventino aride o noiose; anzi, un soffio di poesia percorre le pagine, abbellite d’altronde da una serie di illustrazioni dell’autore: acquarelli che rivelano in lui un inaspettato temperamento d’artista. È, il suo, uno degli ultimi libri dedicati alle esplorazioni polari in cui l’incisione e il dipinto facciano le veci della fotografia, ricollegandosi idealmente alle relazioni dei grandi navigatori-scienziati del 1700, come Cook, La Pérouse e Bougainville, ed immergendo il lettore in un’atmosfera fascinosa e suggestiva. Nel complesso si può dire che Nansen, come scrittore, è sempre piacevole e non di rado affascinante; ha il gusto per la parola precisa ma al tempo stesso semplice, e sa dosare la cronaca di quel mitico triennio con una vena di senso dell’ironia che non dispiace e, anzi, dona brio e leggerezza a una lettura che altrimenti potrebbe risultare, talvolta, monotona.
“Il Fram – scrive Anton Mayer – lasciò il porto di Cristiania il 25 giugno 1893 con dodici uomini di equipaggio, fra cui Sverdrup e il luogotenente Johansen, e si portò senza incidenti fino alle acque a Nord del delta della Lena; presso le isole della Nuova Siberia fu seguita la direzione Nord e il 25 settembre il Fram era chiuso dai ghiacci. Fino allora tutto era andato bene, ma purtroppo la corrente non si comportò come Nansen aveva sperato; al contrario, con grande disappunto di tutti i partecipanti alla spedizione, trascinò la nave a Sud-Est. Dopo alcune settimane si constatò che il Fram si trovava suppergiù dove era cominciato il viaggio. Poi, tra la soddisfazione generale, il battello si diresse verso il Nord. Quindi il perfido giuoco della corrente ricominciò e portò il Fram in strane giravolte; naturalmente era impossibile di portare un ordine qualsiasi nello strano intrico di questi continui zig-zag. Trascorso un anno, il Fram era lontano appena 150 chilometri dal punto di partenza. Questo giuoco poteva rendere nervoso anche l’uomo più calmo, ma invece non dispiacque per nulla all’equipaggio; Nansen ci ha descritto la vita dei prigionieri dei ghiacci in un modo molto vivo e divertente. Dopo che le prime pressioni dei ghiacci furono sopportate bene e si fu certi che il Fram meritava piena fiducia, solo qualche avventura inevitabile nel mondo polare interruppe la monotonia del viaggio. Per il nutrimento si era provvisto nel modo migliore; Nansen fece addirittura servire nei giorni di festa qualche pranzo succulento, e nella nave si stava comodi e al caldo: dev’essere stato un viaggio polare piacevolissimo” (4).
Un esempio della capacità di sorridere anche nelle situazioni che, di per sé, non sarebbero prive di risvolti drammatici, lo abbiamo nella descrizione di come un orso bianco riesce a penetrare a bordo della nave, uccidendo alcuni cani da slitta e aggredendo, per fortuna senza conseguenze, alcuni degli uomini della spedizione; descrizione che, nel sottile velo di umorismo, può ricordare lo stile di un romanzo d’avventure a lieto fine, piuttosto che quello di una seriosa spedizione scientifica. E tutta la scena della lotta con l’orso è arricchita, nel testo, da alcuni simpatici schizzi dello stesso autore, altrettanto briosi della pagina scritta.
“Che peccato che un animale così bello e robusto avesse dovuto fare una fine simile! – scrive Nansen, alludendo a uno dei cani chiamato ‘Negro’. – Non aveva che un difetto: era selvatico, e sentiva una speciale antipatia per Johansen, e ringhiava e mostrava i denti ogniqualvolta questi montava in coperta o solo s’affacciava alla porta. Quando Johansen stava zufolando a riva, sul barile, nelle oscure notti d’inverno il ‘Negro’ gli rispondeva da lontano, sul ghiaccio, con urli di rabbia. Johansen si chinò col fanale sui miseri resti. – Johansen, è contento lei, ora che il suo nemico non è più al mondo? -. – No, me ne rincresce -. – E perché? -. – Perché non abbiamo fatta la pace prima che morisse- Non trovando altre orme d’orso, caricammo quei carcami sulle spalle e ci avviammo a bordo. Strada facendo, domandai a Hendriksen i particolari del suo incontro con l’orso. – Dunque, vedi, quando io e Mogstad salimmo colla lanterna, vidi due macchie di sangue vicino al barcarizzo, e dapprima pensai che potesse essere un cane che si fosse ferito. Ma sul ghiaccio, sotto il barcarizzo, trovammo le orme di un orso, e allora andammo verso ponente con tutti i cani avanti, capisci? A qualche distanza da bordo, sentii a un tratto un baccano d’inferno e, ecco venirci incontro una bestiaccia grossa grossa inseguita dai cani, capimmo subito cos’era, e ci mettemmo a correre verso il bastimento con tutta la forza delle nostre gambe. Mogstad che aveva i komager (scarpe lapponi) e conosceva meglio la strada arrivò a bordo prima di me, capisci. Io invece sai, non potevo correr tanto coi miei scarponi di legno, e nella confusione mi trovai a metà del gran cumulo a levante della prua. Mi voltai e feci chiaro indietro, per vedere se l’orso mi seguiva. Ma non vedendo nessun orso, tirai innanzi come potevo, e per causa di queste scarpacce andai a cadere lungo disteso in mezzo ai blocchi. Mi alzai, più che di fretta, e via, ma quando arrivai al ghiaccio liscio vicino al bordo, vidi a mano dritta qualcosa che mi veniva incontro, e che io dapprima credetti che fosse un cane, perché, sai, non è facile vederci all’oscuro. Ma non ebbi tempo di pensarci su, che l’orso mi fu sopra e mi morse qui nell’anca. E intanto grugniva -. – E tu cosa pensasti allora, Peder? -. – Cosa pensai? Pensai: qui è bell’e finita, pensai. Armi non ne avevo, cosa dovevo fare? Alzai il fanale, e con tutta la mia forza diedi un colpo tale sulla testa dell’orso che il fanale andò in tanti pezzi. Appena ricevuto il colpo, si accosciò, e si mise a guardarmi. Io stavo per darla a gambe, quando l’orso si rizzò non so se per saltarmi addosso o se per altro. In quel momento ecco venire un cane: l’orso gli si volta contro, ed io me ne monto a bordo -. – E dimmi, Peder, gridavi? -. – Se gridavo? Gridavo con quanto fiato avevo in corpo -. E doveva esser vero perché aveva ancora la voce rauca. – E frattanto, Mogstad dov’era? -. – Ma, sai, lui era venuto a bordo molto prima di me: ma che avesse mai pensato di scendere a dar l’allarme? Che! Prende il suo fucile nella cassetta, convinto e persuaso che lui solo bastava a sbrigarci dell’orso. Non gli riuscì però di far fuoco, sicché l’orso avrebbe potuto sbranarci sotto il suo naso, chissà quante volte -. Così chiacchierando eravamo giunti vicini al bordo, e Mogstad che dalla coperta aveva sentito l’ultima parte del dialogo, volle scagionarsi, e disse che egli era appena arrivato sotto il barcarizzo, quando Peder cominciò ad urlare. Aveva cercato tre volte di saltar su, e tre volte era caduto indietro prima di poter salire in coperta, dimodoché non aveva avuto tempo che di afferrare il fucile e di correre in aiuto del compagno.
“Quando l’orso s’allontanò da Peder, per scagliarsi sul cane, tutto il branco gli fu intorno. Ne azzannò uno e se lo mise sotto; ma, attaccato dagli altri che lo addentavano di dietro, dovette lasciar la preda e porsi sulla difensiva. Piombò addosso a un altro, e di nuovo l’intero branco fu sopra a lui. E così, scorrazzando avanti e indietro sul ghiaccio, si avvicinarono di nuovo al fianco della nave. Lì, al barcarizzo, c’era un cane che tentava di arrampicarsi a bordo. L’orso d’un balzo gli si avventò contro, e fu lì appunto che il mostro trovò un degno castigo. Dall’esame fatto a bordo, risultò che l’uncino a molla del collare del ‘Negro’ era stato drizzato; il guinzaglio del ‘Vecchio’ spezzato; mentre l’uncino del terzo cane era stato soltanto un po’ torto, così non era certo che ciò fosse opera dell’orso, e mi restava una debole speranza che il cane fosse ancora vivo. Ma per quanto cercassimo non fu possibile rintracciarlo. Una brutta storia, in complesso. Lasciar montare un orso a bordo, e perdere così tre cani in una volta. Andava assai male coi nostri cani: ormai erano ridotti a ventisei. Che orso terribile, pur essendo così piccolo! Era salito a bordo per il barcarizzo, spingendo a lato una cassa che vi stava davanti; aveva afferrato il cane più vicino, e via. Dopo aver placato la prima fame, era ritornato di bel nuovo a prendersene un secondo, ed avrebbe continuato, se glielo avessero permesso, fino a sbarazzare tutta la coperta” (5).
Un’altra situazione drammatica in cui Nansen si è trova coinvolto – questa volta in prima persona – è quella in cui, per un attimo di distrazione, le due scialuppe stanno per andare alla deriva, il che lascerebbe lui e il suo compagno, col quale sta tentando di avvicinarsi al Polo Nord a piedi, in una situazione assolutamente disperata. Questa volta, nel raccontare l’episodio, Nansen non sa trovare risvolti umoristici, tuttavia questa pagina ha il dono di una meravigliosa semplicità e naturalezza; e vi traspare la modestia dell’esploratore che neanche per un attimo è sfiorato dalla tentazione di inorgoglirsi per un’impresa – il recupero delle imbarcazioni a nuoto nel mare gelato – su cui altri, più vanitosi, avrebbero tessuto un piccolo monumento autocelebrativo.
“Sbarcammo e ci mettemmo a camminare in su e in giù, vicino ai caiachi. Il vento s’era calmato molto, girando più a ponente, sicché era da dubitare se avremmo potuto utilizzarlo più a lungo. Salimmo sopra un’eminenza per assicurarcene. A un tratto Johansen esclamò: – Oh, i caiachi, i caiachi che se ne vanno! – Scendemmo a precipizio: la barbetta s’era strappata, e i caiachi s’erano già scostati un buon tratto, e s’allontanavano rapidamente.
“- Qua, il cronometro! -, dissi a Johansen, porgendoglielo. E in tutta fretta mi levai una parte degli abiti, per poter nuotare più facilmente: spogliarmi del tutto non osavo, temendo di gelare. E mi gettai a nuoto.
“Il vento, che soffiava verso il largo, spingeva velocemente le leggere imbarcazioni che, quasi vacanti e coll’alberatura alta, gli offrivano buona presa. In quell’acqua diaccia e cogli abiti indosso che mi toglievano la libertà dei movimenti, facevo ben poco cammino. I caiachi s’allontanavano sempre più da me, e mi pareva quasi impossibile poterli raggiungere. E con essi s’allontanava ogni speranza di salvezza: tutto ciò che possedevamo era lì a bordo; non ci restava neanche un coltello! Tanto valeva affogare, quanto tornare senza di loro. Epperò facevo sforzi supremi.
“Quando mi sentii stanco, mi voltai per nuotare sul dorso, e in quella posizione vidi Johansen che correva di qua e di là, in preda alla maggiore inquietudine.
“Povero giovine! Non poteva star fermo: gli pareva orribile la sua inazione e nutriva ben poca speranza che riuscissi a recuperare i caiachi. Ma a nulla sarebbe giovato ch’egli pure si fosse gettato a nuoto. Mi disse dopo che quelli furono i più brutti momenti della sua vita.
“Quando mi voltai di nuovo a nuotar dritto e vidi che mi ero avvicinato, mi sentii crescere il coraggio e raddoppiai gli sforzi. Sentivo però che i muscoli mi s’irrigidivano e andavano perdendo ogni sensibilità, e capii che ben presto non sarei più stato in grado di muovermi. Ma la distanza era poca: se potevo resistere ancora qualche momento eravamo salvi. E continuai a nuotare. I movimenti si facevano sempre più deboli, ma la distanza diminuiva: ormai ero sicuro di arrivare. Finalmente stendo la mano e afferro un pattino che spunta a poppa, mi accosto al fianco, e cerco di montar su; ma, irrigidito dal freddo, non posso. Per un momento credetti che fosse troppo tardi. Ma poco dopo riesco finalmente ad alzare una gamba sopra la slitta, ch’era attraverso la coperta, e a tirarmi su. Eccomi lì seduto, ma così intorpidito, da poter appena muovere la pagaia. Non era facile far avanzare i due caiachi legati insieme e non potevo pensare a slegarli perché, prima che l’avessi fatto, sarei gelato del tutto: non mi restava che vogare a tutta forza per riscaldarmi. E così andai avanti adagio adagio, controvento, verso l’orlo del ghiaccio. Il freddo mi aveva tolto ogni sensibilità; ma quando venivano le folate di vento mi penetravano nell’ossa attraverso alla camicia di lana sottile e tutta bagnata. Tremavo e battevo i denti, ma pure potevo maneggiare la pagaia: mi sarei riscaldato quando fossi arrivato al banco.
“Di prua c’erano due alche e, corti com’eravamo a provviste, l’idea di averle per cena era troppo seducente. Afferrai il fucile e le ammazzai d’un colpo. Johansen mi raccontò dipoi che, a quello sparo, s’era riscosso; non capiva che diavolo facessi là fuori, e credeva che fosse accaduta una disgrazia.
“Quando mi vide vogare e raccogliere i due uccelli, temette che il cervello m’avesse dato volta. Finalmente riguadagnai l’orlo del ghiaccio; ma la corrente m’aveva trasportato a un buon tratto dal punto in cui m’ero buttato in mare. Johansen che m’era venuto incontro, saltò sui caiachi e presto vi fummo di ritorno. Durai fatica a sbarcare; ero spossato e tremavo a verga a verga. Johansen mi tolse gli abiti bagnati e mi mise indosso quei pochi cenci asciutti che ancora possedevamo, distese il sacco sul ghiaccio e, insaccato che fui, mi buttò addosso le vele e ogni cosa che potesse ripararmi dall’aria fredda. Per qualche tempo fui agitato da un gran tremito, ma poco a poco andai riacquistando il calore; e mentre Johansen preparava la tenda e faceva cuocere le alche, mi addormentai placidamente. Mi lasciò dormire in pace, e quando mi svegliai la cena era pronta da un pezzo e gorgogliava sul fornello. Il brodo caldo e le alche presto cancellarono le ultime tracce di quella brutta nuotata” (6).
Notiamo, di sfuggita, che dall’impresa di Nansen e specialmente dal nome della sua nave, ha tratto ispirazione un importante scrittore romeno del Novecento, Cézar Petrescu, per scrivere il suo romanzo Fram, ursul polar (Fram, l’orso polare), tradotto anche in Italia e rivolto prevalentemente – ma non solo – a un pubblico di bambini.
* * *
1) ZAVATTI, Silvio, Dizionario degli esploratori e delle scoperte geografiche, Milano, Feltrinelli, 1967, pp.203-204.
2) Cfr. voce Nansen dell’Enciclopedia Biografica Universale, Biblioteca Treccani, 2007, vol. 14, p. 65.
3) PETTER, Guido- GARAU, Beatrice, La conquista del Polo Nord, Firenze, Giunti- Marzocco, 1976, pp. 27-32.
4) MAYER, Anton, Seimila anni di esplorazioni e scoperte, Milano, Bompiani, 1936, p. 336.
5) NANSEN, Fridtjof, Fra ghiacci e tenebre, Roma, Voghera ed., 1967 (2 voll.), trad. di Cesare Norsa, vol. I, pp. 239-242.
6) Ibidem, vol. II, pp. 317-320.
7) PETRESCU, Cézar, Fram, l’orso polare, Milano, Edizioni Paoline, 1966; ved. anche LAMENDOLA, Francesco, L’opera narrativa di Cézar Petrescu, in Atti della Società Dante Alighieri a Treviso, vol. 4 (2003-2006), Treviso, 2006, pp. 348-378. Vedi anche LAMENDOLA, Francesco, «Fram, orso polare» di Cezar Petrescu, malinconica riflessione su natura e cultura, nel sito di Arianna Editrice.
Tratto, con il gentile consenso dell’autore, dal sito ariannaeditrice.it.
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