“Dem deutschen Mannen gereicht’s zum Ruhm, Dass sie gehasst das Christentum,
Bis Herrn Carolus’ leidigem Degen Die elden Sachsen unterlegen.”
(E’ gloria degli uomini della Germania aver odiato il Cristianesimo
fino al giorno in cui i nobili Sassoni dovettero soccombere sotto la spada di Carlo).
Goethe “Goethes Sprueche” Werke Band 1, Wegner Verlag, Hamburg 1969 .
Nella novella Die Rote Beeke (“Il fiume rosso”), l’autore descrive l’uccisione di 4.500 guerrieri sassoni che nel 782 furono giustiziati su ordine di Carlo Magno per non aver abiurato la loro religione pagana. Il racconto fu pubblicato in Germania nel 1912 dalla Sponholtz Verlag, illustrato da incisioni dell’artista Erich Feyerabend.
Il sole del mattino brilla come oro sulla brughiera, avvolge con il suo splendore ramato i tronchi maestosi, i germogli, i cespugli. Dal villaggio sul fiume, un giovane avanza, lentamente sale sul monte Heid; la sua bruna mano destra impugna una lunga ascia. Sulla cima del monte si ferma e guarda intorno appoggiandosi al ferro. Sopra di lui, sopra i prati, danzano e s’inseguono le nuvole, egli deve attendere. Segue con lo sguardo il sole e i corvi che gli volano attorno. Oggi volano molti corvi e tutti seguono la stessa via, e sopra di loro volano le aquile.
Il giovane piega leggermente la testa di lato e ascolta il rumore proveniente dalla brughiera. Si volta e vede avvicinarsi qualcuno. E’ alto e magro, i suoi capelli rossi brillano al sole; sulla schiena ha un sacchetto di pelo e sulla spalla destra un mantello di pelle.
Sa gracchiare come il corvo, verseggia come il gufo, stride come il falco, gorgheggia come la ghiandaia, trilla come l’astore e fischia come il fringuello. Il giovane contadino sorride; conosce il viandante, è Renke, il giocoliere, il cantastorie, il buffone senza casa amico di tutti. “Buon giorno figlio di Beekmann – grida lo straniero forte – Resta lassù, Lür caro, e risparmia le tue gambe; ho già controllato le tue trappole per i lupi: tre sono già catturati e ho provveduto io ad ammazzarli. Ma dimmi come va? Come stanno tuo padre, tua madre e Hille del Brinkhof?”
Sorridendo Lür stringe la mano affusolata e abbronzata del viandante. “Ti ringrazio Renke, va tutto bene a casa mia e dai Brink, ma s’è fatto tardi: senti, abbiamo ancora del grummet a casa, lo andiamo a prendere, ci canti qualcosa e poi rimani da noi!”.
Il malizioso viso di Renke diviene ad un tratto serio. “Non è tempo di giochi, Lür, ma tempo di battaglia. Non è tempo di canzoni figliolo, bensì tempo di morte. Non posso cantare davvero. Pensate a cacciare i cavalli selvaggi dalla brughiera, accompagnate il bestiame alla palude e nascondetevi, nascondetevi tutti, ché i Franchi non vi trovino!”.
“Sì, ormai è tempo! Sì, i corvi volano, le aquile migrano verso Occidente. Devo fare in fretta. Devo suonare… devo suonare il violino ad una danza, laggiù vicino al grande Traghetto (1), una danza per quelle teste che voleranno nella sabbia.”
“E’ il sole quella sfera vermiglia, oppure è una testa mozzata? E’ la brughiera quell’insieme di macchie rosse laggiù oppure è sangue?”
“Ragazzo, ti dico, corri via al più presto: il Re Carlo è su quel Traghetto e sta giudicando migliaia e migliaia di uomini. Figliolo, ti dico che il fiume diventerà per tre giorni rosso e tutti i pesci che ci vivono si allontaneranno, nessun animale berrà più la sua acqua e le rane verranno tutte sulla terra ferma.”
“Corri ragazzo e scompari per tre giorni. Io devo proseguire; Renke deve andare al Traghetto; Renke il giocoliere, Renke il cantastorie deve andare così che il sole mostri ancora il suo sorriso”. Egli guarda verso il sole e sputa poi nella sua direzione, mentre Lür scende di corsa il sentiero.
Il cantastorie si addentra con passi veloci nella brughiera, i suoi capelli rossi brillano al sole, ma il suo viso è pallido e teso. Lui, lui che conosce per nome ogni uccello, che riconosce ogni voce e richiamo, che è solito conversare con aquile e gufi, corvi e aironi… proprio lui oggi non sente il grido del tordo. Col mento chino sul petto, attraversa la campagna, la brughiera, il bosco. Sempre, tutte le volte che giunge in un villaggio, il viso di Renke s’illumina e ride, gli occhi si riempiono d’allegria, i suoi passi sono leggeri e quando intravede un uomo, allora racconta le sue storielle. Oggi però ammonisce e se vede che nel villaggio non c’è nessun commerciante straniero, nessuno spione servo dei Franchi, mette in guardia gli uomini dicendo: “I tempi sono duri, i giorni cupi. Il lupo della brughiera vive meglio del contadino, il legno per la forca è a buon mercato così come la fedeltà è a basso prezzo. Il tradimento invece è ben pagato”.
Un’ora prima di raggiungere il Traghetto, si ferma presso un piccolo ruscello; deve mangiare nonostante il suo cuore sia di ghiaccio e il suo cervello di fuoco. Lentamente si adagia, taglia il pane, lentamente mastica, lentamente beve dalla sua coppa. I suoi occhi, i suoi grandi occhi azzurri sembrano distanti. Pulisce il coltello nel muschio e chiude con uno spago il suo sacco di pelle. Sente qualcosa, tende l’orecchio. E’ un cavallo che nitrisce oppure un uomo che chiama? Come una lince Renke salta in piedi, raccoglie tre pietre dalla sabbia, sotterra mantello, sacco, scarpe e berretto sotto il muschio, controlla con le dita inumidite la direzione del vento, si guarda intorno, guarda il ruscello, scivola dietro un cespuglio e dopo essersi sdraiato preme il petto contro la terra. Ecco che arrivano: alla testa cavalcano tre uomini, segue un cavaliere franco; venti contadini camminano dietro a fatica, legati con una corda. Le loro schiene sono coperte dai segni della frusta, i capelli biondi sono madidi di sudore, le loro labbra sono esangui. Dietro cavalcano altri tre uomini, al loro fianco latrano sei cani da caccia.
Dietro cavalcano altri tre uomini; i cavalieri scendono dai loro destrieri, li abbeverano, si rinfrescano le fronti e si dissetano. I venti pallidi contadini fissano l’acqua, sono assetati e terrorizzati. Il cavaliere ride: “Acqua per voi? Per oggi avete avuto da bere a sufficienza pezzenti! Vero!?”, e salta di nuovo a cavallo tenendo l’elmo in mano.
Renke si morde le labbra dietro il cespuglio e i suoi denti stridono. Lascia ripartire tutti, poi mette una pietra nel laccio di cuoio e lo gira attorno, fissa di nuovo con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata, la fronte candida del cavaliere e ride piano. Guarda ancora una volta il ruscello, si arrampica su una quercia e lì ride, ride dentro di sé. Sulla strada i soldati si agitano come formiche che stanno per essere calpestate: “Che cos’è, cos’è stato? Hai visto? Avete osservato? Il signore è stato colpito? C’è sangue sulla sua fronte! Il cranio spaccato! Il sangue!”. Qualcuno ha lanciato una pietra. La pietra è a terra, è rossa.
Assicurano il cavaliere colpito al suo destriero e proseguono. “Non è il grido di un gufo questo? Un gufo di giorno? Porta male, porta male”. I Franchi sussultano, i contadini legati continuano a camminare urtandosi continuamente. Un gufo urla, un gufo dalle piume rosse, che può cantare, suonare il violino, raccontare storie allegre e fare scherzi buoni o cattivi, talvolta sanguinosi. E se pure noi dovessimo perire oggi, anche nella morte, dovremmo ridere dello scherzo di Renke! Egli è seduto sulla cima della quercia ma non ride più.
Trema dalla rabbia e mormora tra i denti: “Uno, uno soltanto, uno contro venti che conoscevo bene, venti al cui tavolo mi sedetti, nelle cui case dormii, il cui pane mangiai, venti a cui strinsi la mano. Fratelli, miei fratelli, non vi rivedrò mai più!”. Sulla corteccia della quercia scivolavano le sue lacrime.
Renke dove hai lasciato le tue lacrime, perché ridi così allegramente? Il tuo cuore è forse come il vento prima della pioggia che cambia veloce la direzione? La rabbia ti ha corrotto l’anima? Siedi là, tra i servi dei Franchi e le prostitute renane, bevi il loro vino, mangi il loro pane e canti le loro canzoni. Canti dove l’aria è aria di morte, ridi nel posto in cui su tutti gli alberi stanno i corvi, scherzi e le aquile volteggiano sul Traghetto. Ma in fondo perché non dovresti ridere, anche il sole ride e la brughiera è fiorita e l’acqua è splendente. E’ così bello qui vicino al Traghetto, così colorato. Il trono per il Re è coperto di porpora, rivestito di scarlatto d’oro; il vento agita migliaia di bandiere colorate, su mille scudi brillano bagliori argentati, l’aria è piena di nitriti e la chiara estate si attarda allegra.
Fai largo Renke, arriva il Re! Trenta mori suonano i corni d’oro, altri trenta battono i tamburi.
Vedi i cammelli con le portantine da cui provengono le risate delle concubine del Re? I fanciulli con il viso truccato, nani, i giganti, i buffoni, i sapienti, i preti, i cavalieri? I mercanti italiani, i giocolieri di Roma, le prostitute galliche? I carnefici, i ladri, gli assassini, gli schiavi in vendita? Vedi il Re? E’ quell’uomo obeso sulla portantina purpurea con il viso grasso e pallido, senza barba, sostenuto da sei mori, quello a cui due mori fanno aria con le piume, quello davanti a cui tutti i capi si chinano, colui che ogni bocca acclama.
Inneggia insieme agli altri Renke! Più forte che puoi! La puttana alla tua sinistra e lo schiavo di destra ti stanno spiando. Se non esulti con gli altri tra poco la tua testa varrà quanto il mangime per il pollame. E Renke acclama, grida più forte di quanti gli stanno intorno. “Evviva! Evviva!”, urla, sventola il berretto e fissa il Re; la sua bocca ride, lui ride come sa fare. Come quando era nei villaggi della brughiera e i giovani, alla luce delle fiaccole, ballavano al ritmo del suo violino.
Di fronte al trono purpureo ricoperto d’oro e scarlatto, sei mori si inginocchiano e dalla lussuosa portantina scende faticosamente, sorretto da forti signori, il Re gemente e ansimante. Vino e concubine del Sud hanno indebolito le sue membra. I suoi occhi guardano fisso, le sue labbra sono sottili, durante la notte ha sognato qualcosa di orribile, è pallido e sotto i suoi occhi ci sono profondi segni blu. Attorno a lui tutte le labbra sorridono e tutti i cuori tremano. Il Re non è di buon umore; là siedono le teste predestinate, le 4.500 teste bionde dei contadini, cacciatori, pescatori, pastori, carbonai e zatterieri che a gruppi di cento, incatenati e imbavagliati, attendono la morte dietro un recinto.
Il Re si alza dal suo trono purpureo, ricoperto d’oro e scarlatto. Il suo abito candido, orlato di rosso e giallo, scintilla al sole. Alla sua destra e alla sua sinistra si rannicchiano su cuscini colorati le sue concubine: la bionda lombarda e la scura provenzale. Attorno al trono stanno i potenti: i duchi, i segretari, i marescialli, i preti. In un angolo sta, vestito di una lunga veste verde, il medico moresco che guarda sempre il Re. Un giovane negro accanto a lui tiene nelle mani uno scrigno con i più diversi medicinali. Due tamburi risuonano, due corni squillano; un silenzio mortale scende sulle migliaia di uomini che stanno tutto intorno. Un uomo con una lunga veste nera rifinita d’oro, si avvicina al Re, s’inchina profondamente e con le mani pallide riceve la grande pergamena da cui pende il rosso sigillo regale. Due tamburi risuonano, due corni squillano tre volte. Tre volte e tre volte ancora. L’uomo con la veste nera rifinita d’oro si sposta ossequiosamente a lato del trono e legge ad alta voce lo scritto. Dalla folla in ascolto non giunge nemmeno un respiro. L’aspetto dell’uomo vestito di nero è imponente, pronuncia attentamente ogni parola, ma ciò di cui parla è sangue e morte; il sangue di 4.500 uomini fedeli a se stessi, la morte di 4.500 giusti che abbasserebbero il capo di fronte alla scure piuttosto che di fronte al potere franco e alla religione straniera. Essi batterono l’esercito franco sul Süntel, impiccarono al salice l’amministratore di Carlo, offrirono in sacrificio il prete vicino alle grandi pietre (2), misero il Gallo Rosso (3) sulle case degli esattori, rasero al suolo i presidi e gettarono Rolande nello stagno del villaggio. Essi sono uomini liberi che vogliono vivere come tali su terra libera. Diventeranno uomini liberi su terra libera, nella terra in cui non c’è più né signore né schiavo, né diritto né legge, né fedeltà né tradimento.
Le loro teste rotoleranno nella sabbia, il loro sangue scorrerà nelle fosse e attraverso le gialle dune dell’arenile fluirà al fiume. 4.500 spose e vedove oggi piangono; oggi aquile e corvi, lupi e volpi si rallegreranno per il lauto pasto. Renke, se sciogliessi il laccio che hai sul petto e prendessi la pietra che hai nella borsa e con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata, fissando quella fronte pallida sotto la corona, con un lancio colpissi la testa del Re dei Franchi macchiando di sangue il volto degli uomini importanti che lo circondano e la sua veste purpurea, Renke, se tu facessi questo, non saresti vissuto invano. Dall’Ams all’Elba, in tutti i boschi, su tutte le montagne, in ogni palude e brughiera, in ogni rovo e cespuglio risuonerebbe un grido, sotto ogni tetto si affilerebbero le lunghe scuri, ad ogni salice sarebbero fissate le forche, i carri verrebbero ripuliti dalla resina e rimessi a nuovo, di ogni fuscello si farebbe una fiaccola e da ogni ramo di nocciolo nascerebbe una freccia. I tamburi suonerebbero tutto il giorno e da mattina a sera si udirebbero i corni. Dal verso della civetta al canto del gallo risplenderebbero su ogni montagna e collina i rossi fuochi. Ogni valico sarebbe bloccato dalle pietre, dai tronchi e dai rami. Su tutti i sentieri si troverebbero le trappole per i lupi con gli affilatissimi picchetti sul fondo. Ogni diga sarebbe demolita, così che l’acqua divorerebbe ogni villaggio, ogni ponte, ogni foresta e ogni uomo. E Weking, il condottiero scomparso, sarebbe là, le schiere dei guerrieri si riunirebbero venendo dall’Ems e dal Lippe, dall’Aller e dal Weser; non un Franco rimarrebbe vivo: tutti devono finire sottoterra. Dai rami più alti delle querce cadranno pietre che fracasseranno le teste dei dominatori, l’aquila e il corvo dovrebbero ridere così come il lupo e la volpe.
Sciogli il laccio Renke, prendi la pietra e fatti largo tra la folla. E’ tempo ormai. L’uomo vestito di nero ha or ora finito di parlare, il Re ha spezzato il ramo bianco che teneva tra le mani. 4.500 teste sono in pericolo.
4.500 uomini attendono in silenzio. 9.000 occhi blu fissano disperati. Ma sei bloccato tra la folla Renke. Migliaia di soldati in armi stanno di fronte a te, migliaia di cavalieri si stanno disponendo a destra e a sinistra, ovunque ci sono spie e traditori. 450 cavalieri vestiti di rosso aspettano immobili davanti a 450 bianchi ceppi appena al di sotto del trono. Gli occhi di Renke si allargano e le sue guance divengono pallide, le labbra sono livide e le dita bianche e fredde. Tra un muro di soldati splendenti nelle loro corazze e di cavalieri scintillanti, procedono lentamente una fila scura ed una chiara. La scura è quella dei soldati, la chiara è fatta dalle schiene nude dei condannati. Gli occhi di Renke si allargano ancora di più e il suo cuore è impietrito. Il respiro nella sua gola si è fatto sottile e tagliente. I 450 ceppi bianchi sono lì davanti a lui e sopra ognuno di loro spicca un bagliore argentato. Due tamburi rullano, due corni squillano, un potente richiamo echeggia. 450 lampi d’argento scintillano sui ceppi.
Ora cento tamburi rullano e cento corni squillano e migliaia di respiri si alzano dalla folla dei pagani in attesa. Nove volte ancora risuonano i tamburi e i corni insieme, avanti e avanti, camminano due lunghe file di uomini tra la muraglia di soldati e cavalieri; nove volte ancora si sente il respiro affannoso dei condannati, nove volte sbattono le scuri sui ceppi ma questa volta non sono più pulite e lucenti bensì rosse e sudice.
Da dietro una collina arriva una grande nuvola nera che eclissa il sole. Il vento diventa freddo. Tutto intorno nella brughiera ululano i lupi. Il trono purpureo è vuoto, soldati e cavalieri scintillanti sono scomparsi. La sera cala scura e tetra sulla terra; davanti alle tende brillano i fuochi. Uccelli migratori e chiurli fischiettano e cantano tristemente. Sulla sponda del fiume siede il giocoliere; guarda l’acqua che scorre. E’ rossa, spessa e appesta l’aria in modo spaventoso. I pesci vagano tra le teste cercando acqua pulita. Muto e immobile se ne sta accovacciato nello stesso posto per tutta la notte, i suoi occhi non possono chiudersi. Sente il verso del gufo e il latrato della volpe. I lupi ululano e le martore guaiscono ed egli siede là, pensa al futuro e alla vendetta. L’allodola canta, i tordi svolazzano, Renke si alza, si scuote la polvere di dosso e risale con le ginocchia piegate il fiume rosso: oltre la brughiera, oltre il bosco e la palude. Col grido della civetta spaventa il gregge al pascolo; le pecore guardano paurose lo straniero. E’ Renke quello? Renke dalla testa color del rame? Ma i suoi capelli sono bianco argento. E’ Renke quello, il burlone? Ma la sua risata è scomparsa. E’ quello Renke, il cantastorie? Ma la sua voce è spezzata.
E’ Renke il vendicatore. Respirando profondamente vaga di fattoria in fattoria, di villaggio in villaggio, di contrada in contrada portando la notizia dell’orribile massacro commesso vicino al grande traghetto. Mangia veloce un boccone, beve un soma, si riposa per un’ora su un materasso di paglia e riprende il cammino, avanti con le ginocchia piegate dal Weser fino all’Ems, dalla brughiera fino alla montagna, dalla montagna fino alla palude, dalla palude alla costa del mare del Nord.
Renke è ovunque e da nessuna parte, ciò che lo distingue è l’ardente appello alla vendetta e il grido pieno d’odio. Là dove si scorge il suo capo bianco, gli occhi si sbarrano, le labbra scoloriscono, i pugni si serrano e le dita diventano artigli. Là dove la sua grave voce mormora si affilano le scuri, si appuntiscono le frecce, i lunghi coltelli luccicano.
Adesso corrono insieme a Renke migliaia di uomini da fattoria a fattoria, da villaggio a villaggio, da contrada a contrada, giocolieri, buffoni, cantastorie, musici, prestigiatori, pastori, cacciatori di lupi, pescatori di salmone, contadini e naviganti. Tutti gli uomini della contrada attaccata, quelli che erano là vicino al grande Traghetto quando, per ordine del Re Carlo, l’acqua del fiume divenne rossa.
Chi crede che ora la terra sia tranquilla, dimentica Weking e il canto che veniva intonato sotto ogni tetto di paglia, il canto dei crudeli carnefici e del fiume rosso.
* * *
Tratto da Orion n°4 – aprile 1995.
NOTE
1) Nel dialetto dei contadini della LüneburgerHeide, il “grande Traghetto” (Die große Fähre) è la città di Verden sul fiume Aller, dove avvenne il massacro (Cfr. Hermann Lons, Der Wehrwolf, p.250, Diederich Verlag, Jena 123) (NdT).
2) Presumibilmente ciò significa che i Sassoni pagani immolarono in onore dei loro dei i missionari cristiani alle Extersteine, le “grandi pietre” presso Horn, luogo di culto dell’Irminsul (cfr. “Origini” nr. 4) (NdT).
3) Si dichiararono cioè esenti da ogni tributo in quanto tributari del solo Wodan (Odino) (NdT).
L’artista tedesco Werner Graul (http://www.geocities.com/graulwerner) ha dedicato al martirio delle popolazioni germaniche da parte della chiesa diversi lavori:
* W. Graul, “Golgatha des Nordens. Bilder und Gedanken zur Geschichte des politischen Christentums”, Völund Verlag, Erfurt 1937.
* W. Graul, “Hexen Ketzer Heilige”, Verlag Sigrune, Erfurt 1937.
* W. Graul, “Zwerg Hüting zeigt Heiner den Weg”, Verlag Sigrune, Erfurt 1939.
* Illustrazioni nei libri
K.J.A. Balikg, “Wer laester Gott? Ein befreindes Buch”, Verlag Sigrune, Erfurt 1938.
K. Aller, “Moses entlarvt. Die Wunder Mosis als luftelektrische Vorgaenge”, Verlag Sigrune, Erfurt 1938.
J. Stein (Hrsg.), Graul, Autographia, Berlin 1931.
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