Il pensiero di Friedrich Nietzsche fu recepito in Italia prima ancora che in ogni altro Paese europeo, Germania compresa. Se all’estero il primo cenno di un interesse per il filosofo tedesco fu il ciclo di conferenze sul “radicalismo aristocratico” pubblicate da Georg Brandes nel 1890, in Italia uscì una recensione de La nascita della tragedia sulla fiorentina “Rivista Europea” già nel 1872. E Nietzsche stesso ne venne informato, come testimonia il suo Epistolario relativo agli anni 1869-1874.
Il circolo intellettuale riunito a Firenze nel salotto di Malwida von Meysenburg, l’amica e devota seguace di Wagner, divenne il primo fulcro di una specie di società nietzscheana, di cui fecero parte personaggi come lo storico Pasquale Villari e l’esoterista Edouard Schuré. Tuttavia, il vero e proprio lancio della figura di Nietzsche sul piano nazionale in Italia avvenne per merito di D’Annunzio, che lo citò per la prima volta nell’articolo La bestia elettiva, apparso nel settembre 1892 sul “Mattino” di Napoli. In questo scritto, intriso di lessico nietzscheano e di proclamazioni sovrumaniste, D’Annunzio dava fondo alla creazione di un’estetica aristocratica tutta giocata sui diritti titanici dell’uomo differenziato, negando alla radice l’egualitarismo e indicando nella sovranità interiore dell’aristocrate il principio della nobiltà e della superiorità. Proclamazioni e concetti che, riportati quasi alla lettera, ritroveremo nel famoso manifesto politico del Superuomo dannunziano, il romanzo visionario Le vergini delle rocce, del 1895, così come ne Il trionfo della morte dell’anno precedente. In quest’ultimo, ad esempio, è possibile leggere frasi che non lasciano alcun dubbio circa la fonte ideologica del suprematismo dannunziano: «Noi tendiamo le orecchie alla voce del magnanimo Zarathustra e prepariamo nell’arte, con sicura fede, l’avvento dell’Übermensch, del Superuomo».
Sin qui, tutto chiaro. Le profezie di grandezza di Nietzsche e il trionfo da lui preconizzato della volontà sulla morale si prestavano a meraviglia a far da basamento nobile alle incipienti ideologie della “Destra rivoluzionaria” italiana. Che, sul finire del secolo, con intellettuali politici come Morasso e Corradini, iniziava a muovere i primi passi verso la rivendicazione rivoluzionaria dell’imperialismo, della volontà di potenza sia in chiave nazionale che individuale. Ma ci fu anche un altro ambiente che, in quegli anni, si interessò a Nietzsche. Furono alcuni socialisti della prima ora a dare di Nietzsche un’interpretazione più sociale che estetica, più libertaria che classista, proponendosi di sottrarlo alla lettura conservatrice e individualista delle cerchie culturali nazional-liberali. Erano i primi contorni di un socialismo aristocratico – quello di Sorel – che applicava il nietzscheanesimo alla rivoluzione delle nuove élites, emergenti dalla lotta in corso nella civiltà delle macchine e delle masse. Ci fu chi in Nietzsche volle vedere un annunzio di rivendicazione per l’avvento di nuovi ranghi sociali. Giuseppe Rensi, prima di diventare il teorico dello scetticismo, provò a fare la sintesi di Marx e Nietzsche. Un suo articolo del 1895 su “Critica sociale”, la rivista teorica del Partito Socialista, annunciava il socialismo come volontà di potenza, arruolando senz’altro Nietzsche tra le file dei rivoluzionari: «Noi ci proponiamo di dimostrare che il socialismo trova la sua piena giustificazione nella dottrina nietzschiana e che Nietzsche e Marx hanno concezioni sociali assai più affini che forse non ritengano i loro rispettivi discepoli».
Trascurando il fatto che Nietzsche mostrò sempre apertamente il più radicale disprezzo per il socialismo – da lui considerato uno dei più nefasti sintomi della degenerazione moderna – certi settori eretici del socialismo continuarono a dare di Nietzsche una versione per così dire socializzata, comunitarista, che per la verità avrà un suo futuro, ma sotto spoglie fasciste. Basta pensare a come verranno concepiti dal Fascismo il radicalismo nazionale e l’imperialismo popolare: come atti di prometeica volontà assoluta, compiuti dal popolo in quanto individuo collettivo. Padrone del suo destino e non frenato da alcuna morale restrittiva… Del resto, il socialismo prussiano teorizzato da Spengler, così come lo stesso Partito Socialdemocratico di Bebel, avevano robuste innervature volontariste e sovrumaniste: strumenti militarizzati al servizio di una Lebensphilosophie socialista e nazionale.
Nel novembre 1908, l’onorevole socialista Claudio Treves, al teatro comunale di Forlì, tenne una conferenza su Nietzsche, dal titolo La filosofia della forza. Il giovane Benito Mussolini, che era tra il pubblico, poche settimane dopo ne scrisse un commento con lo stesso titolo su “Il pensiero romagnolo”, che era l’organo dei repubblicani della provincia di Forlì. Perché questo interesse dei socialisti dell’epoca per Nietzsche, l’antisocialista, il dispregiatore della plebe? I socialisti nietzscheani erano eretici anti-egualitari, vedevano nell’Illuminato essenzialmente il rivoltoso, colui che voleva rovesciare la realtà. Al rivoluzionario radicale guardava chi aveva in mente la lotta senza quartiere contro la mediocre società borghese, conservatrice e cattolica: i deboli accettano il mondo così come lo hanno trovato… sono invece i forti che vogliono cambiarlo a loro misura… Mussolini spiegò un giorno di che razza fosse il suo socialismo giovanile. E chiamò in causa Lassalle, Stirner, Sorel, Blanqui, Blanc, Lagardelle… tutte figure di sovrumanisti alla Nietzsche, tutti esegeti del mito, della lotta, del gesto eroico, dell’azione, della volontà superiore, dell’idea di comunità come selezione scelta e avanguardia dei migliori!
Nello scritto La filosofia della forza – recentemente ripubblicato dalle Edizioni di Ar con una postfazione di Anna K. Valerio – Mussolini ripercorreva giusto cent’anni fa il senso della rivolta di Nietzsche contro l’epoca moderna, deplorando che al suo vertice si fossero messi i vili e i pacifisti disonesti: quanto questa epoca si mostra marcia di “buoni sentimenti” e di ipocrisie morali, di tanto invece il futuro sarebbe spettato a quelle aristocrazie che l’antichità vide scalzate dall’affermazione cristiana. Come era stato possibile – si chiedeva Mussolini sulla scorta di Nietzsche – che gli uomini duri e tenaci delle antiche gerarchie, i dominatori e i superbi conquistatori che fondarono le civiltà del passato, fossero stati sconfitti da insorgenze plebee e schiavili? I deboli, allora, sono stati i più forti? La sovversione, spiegava Mussolini parafrasando Nietzsche, nacque in verità non da una lotta aperta, ma da un insidioso «atto di vendetta spirituale». L’eroe è spesso ingenuo. Come Sigfrido, si lascia facilmente ingannare da un attacco dissimulato. Così Roma, prima sedotta e poi vinta dal cristianesimo: «Israele stesso non ha forse, col giro vizioso di questo Redentore, di questo apparente avversario e dissolvitore d’Israele, raggiunto l’ultimo scopo della sua sublime vendetta?». Questo passo della Genealogia della morale, veniva messo da Mussolini al centro del disegno storico elaborato da Nietzsche. Solo così si poterono vedere gli antichi signori scomparire e, con loro, giungere a rovina le più alte civiltà della nostra tradizione. In loro luogo, ci fu la presa del potere da parte dei predicatori della debolezza, della rinuncia, dell’affratellamento egualitario… Coloro che i Romani chiamavano i “nemici del genere umano”, i “dispregiatori della vita”… Con la fine di Roma e l’avvento dei fanatici della renitenza e del tradimento del corpo, si rovescia insomma ciò che è diritto e, come scriveva Mussolini, «ciò che era buono diventa cattivo».
Nello scritto sulla Filosofia della forza, Mussolini descrisse in brevi parole quale dovesse essere la sostanza dell’approccio a Nietzsche dal punto di vista di un socialista rivoluzionario. Egli, che aveva anche ammirato la filosofia faustiana di Stirner, mise l’accento sul fatto che il Superuomo non andava inteso come singolo, ma come comunità di simili sospinti da un’unica volontà. In questo senso, Nietzsche non parlò all’individuo, ma alle cerchie dei migliori. Non fu un individualista liberale, insomma, bensì un annunciatore di nuove gerarchie. Poi, col passaggio al Fascismo e con la sintesi tra socialismo e nazionalismo che quello formulava, l’idea di comunità sovrumana, sorta in Mussolini sull’insegnamento di Nietzsche, si allargherà alla stirpe eroica, alla razza dominatrice, al popolo fatto di “uomini nuovi”, guidato dalle sue scelte minoranze.
Nella Filosofia della forza la comunità prevale sull’individuo: «Anche i conquistatori obbediscono alle disposizioni che la collettività prende per salvaguardare gli interessi supremi della casta e questa può dirsi una prima limitazione della volontà individuale». La legge della solidarietà positiva fra i dominatori doveva suonare limitazione degli egoismi selvaggi e promessa di un «prossimo ritorno all’ideale», incarnato dai nuovi liberi spiriti: «fortificati dalla guerra, nella solitudine, nel grande pericolo, spiriti che conosceranno il vento, i ghiacci, le nevi delle alte montagne e sapranno misurare con occhio sereno tutta la profondità degli abissi…».
Non c’è in queste parole già tutta formata l’ideologia dell’uomo nuovo profetizzato dal Fascismo? Era il riappropriarsi moderno dell’eredità romana, quell’italianismo che, secondo lo storico Emilio Gentile, fu il fulcro ideologico del Fascismo, che mirava a socializzare la «fede in una missione spirituale dell’Italia nel mondo moderno, per la quale gli italiani dovevano essere educati». Poche settimane dopo l’articolo sulla filosofia della forza, Mussolini entrò in contatto con Prezzolini e “La Voce”. È qui che, nella mente del futuro Duce, si fece largo la composizione dell’ideologia superomistica attinta da Nietzsche con l’idea di un primato della volontà di vita, allargata a un’intera comunità di stirpe. Parlando nel 1935 con Yvon De Begnac, Mussolini riconobbe che questo contatto fu per lui fondamentale nell’ideazione dell’uomo nuovo fascista. E confessò: «Stirner letto e riletto nel 1905 e nel 1906. Nietzsche adorato attraverso l’illuminante lezione di Claudio Treves. Stirner e Nietzsche, dunque, mi avevano aperto gli occhi». Il titanismo individualistico dei creatori dell’Unico e del Superuomo gli aprirono gli occhi sulla possibilità di realizzare queste figure filosofiche nella realtà politica quotidiana, attraverso l’abbinamento del socialismo col nazionalismo. La pedagogia fascista insegnò che l’onore più grande risiede nell’appartenere a un’aristocrazia militante, in grado di vivere davvero i miti della volontà e del raggiungimento dell’impossibile, a costo di qualunque sacrificio e foss’anche contro un intero mondo di nemici. Un sovrumano nietzscheanesimo di popolo…
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Tratto da Linea del 5 settembre 2008.
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