“Erano piombati alle nove d’un mercoledì sera, i falangisti di papà Gemayel… E con la complicità degli israeliani, sempre lieti di soddisfare la loro inesauribile sete di vendetta, avevano circondato i due quartieri per bloccarne ogni via d’uscita. Una manovra così veloce, perfetta, che pochi avevano avuto il tempo di nascondersi o tentare la fuga. Poi, fieri della loro fede in Gesù Cristo e in San Marone e nella Madonna, protetti dai figli d’Abramo che gli illuminavano la strada coi riflettori, erano irrotti nelle case. S’erano messi ad ammazzare i disgraziati che a quell’ora cenavano o guardavano la televisione o dormivano. Avevano continuato tutta la notte. E tutto il giorno seguente. E tutta la notte seguente, fino a venerdì mattina. Trentasei ore filate. Senza stancarsi, senza fermarsi, senza che nessuno gli dicesse basta. Nessuno. Né gli israeliani, ovvio, né gli sciiti che abitavano negli edifici attigui e che dalle finestre vedevano bene l’obbrobrio. E fortunati gli uomini uccisi subito a raffiche di mitra o colpi di baionetta, fortunati i vecchi sgozzati nel letto per risparmiare le munizioni. Le donne, prima di fucilarle o sgozzarle, le avevano violentate. Sodomizzate“.
Così Oriana Fallaci descrive nel suo Inshallah del 1990 i massacri di Sabra e Chatila compiuti tra il 16 e il 18 settembre 1982, quei massacri per i quali la Falange maronita rimarrà tristemente nella storia come una delle più feroci unità militari di sempre.
Ma chi erano, chi sono, al di là di questa macchia che ne infangherà per sempre il nome, i “Kataeb”, i falangisti libanesi, e come poterono arrivare, con la complicità degli israeliani del criminale di guerra Sharon, ad un tale livello di atrocità?
Non è facile rispondere a questa domanda, perché la storia della Falange si interseca inestricabilmente con quell’incredibile intreccio di eventi, alleanze e scissioni che forma la storia libanese dall’indipendenza alla guerra civile.
Cerchiamo di partire dall’inizio, da quell’inizio in cui la parabola del Kataeb corrisponde a quella di un uomo che fonderà una delle più potenti “dinastie” mediorientali: Pierre Gemayel.
Nato in Egitto (dove la famiglia Gemayel era dovuta emigrare per la sua opposizione all’Impero Ottomano), cattolico, farmacista a Beirut ma soprattutto capitano della nazionale di calcio libanese, Pierre nel 1936 aveva partecipato ai giochi olimpici di Berlino, rimanendo impressionato dall’ordine e dall’organizzazione dei nazisti, quello stesso ordine e quella stessa organizzazione che, secondo lui, erano quanto più mancava al Medio Oriente. Per questo, tornato a casa, si diede da fare con i politici William Hawi e Charles Helou per creare una organizzazione giovanile che rispecchiasse quell’idea di ordine e che si rifacesse ideologicamente al conservatorismo ultrareligioso franchista. Fu così che nacque il Partito Social-democratico Libanese, più comunemente conosciuto come “Kataeb” (in arabo “Falange”), un partito che, nonostante le sue origini, nonostante le “camice brune” dei suoi militanti, nonostante il suo saluto romano, non fu mai né nazista né, probabilmente, neppure fascista, ma che era destinato ad essere il braccio politico del Cristianesimo tradizionalista maronita e del nazionalismo libanese, dei quali, con il suo moto “Dio, Nazione, Famiglia” voleva difendere i valori.
Anche qui, però, dobbiamo fare molta attenzione a non confondere tra Maroniti e falangisti: se tutti i falangisti furono maroniti, non è vero il contrario e, anzi, il fronte cristiano maronita fu molto diviso sia durante la fase di liberazione dal colonialismo francese che, soprattutto, durante la guerra civile, con frange anche radicalmente anti-falangiste.
Inizialmente, comunque, il partito non ebbe un grandissimo seguito: nella lotta anti-coloniale, pur avendo una posizione molto netta a riguardo (e infatti fu reso illegale nel 1937 dal governo francese), con i suoi 35.000 iscritti il Kataeb non era che una delle numerose forze del frastagliato panorama politico e etnico del Paese dei Cedri.
La vera ascesa di Pierre Gemayel e della sua fazione cominciò solo a partire dalla grande crisi del 1958, quando si ebbero i prodromi della tragedia nazionale di diciassette anni dopo. Le vicende di quel periodo sono ormai poco note al grande pubblico: il patto nazionale post-coloniale aveva assegnato la Presidenza della Repubblica ai Cristiani e, negli anni del nazionalismo pan-arabista imperante, il presidente Camille Chamoun aveva scontentato le fazioni scite e sunnite assumendo posizioni fortemente contrarie alla nazionalizzazione nasseriana del Canale di Suez e alla formazione di una Repubblica Araba Unita tra Egitto e Siria e fortemente favorevoli alla “Dottrina Eisenhower” di intervento statunitense in Medio Oriente. Quando si era già sull’orlo di una guerra tra fazioni religiose, proprio la “Dottrina Eisenhower” aveva salvato lo status quo, con lo sbarco di 15.000 marines americani a Beirut in una di quelle “operazioni di polizia” che sarebbero divenute poi tristemente ricorrenti. La pace era stata salvata, ma Chamoun si era dovuto fare da parte, lasciando spazio ad altri gruppi di rappresentanza della maggioranza maronita, primo tra tutti, appunto, il Kataeb: Gemayel era entrato nel “governo di unità nazionale” e, due anni, dopo, sarebbe stato eletto al parlamento in un seggio di “Beirut città” che non avrebbe abbandonato fino alla sua morte (pur non riuscendo mai a farsi eleggere Presidente).
Da quel momento in poi, fu un continuo crescendo per i falangisti, grazie soprattutto all’abilità del loro leader di destreggiarsi (spesso con notevole cinismo) nei meandri della complicatissima politica nazionale: alla fine degli anni ’60, con 9 seggi parlamentari, il Kataeb (ora alleato nella Alleanza Tripartita con gli altri due partiti maroniti, i Nazional-Liberali di Chamoun e il Blocco Nazionale di Eddé, per un totale, includendo gruppi minori, di 30 seggi su 99) risultava la più importante compagine cristiana del Libano, anche grazie alla sua ferma opposizione al grande elemento destabilizzatore del Paese, il continuo afflusso di Palestinesi sunniti nei campi profughi.
La domanda che dobbiamo porci è che cosa avessero i falangisti (e, più in generale, i Cristiani) contro i Palestinesi.
La risposta va ricercata in due fattori: in primo luogo nel fragilissimo equilibrio confessionale che regnava in Libano, un equilibrio che l’enorme numero di Sunniti che dal 1948 in poi stava riempiendo numerose aree di Beirut, Tiro e Sidone rischiava di alterare, soprattutto togliendo la maggioranza relativa ai Cristiani in favore dei Musulmani; in secondo luogo, nell’ultranazionalismo falangista che vedeva nella presenza di un numero sempre crescente di profughi sotto il comando di Fatah e non del governo nazionale un cancro capace di minare l’unità del Libano.
Su questi presupposti, è, dunque, logico che il Kataeb si opponesse al grande esodo palestinese post-1967 e agli “Accordi del Cairo” imposti al Libano nel 1969 dalla comunità internazionale, che rendevano i campi profughi, di fatto, area extraterritoriale in cui l’esercito libanese non poteva entrare. Soprattutto, appare logico che, prevedendo (o forse solo temendo) un tentativo delle forze di Arafat di prendere possesso con la forza del governo di Beirut, Gemayel desse ordine di creare una milizia (la “Forza Regolare Kataeb” o KRF affidata a suo figlio Bashir), a lungo armata e sovvenzionata da Israele.
Arriviamo così al 1975, anno cruciale per il Libano in generale e per la Falange in particolare: il 1975 è l’anno in cui il Kataeb raggiunge il suo massimo storico di iscritti (80.000) e in cui tutti i nodi vengono al pettine, con l’inizio della guerra civile.
Tutto precipita a partire dal 13 aprile e il KRF è protagonista dell’episodio che, storicamente, dà il via alle ostilità. Alla mattina di quel giorno, fuori dalla Chiesa di Notre Dame de la Délivrance nel quartiere a maggioranza cristiana di Ain el-Rammaneh a Beirut Est, si verifica un alterco tra una mezza dozzina di feddayyn dell’OLP, su un veicolo di passaggio che svolge il consueto carosello sparando in aria (in arabo: “baroud“) e una squadra di miliziani del KRF che sta deviando il traffico dalla parte anteriore della chiesa, in cui si stava svolgendo un battesimo. La rissa provoca la morte del conducente del veicolo dell’OLP, colpito accidentalmente, ma, fino a questo punto, si tratta di uno dei numerosi incidenti piuttosto frequenti nel clima di tensione di quel periodo. Il problema è che un’ora dopo, quando gli invitati al battesimo sono tutti di fronte alla chiesa, una banda di uomini armati non identificati su due auto civili (abbastanza stranamente, tanto da poter far pensare ad una montatura, con manifesti e adesivi appartenenti al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, una fazione dell’OLP) improvvisamente apre il fuoco sui presenti, uccidendo quattro persone dell’entourage personale di Pierre Gemayel. Nel trambusto che segue, falangisti del KRF e miliziani delle Tigri di Chamoun cominciano a istituire posti di blocco in tutti i quartieri cristiani di Beirut Est, mentre feddayyn palestinesi fanno lo stesso nei quartieri musulmani di Beirut ovest. La tragedia avviene verso le 12.30, quando un autobus di Palestinesi e Musulmani (tra cui donne e bambini) di ritorno da un comizio politico a Tel el-Zaatar e sulla via del campo profughi di Sabra viene attaccato dai falangisti, che uccidono 27 persone e ne feriscono altre 19. E’ l’ultima goccia: dopo il “massacro del bus” scontri tra Cristiani e Musulmani divampano in tutto il Paese, causando 300 morti, Gemayel non riconosce più il governo in carica del sunnita Rashid Al-Sulth (che aveva cercato, con l’intervento della Gendarmerie, di farsi consegnare i responsabili del massacro) e le forze si polarizzano, con, da un lato, i Musulmani di sinistra del Movimento Nazionale Libanese (MNL) e, dall’altra, tutti i gruppi para-militari cristiani (KRF, Tigri, Al-Tanzim di ultra-destra, Brigata Marada del Presidente Franjieh, Guardiani dei Cedri di Etienne Saqr, Movimento Giovanile Libanese ultracattolico di Bashir Maroun El-Khoury, Team Commando di Tiro nazisti) che, l’anno seguente, si sarebbero ufficialmente riuniti nel Fronte Libanese (FL).
Durante la guerra civile, il KRF si distinse per l’estrema violenza (oltre che per le vere e proprie azioni di racket criminale sulle zone da lui controllate) con cui attaccò non solo i nemici musulmani, ma anche i concorrenti alla leadership cristiana (la Brigata Marada e le Tigri furono, di fatto, distrutte proprio dai falangisti del Kataeb). Fu soprattutto la prima parte della guerra ad essere confusa. Dopo una serie di massacri (Karentina, Damour) perpetrati da entrambi gli schieramenti, nel giugno del 1976, con i Maroniti sull’orlo della sconfitta, il Presidente Suleiman Franjieh chiese l’intervento della Siria in Libano, formalmente per la difesa del porto di Beirut, la cui chiusura avrebbe arrecato un enorme danno economico a Damasco. Era una mossa disperata ma, inizialmente, Gemayel e il Kataeb si dimostrarono d’accordo. La Siria, da parte sua, accettò di appoggiare il governo maronita, staccandosi dall’alleanza stipulata con l’OLP, anche per eliminare i nuclei anti-Ba’athisti dei Fratelli Musulmani presenti in Libano. Questa mossa, tecnicamente, metteva la Siria dalla stessa parte del nemico storico Israele (che aveva già iniziato a rifornire le forze maronite con armi, carri armati e consiglieri militari dal maggio 1976), ma, mosse dalla ragion di Stato, le truppe siriane entrarono in Libano, occupando Tripoli e la valle della Bekaa, vincendo facilmente le resistenze dell’MNL e dei Palestinesi e imponendo un cessate il fuoco che, comunque, non impedì il massacro di 2.000 Palestinesi da parte delle milizie cristiane nel campo profughi di Tel al-Zaatar.
Nel mese di ottobre 1976 la Siria accettò la proposta del vertice della Lega Araba a Riyadh, che le dava mandato di mantenere 40.000 soldati in Libano come parte (preponderante) di una forza di deterrenza araba (ADF) che mantenesse la calma nel Paese. Di fatto, gli altri contingenti abbandonarono quasi subito le regioni più calde, lasciando il Paese dei Cedri in mano alla Siria con in più uno scudo diplomatico che legittimasse la presenza delle truppe di Damasco in una Nazione estera sovrana. In realtà, poi, il Libano in quel momento era solo nominalmente una entità unitaria: in pratica, infatti, il nord era controllato dai Cristiani dell’FL, mentre il sud era in mano ai Musulmani dell’MNL. Su entrambi gli schieramenti la Siria giocò pesantemente per frammentare le coalizioni in una tattica di “divide et impera” che risultò particolarmente facile, per quanto riguarda l’MNL, dopo la morte del leader druso Kamal Jumblatt (probabilmente per mano di Damasco). Questo gioco non piacque a Gemayel che, a partire dal 1978, cambiò rapidamente posizioni portando il Kataeb, in unione con le forze di Chamoun e di Saqr, su posizioni fortemente anti-siriane.
Intanto la guerra stava assumendo un aspetto completamente nuovo. Dopo un attacco di alcuni feddayyn di stanza nel sud del Libano a civili in territorio israeliano, Israele, l’11 marzo 1978, lanciò l'”Operazione Litani”, che portò all’occupazione del Libano meridionale fino, appunto, al fiume Litani. Immediatamente il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvò la Risoluzione 425 che chiedeva l’immediato ritiro israeliano e la creazione di una forza di pace internazionale (UNIFIL) che controllasse l’area di 19 chilometri al confine tra Libano e Israele. Gerusalemme accettò di ritirarsi, ma formò una milizia cristiano-sciita (a maggioranza cristiana), l’Esercito del Libano del Sud (SLA), guidato dal maggiore Haddad, per “mantenere pulita” l’area dall’OLP e dai suoi alleati.
Gli scontri tra Israeliani e SLA da una parte e OLP dall’altra furono violentissimi e, politicamente, ebbero soprattutto l’effetto di mutare lo scenario politico, facendo sì che la Siria ritirasse il supporto ai Cristiani a favore dei Palestinesi, divenendo, così, nemica della KRF falangista dei Gemayel. Se, dunque, Franjhe rimaneva il paladino siriano, ora Israele gli contrapponeva il suo alleato più fedele, quel Bachir Gemayel, figlio di Pierre, le cui milizie si distinguevano per ferocia e determinazione nella lotta contro i Palestinesi. In particolare, Bachir era diventato il pupillo di Sharon, il falco che, Ministro della Difesa del secondo governo Begin, avrebbe voluto una invasione del Libano con la distruzione di ogni traccia dell’OLP dal Paese e la Presidenza del maronita per avere una pace permanente con lo scomodo confinante.
La Knesset, nel 1981, anche su pressione americana, rifiutò ogni ulteriore intervento se non in caso di gravi provocazioni che, per altro, continuavano ad esserci (Arafat comandò 270 attacchi a Israele dopo il cessate il fuoco ONU, che il leader palestinese intendeva limitato unicamente al Libano). Dopo un tentativo da parte dell’estremista palestinese Abu Nidal (già condannato a morte dallo stesso OLP) di assassinare l’ambasciatore israeliano a Londra (3 giugno 1982) Sharon riuscì a dare l’ordine di bombardare Beirut Ovest con l’assenso dell Knesset. Per ritorsione i Palestinesi violarono il cessate il fuoco e questo portò immediatamente, il 6 giugno 1982, l’esercito israeliano a dare il via, con il consenso americano (che in sede ONU usò il diritto di veto contro ogni condanna dell’azione), all’operazione “Pace in Galilea”. In meno di 9 giorni Beirut Ovest era sotto assedio, continuamente bombardata dagli aerei con la stella di David per snidare i 16.000 feddayyn che vi si rifugiavano. Dopo 11 giorni l’ONU chiese il ritiro delle truppe di Gerusalemme a 10 chilometri dalla città e, con la mediazione dell’americano Philip Habib, si giunse, il 12 agosto, ad una tregua con l’invio di un contingente di pace americano, francese e italiano.
Come da volontà di Sharon, il 23 agosto Bachir Gemayel veniva eletto Presidente di uno Stato che, in realtà, era sotto il controllo di Israele. Bachir era un militare più che un politico e da molti era considerato un fanatico anti-palestinese (cosa pienamente spiegabile visto che nel 1980 un attentato OLP gli aveva ucciso la figlia di 18 mesi), piuttosto rozzo e giunto ad alti gradi di potere solo grazie alla presenza, alle sue spalle, del padre Pierre. In effetti non ebbe mai modo di dimostrare il contrario, dal momento che fu ucciso in un attentato il 14 settembre, pochi giorni prima del suo insediamento.
La risposta dei falangisti all’attentato fu la più feroce possibile: Sabra e Chatila. Trasportati dagli Israeliani (che poi, durante la notte, illuminarono i campi a giorno), 200 miliziani del Kataeb, tutti scelti tra coloro che avevano avuto famigliari uccisi dall’OPL nel precedente massacro di Damour, guidati da Elie Hobeika, uno dei più famigerati capi militari della Falange (che, per altro, aveva avuto famiglia e fidanzata trucidati a Damour), già responsabile dell’omicidio del leader maronita avversario Tony Franjieh e, in seguito, più volte ministro di vari governi nazionali, penetrarono nei campi e per tre giorni misero in atto uno dei più terribili massacri di civili inermi della storia, per il quale tribunali internazionali di varia natura bollarono, in seguito, Hobeika stesso e il suo complice (e forse mandante) Sharon (che si dovette dimettere dalla carica di Ministro della Difesa, ma rimase, comunque, influente Ministro senza portafoglio dello Stato d’Israele) come criminali di guerra.
Nonostante lo sdegno internazionale, comunque, con il sostegno degli Stati Uniti, Amine Gemayel, fratello di Bechir (rispetto al quale aveva, comunque, posizioni molto più moderate e meno fanatiche), venne scelto dal Parlamento libanese a succedere al fratello come Presidente, con il preciso mandato di occuparsi del ritiro delle forze israeliane e siriane. Le due cose, però, in qualche modo si escludevano reciprocamente e, infatti, l’accordo del 17 maggio 1983 con cui Amine riuscì a far evacuare le truppe israeliane dal Libano fu visto come un tradimento dai governi arabi, in primo luogo, dalla Siria che rifiutò di ritirare i propri soldati dal nord-est del Paese. Le pressioni siriane (e di parte dei Maroniti) portarono Gemayel ad annullare l’accordo del 17 maggio, con il risultato di ridare forza ai Musulmani e di acuirne i sentimenti anti-occidentali, fino ai famigerati attentati ai quartier generali dell’UNIFIL americani e francesi del 23 ottobre 1983 (che provocarono 241 morti statunitensi e 58 morti francesi). Di fatto, in questo momento la Falange risulta perdente, nonostante la presidenza di Gemayel che, in realtà non ha alcun margine di manovra, stretto com’è tra “protettorato siriano”, esplosione delle forze maronite in decine di rivoli sparsi e sviluppo del neonato movimento Hezbollah nel sud del Paese.
Infatti, il periodo tra 1984 e 1988 risulta, in assoluto, il più confuso della già caotica storia libanese: Amal, il principale partito sciita attacca i Palestinesi dell’OLP, difesi, però, da Hezbollah, a loro volta attaccato dai Siriani mentre il Kataeb, dopo la morte del vecchio Pierre Gemayel e la sua sostituzione con Elie Karame, perde il controllo dell’esercito libanese, all’interno del quale i Musulmani si uniscono ai gruppi sciiti e sunniti e il partito si sfascia, con una contrapposizione diretta tra Karame (sostituito nel 1986 da Georges Saadeh) e Amine Gemayel da un lato, con posizioni moderatamente filo-siriane, e Samir Gaegea, nuovo leader delle Forze Libanesi (praticamente l’esercito maronita), fortemente contrario alla presenza di truppe di Damasco e sostenuto (in funzione anti-sciita) dall’Iraq di Saddam Hussein. E’ una sorta di tutti contro tutti che, per certi versi, viene risolto dall’unico atto importante compiuto da Gemayel, paradossalmente un atto contrario al fondamentale “accordo nazionale” fondativo della convivenza inter-religiosa libanese che voleva un Presidente cristiano e un Primo Ministro musulmano: poco prima del termine del suo mandato, nel 1988, egli nomina Primo Ministro il generale cristiano Michel Aoun. La nomina non viene accettata, ovviamente, dai Musulmani, che formano un loro governo autonomo, dividendo, in pratica, il Libano tra una zona cristiana con un governo militare e una zona musulmana con un governo civile.
Ciò che, comunque, risulta più fondamentale è che il 14 marzo 1989 Aoun lanci quella che viene definita la “guerra di liberazione” contro i Siriani e i loro alleati delle milizie libanesi: nonostante le diffidenze dei Musulmani anti-siriani (che vedono Aoun come un leader settario maronita) e le continue accuse di illegittimità di governo da parte del Primo Ministro musulmano Selim al-Hoss, questa campagna ha almeno il merito di portare la situazione fuori dallo stallo e di indurre la Lega Araba a tentare una mediazione, il cui risultato è dato dagli accordi di Taif del 1989, che, per certi versi, segnano l’inizio della fine dei combattimenti.
E’ vero che gli accordi davano un ruolo importante alla Siria e che Aoun non accettò mai la nomina presidenziale di René Mouawad (assassinato 16 giorni dopo la sua elezione) e del suo successore Elias Hrawi, frutto proprio degli accordi, ma, almeno, ciò permise alle Forze Libanesi di prendere posizione contro il presunto Presidente Aoun e di smuovere il Parlamento, inducendolo a promuovere riforme istituzionali e accordi che, per quanto filo-siriani, pacificarono finalmente il Paese. Così, nel 1991, con una legge di amnistia generale per tutti i crimini politici del periodo bellico e lo scioglimento di tutte le milizie (a eccezione di Hezbollah), la guerra civile si può dire ufficialmente chiusa, sebbene con una sorta di “Pax siriana”.
Nel nuovo assetto non appariva esserci più spazio per forze confessionali, con un esercito nazionale, in pratica piuttosto dipendente dalla Siria, che controllava due terzi del Paese (con la sola eccezione dell’area meridionale in mano a Hezbollah, visto come gruppo di difesa contro possibili invasioni israeliane) e, dal novembre 1992, con il governo in mano all’uomo d’affari miliardario Rafiq Hariri (vuoi come Primo Ministro, vuoi, in altri momenti, come “uomo forte” del Parlamento).
Nel clima di ricostruzione degli anni seguenti, il Libano è sembrato aprirsi ad un nuovo sistema democratico in cui le varie componenti che avevano combattuto nella guerra civile parevano essersi riconvertite alla politica dialogata. In questo quadro, a partire dal 1997, hanno fatto ritorno nel Paese anche i nuovi eredi della dinastia Gemayel, Pierre e Sami, figli di quel Amine che, dopo la fine del suo mandato presidenziale, era andato in volontario esilio per non aprire un conflitto intra-cristiano con Gaegea. Con un paradosso tipicamente libanese, la terza generazione di Gemayel, comunque, si è messa a capo di un movimento, denominato “Base Kataeb”, in aperta contrapposizione con la leadership del partito che era stato di loro nonno e loro padre, ora guidato da Karim Pakradouni, il cui asservimento al governo siriano aveva reso la forza politica falangista ormai insignificante.
I fatti sembrano aver dato ragione a questa nuova linea, portata avanti in particolare da Pierre. La svolta è data dall’omicidio di Hariri, il 14 febbraio 2005: Hariri, al tempo Primo Ministro, si era appena ritirato dall’incarico in polemica con un emendamento costituzionale che avrebbe prorogato di tre anni la presidenza del filo-siriano Emile Lahoud, cosicché la matrice dell’omicidio apparve immediatamente chiara a tutti, innescando un impressionante movimento di rivolta popolare contro la presenza di circa 14.000 militari di Damasco nel Paese. Tale movimento, passato alla storia come “Rivoluzione dei Cedri”, portò, sotto la pressione internazionale, Bashar Assad a dichiarare la fine della presenza siriana in Libano e a ritirare le sue forze nel giro di un paio di mesi.
Nelle prime elezioni libere dal giogo straniero dal 1976, il Libano ha scelto come Primo Ministro l’economista Fouad Siniora, che ha chiamato Pierre Gemayel all’interno dell’esecutivo come Ministro dell’Industria, dando di nuovo lustro alla dinastia e sancendo la vittoria della linea Gemayel all’interno del Kataeb.
Questo non ha significato la pacificazione del Paese: il sud è rimasto nelle mani di Hezbollah e l’opposizione musulmana di matrice sciita non solo ha portato, con i suoi continui lanci di razzi katyusha sul nord della Galilea, alla nuova invasione del Libano meridionale da parte di Israele (12 luglio-8 settembre 2006) ma anche al nuovo omicidio politico che ha avuto come vittima proprio il neo-eletto Ministro Gemayel.
Fortunatamente, proprio l’invasione israeliana nella operazione “Giusta retribuzione” e il conseguente momentaneo blocco (almeno parziale) degli attacchi Hezbollah ha salvato la situazione, che sembrava ormai perduta nel momento in cui, inopinatamente, Siniora aveva definito le milizie sciite “difensori del Libano”, permettendo un governo tecnico del Libano fino al 2009, anno in cui elezioni democratiche hanno portato alla premiership di Saad Hariri, figlio di Rafiq Hariri. Le stesse elezioni hanno riportato in parlamento il Kataeb, con cinque deputati: Sami Gemayel, Nadim Gemayel (figlio di Bachir), Elie Marouni, Fady el-Haber and Samer Saade. Tenendo conto che il drappello parlamentare è guidato da Sami, già direttore del centro studi del “Nuovo Kateb”, noto per le sue posizioni ultra-oltranziste (molto più di quelle del suo defunto fratello), il timore maggiore è che la perpetuazione del potere degli Gemayel, pur nelle posizioni marginali in cui il Kataeb si è ritrovato (e dalle quali si sta risollevando), possa essere improntata ad una nuova ondata di radicalismo cristiano e l’ultima cosa di cui una Nazione martoriata come il Libano abbia bisogno in questo momento è di rivedere immagini della Madonna di Junieh sui calci dei fucili…
Bibliografia:
– F. El-Khazen, The Breakdown of the State in Lebanon, I.B. Tauris 1997;
– R. Fisk, Pity the Nation: The Abduction of Lebanon, Nation Books 2002;
– M. Gordon, The Gemayels, Chelsea House Publishers 1988;
– D. Hirst, Beware of Small States: Lebanon, Battleground of the Middle East, First Trade Paper Edition 2011;
– S. Mackey, Mirror of the Arab World: Lebanon in Conflict, W. W. Norton & Company 2009;
– P. Rabinovich, The War for Lebanon, 1970-1985, Cornell 1985;
– V. Raulin, N. Duplan, Le Cedre et la Croix, Presses de la Reinassance 2005;
– B. Ruby, Lebanon: Liberation, Conflict, and Crisis, Palgrave Macmillan 2010;
– A. Weizfeld, Sabra and Shatila, AuthorHouse 2009
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