“Avevo voluto personalmente la pubblicazione in Italia dei due studi di Spengler L’uomo e la macchina e Anni decisivi. Il mio amico Beonio-Brocchieri, ufficialmente, e il barone Evola, ufficiosamente, realizzarono questo mio desiderio. L’operazione non fece molto chiasso. Non si può pretendere che l’Italia di Farinacci possa apprezzare la cultura di Spengler. L’allora maggiore Canevari affiancò Beonio-Brocchieri e Julius Evola nella meritoria fatica che costoro andavano sostenendo”.
Queste sorprendenti parole sono di Mussolini nel corso di uno dei suoi colloqui informali con Yvon De Begnac fra il 1934 e il 1943 e riportati da quest’ultimo sulle sue agende e su migliaia di fogli, una parte dei quali pubblicati col titolo Taccuini mussoliniani, a cura di Francesco Perfetti e con l’introduzione di Renzo De Felice[1]. Quindi due autorevoli esperti del fascismo e di cose mussoliniane: sicché, pur essendo queste affermazioni sorprendenti (riguardo Evola e Canevari, perché dell’impulso a tradurre Spengler si sapeva già)[2], non si capisce il motivo per cui si debba affermare che si tratti di “una fonte da utilizzare con prudenza”[3], a meno che non ci si voglia riferire al valore da dare alle affermazioni di Mussolini stesso, alla sua sincerità, o alla capacità di De Begnac di riportare fedelmente le confidenze del capo del fascismo. Del resto scrive Perfetti nella sua introduzione che “De Begnac annotava con scrupolo quasi fotografico quanto gli veniva dicendo Mussolini, e conservava anche le inesattezze e le improprietà linguistiche e sintattiche, proprio perché tali appunti non erano destinati in un primo momento alla pubblicazione, ma dovevano costituire una sorta di materiale grezzo, quasi a livello di promemoria, da utilizzare, rifondere, rielaborare per la stesura della biografia o per fissare, a proprio uso e consumo, qualche particolare osservazione o qualche particolare giudizio di Mussolini”[4]. Si può pensare che Mussolini dicesse cose non vere che poi sarebbero andate a finire in una biografia quasi ufficiale?, o che De Begnac rielaborasse con sue invenzioni le affermazioni del Duce? L’unica risposta in via teorica è che Mussolini ricordasse male o presentasse arricchite di fantasia cose in fondo veritiere. Sicché, fino a prova contraria, tutte queste affermazioni si devono prendere per giuste, cioè sino a prova concreta del contrario, o prova su basi strettamente logiche corroborate da dati e date, notizie ed episodi inconfutabilmente certi e notori, e non come prova assente: infatti, una ricerca effettuata nell’Archivio dello Stato a Roma, presso i documenti della Segreteria Particolare del Duce, ha portato al ritrovamento di un fascicolo intitolato a Vittorio Beonio- Brocchieri (non ne esistono invece intitolati a Spengler e a Evola) dove però, tra le varie carte (alcune si riferiscono al rifiuto di concedergli il richiesto trasferimento dall’Università di Pavia a quella di Roma), non ci sono accenni a questioni spengleriane, ma anche non contengono informazioni che smentiscono quanto sopra riportato. Purtoppo la frase mussoliniana citata – come del resto tutte le altre – non ha una sua precisa indicazione di data e quindi non possiamo sapere quando venne pronunciata: il materiale di De Begnac, infatti, non ha indicazioni di quando le confidenze vennero raccolte. In ogni caso è di grande importanza perché ci fa conoscere almeno due o tre fatti di cui Julius Evola non ha mai parlato nei suoi rari interventi autobiografici: l’aver intrattenuto Mussolini rapporti di una certa frequenza con lui, ed averne avuto questi un tale giudizio positivo da conferirgli l’incarico “ufficioso” di far conoscere Spengler alla cultura italiana.
Del resto, poco prima il Duce aveva affermato: “Di Spengler parlai diffusamente con il barone Evola, che ne è il profeta in Italia”[5]. Terzo fatto è che il pensatore tradizionalista avrebbe avuto un contatto (personale? epistolare? non si capisce) con lo studioso tedesco: riferendosi ai suoi dissensi per certi aspetti del pensiero spengleriano, Mussolini aggiunge che “Spengler mi risulta abbia poi discusso di tutto ciò con il barone Evola”[6]. Cerchiamo di analizzare questi tre punti. Assai rapidamente il primo: a differenza di quanto Evola scrive nella sua autobiografia Il cammino del cinabro[7], i suoi contatti con Mussolini non dovettero limitarsi a sole tre occasioni (l’incontro a Palazzo Venezia del 1941 per Sintesi di dottrina della razza; l’incontro del 1942 per discutere della rivista Sangue e spirito; l’incontro del 1943 al Quartier Generale di Hitler dopo la liberazione da Campo Imperatore)[8], ma assai più intensi, risalenti addirittura agli anni Venti, pur se verosimilmente con alti e bassi: su questo aspetto, che ovviamente non è solo biografico, occorrerà indagare di più. Anche i contatti diretti con Oswald Spengler sono del tutto ignoti: non ne parla neanche lo studio più approfondito oggi esistente sull’argomento[9], nonostante le ampie ricerche del suo autore negli archivi di Germania e Austria. Contatti peraltro non impossibili: si può solo ipotizzare che, a parte quelli epistolari, Evola potrebbe aver incontrato Spengler durante il suo viaggio in Germania nel 1934, l’anno della prima traduziuone italiana di Anni decisivi e della pubblicazione dell’evoliana Rivolta contro il mondo moderno, quando tenne conferenze a Berlino e a Brema (Spengler come si sa viveva a Monaco, ed Evola in teoria avrebbe potuto raggiungerlo) e si stava occupando della traduzione di questa sua opera in tedesco, che uscì poi l’anno successivo dopo essere stata rivista dal poeta Gottfried Benn [10]. Infine, la questione dell’incarico “ufficioso” e del fatto che Mussolini definisca Evola “il profeta di Spengler in Italia”, lui e non altri. Nomea che toccò ad Evola appunto dopo l’uscita di Rivolta e che quindi ci può far ritenere che questa frase del Duce sia stata pronunciata dopo quella data. Sta di fatto, però, che Evola respinse sempre la qualifica un po’ giornalistica di “Spengler italiano” e nota come le riserve che egli aveva nei confronti delle teorie del pensatore tedesco fu necessario sottolinearle nella sua introduzione a Il tramonto dell’Occidente perché, scrive nell’autobiografia, “talvolta sono state considerate ‘spengleriane’ le idee sul mondo moderno da me esposte. Invece i miei punti di riferimento sono del tutto diversi; l’influenza su me dello Spengler può dirsi nulla; ho già indicato che, se mai, è la linea del pensiero ‘tradizionale’ rappresentata nei tempi moderni essenzialmente dalla corrente guénoniana, ad avere, a tale riguardo, una importanza”[11].
Del resto, nella prima edizione di Rivolta, Evola cita Spengler solo due volta all’inizio e alla fine del libro: mentre la seconda è una semplice nota bibliografica nel terz’ultimo capitolo, più singolare la prima. Essa si trova infatti in una “prefazione” in terza persona e non firmata, quasi fosse una nota dell’editore stesso, in cui per così dire si mettono le mani avanti nei confronti di possibili accuse di “antifascismo”: infatti si cita Spengler per prenderne implicitamente le distanze: “La dottrina della regressione non si presenta qui – come nel caso dello Spengler e altri – come una nuova ipotesi filosofica, ma come una verità che il mondo tradizionale ebbe sempre in proprio e che sempre impersonalmente riconobbe”[12]. Assai più attenzione portò invece per le teorie dello studioso olandese Hermann Wirth, che peraltro andarono via via molto attenuandosi in seguito[13]. Ma “ufficioso” in che senso? Mantenendo i contatti con Spengler? Aiutando Beonio-Brocchieri nella traduzione? Promuovendo i libri di Spengler tradotti? Una risposta difficile da dare in mancanza di ulteriori dati. Ma sarebbe importante riuscire a darla, sia riguardo ai rapporti Spengler-Evola, sia soprattutto a quelli Evola-Mussolini. Sta di fatto, però, che Evola è stato uno dei pochi in Italia ad occuparsi fra le due guerre di Spengler e delle sue tesi (gli altri, oltre a Vittorio Beonio-Brocchieri, furono Benedetto Croce negativamente, Giuseppe Rensi, Adriano Tilgher e Lorenzo Giusso) ed a scriverne, ancorché criticamente (ma non certo in maniera stroncatoria come Croce), pure in seguito quando dopo il 1945 di certi argomenti “tedeschi”, ergo “nazisti”, non era facile trattarne: si consideri ad esempio che la rottura fra Evola e la casa editrice Laterza nel dopoguerra fu dovuta soprattutto al fatto che questi insisteva a proporre il libro di Robert Reininger da lui tradotto, Nietzsche e il senso della vita, proposta rifiutata dietro consiglio dei Croce proprio per il collegamento che allora, nell’immediato dopoguerra, si faceva tra il filosofo e il nazismo[14].
Da questi interventi degli anni Cinquanta risulta come da un lato gli aspetti positivi e dall’altro le obiezioni di sostanza mosse da Evola al filosofo tedesco risalgono addirittura al profilo redatto in occasione della sua morte nel 1936, e praticamente uguali passarono poi alla introduzione del Tramonto (1957), alle pagine autobiografiche del Cammino del cinabro (1963) e alla introduzione di Anni decisivi (1973). Nonostante questa presenza costante e questa coerenza critica, è singolare constatare come il nome e l’opera di Julius Evola siano stati rimossi dalla cultura specialistica italiana: una dimostrazione è proprio il profilo di Domenico Conte citato, che ricorda Evola solo nella bibliografia [15] e non ne fa cenno, nemmeno critico, nel testo (a parte un accenno ad un argomento collaterale: “La traduzione frettolosa e sciatta” di Al muro del tempo di Jünger) [16] [16], mentre non viene ricordata l’esistenza delle due traduzioni spengleriane apparne per le Edizioni del Borghese: Ascesa e caduta della civiltà delle macchine e Anni decisivi. Eppure, come risulta appunto dalla vasta bibliografia riportata nel volumetto, sono pochissimi gli italiani che si occuparono di Spengler fra il 1923 e il 1957, quattro o cinque, e tra essi manca proprio Evola. Eppure, non fosse altro, perché a lui si deve finalmente la presentazione italiana (traduzione e introduzione) del Tramonto che, vi si nota giustamente, arrivò a trent’anni da quella inglese e a trentacinque da quelle francese e spagnola[17]. Sicché, interesserà forse sapere che l’”incarico” di cui si parla nel Cammino del cinabro [18] venne affidato ad Evola dall’editore Longanesi nel 1953, come risulta da un accenno in un suo articolo sul settimanale Meridiano d’Italia di quello stesso anno[19]. In modo del tutto singolare si occupa invece di Evola, ma solo dell’Evola introduttore e traduttore del Tramonto, ignorando del tutto i suoi interventi precedenti, Margherita Cottone nel saggio (non privo di refusi) La recezione di Spengler in Italia, premesso alla nuova edizione 1978 del Tramonto: modo singolare perché l’autrice parla di Evola per interposta persona, cioè non citandolo direttamente ma attraverso le definizioni e i giudizi di Furio Jesi, curatore di quella nuova edizione del libro, e riportando tra virgolette non le parole di Evola, ma quelle di Jesi riferite ad Evola, in modo che è anche possibile cadere nell’equivoco: ad esempio, la frase “appropriata didattica del compito inutile”[20] è la vulgata jesiana dell’“azione disinteressata” o “azione pura” evoliana (ripresa dai concetti espressi nella Baghavad-gita). Frase ripresa in seguito da altri esegeti evoliani come Franco Ferraresi[21], fraintendendola totalmente. Evola, dunque, per sua stessa ammissione non si può considerare come “lo Spengler italiano”, anche se entrambe le opere considerate, il Tramonto e la Rivolta, vengano esattamente inserite insieme a moltissime altre in quella che comunemente si definisce la “letteratura della crisi” fiorita tra le due guerre mondiali[22], in quanto entrambi analizzano la crisi dell’Occidente, anche se con sguardi e prospettive diverse. Diversità che possiamo evidenziare proprio attraverso le parole di Evola: come Evola presentava le idee di Spengler al lettore italiano secondo il suo punto di vista, in base alla sua “visione del mondo” esposta proprio in quella che è la sua opera principale.
Si vedrà allora che le somiglianze sono soltanto esteriori e superficiali limitandosi, in pratica, da un lato al tipo di affresco per così dire “globale” che le due opere propongono, e dall’altro al senso della decadenza che da tale descrizione promana. Julius Evola, per prima cosa, vedeva nelle idee di Spengler come il riflesso offuscato di un punto di vista superiore e super-individuale, che lo scrittore tedesco aveva esposto quasi malgré lui: punto di vista che gli permette di distruggere “il mito progressistico e evoluzionista”, come scrive su La Vita italiana [23], per cui non è affatto vero che la civiltà “si svolge in un ritmo continuo verso il meglio”, e non è affatto vero che questo “meglio“ sia rappresentato dalla nostra civiltà occidentale che non è affatto la civiltà per eccellenza, ma una delle tante civiltà: anzi, per Evola, i caratteri della civiltà occidentale sono quelli di “una civiltà crepuscolare, di una civiltà che va verso la sua definitiva decomposizione”[24], ovviamente dal punto di vista spirituale e metafisico secondo cui Evola si poneva. Tesi riprese trent’anni dopo, nella introduzione al Tramonto: “In via generale,” scrive, “può dirsi che il merito più evidente dello Spengler sia stato il suo attacco contro la concezione lineare e progressistica (ed anche dialettica post-hegeliana) della storia, contro l’idea che esista una storia unica, una storia al singolare che riprende tutta l’umanità e che nel complesso si svolge da un meno a un più di civiltà, ossia in una indefinita evoluzione”[25]. Per il pensatore italiano, l’aspetto positivo del Tramonto dell’Occidente, è allora questo: aver ricordato che la storia non è un progredire senza fine, ma è ciclica, proprio come sostenevano le grandi tradizioni sia orientali che occidentali, con la dottrina della Quattro Età variamente denominate. Il lato negativo è invece che questa posizione Spengler la limita al livello biologico-materiale e non la pone a livello metafisico: “Lo Spengler”, dice Evola, “non ebbe nessuna vera comprensione per gli elementi spirituali e trascendenti che sono alla base di ogni grande civiltà: egli resta in fondo in una concezione laica, che risente fortemente di vedute puramente moderne, quali sono quelle della ‘filosofia della vita’, dell’attivismo ‘faustiano’, del selezionismo aristocratico alla nietzschiana (…) Per venire al punto essenziale, lo Spengler non ha capito che, al di là del pluralismo delle civiltà e delle loro fasi di sviluppo, regna un dualismo di forme di civiltà”[26].
Quel che Evola intende dire è che Spengler non aveva capito a fondo che esiste un dualismo ed una contrapposizione metafisica, quasi ontologica, fra le due “forme di civiltà” che si sono contrapposte lungo tutta la storia umana: il Mondo della Tradizione e il Mondo Moderno, e che quanto le divide e contrappone è il diverso tipo di Weltanschauung: uno spiritualista, l’altro materialista, come viene spiegato in Rivolta contro il mondo moderno: “Mondo moderno e mondo tradizionale”, afferma Evola nella introduzione alla sua opera sin dalla prima edizione 1934, “possono venir considerati come due tipi universali, come due categorie apriorichee della civiltà”[27]. Si capisce allora perchè vent’anni dopo, introducendo al Tramonto, aggiungerà: “Ci troviamo dunque di fronte a una concezione pluralistica e quindi anche relativistica, ove è evidente che il positivo si mescola al negativo. Se è giusta l’esigenza di rompere il cerchio magico per via del quale si è portati a interpretare ogni civiltà in base alla propria disconoscendone l’originalità, è chiaro che insistendo oltre misura sulla discontinuità e soprattutto affermando, come fa lo Spengler, che ogni verità e ogni comprensione è storicamente condizionata e subisce la legge irrevocabile della civiltà cui si appartiene, si va a finire in una impossibilità metodologica. Di rigore, allora, si sarebbe condannati a capire davvero solo la propria civiltà. Già in partenza proprio l’assunto di Spengler, di cogliere l’anima e l’idea direttrice di un gruppo di civiltà diverse dalla nostra, risulterebbe assurdo”[28]. Civiltà diverse, invece, secondo Evola si possono capire ed eventualmente accomunare, partendo da un punto di vista superiore: appunto “le categorie aprioriche di civiltà” di cui si diceva. Il che Spengler, secondo lo studioso italiano, non sottolineava a sufficienza nella sua contrapposizione fra “civiltà aurorali” o “astoriche” o “atemporali” e “civiltà crepuscolari”, fra Kultur e Zivilisation insomma, dato che il suo ideale di uomo rimane quello di uno “splendido animale di rapina e duro dominatore”, mentre “gli accenni ad un ciclo spirituale sono in lui sporadici e imperfetti, e anche inficiati da pregiudizi protestantici”[29]. Infatti, aggiunge Evola trent’anni dopo, “a base di tutta la sua trattazione sta una filosofia irrazionalistica della vita, che è evidente prodotto, o sottoprodotto, dell’ultima civiltà europea e che è l’ultima fra quelle che possono farci capire lo spirito di altre civiltà o di altre fasi di altre civiltà, per esempio a partire dal nostro stesso Medioevo”[30].
Quel che appunto Spengler avrebbe dovuto fare era approfondire la questione: “Una tale distinzione”, egli dice, “avrebbe dovuto essere maggiormente enucleata nella forma di due ‘categorie’ nel senso kantiano del termine, e di due tipi generali di possibile organizzazione della vita umana”[31]. Insomma, quelle che egli stesso, come si è visto, proponeva, e che con una suggestiva immagine chiamava anche – contrapponendole – “civiltà del tempo” e “civiltà dello spazio” sin da un articolo del 1935: la prima immutabile nei secoli, la seconda dispiegantesi sul pianeta e mutevole[32]. Evola infatti accusa il filosofo tedesco, proprio nella sua contrapposizione fra Kultur e Zivilisation, di non aver capito bene i caratteri essenziali della prima che personalmente identifica con la “civiltà tradizionale”, di non aver compreso “lo spirito di superiori forme tradizionali di civiltà, perché si ha piuttosto il senso che egli abbia saputo solo valorizzare espressioni di una esistenza alquanto primitiva (…) comunque prive di relazione con qualcosa di trascendente e di spirituale in senso superiore”[33]. La filosofia vitalistica e irrazionalista dello Spengler offre anche una interpretazione dei miti e dei simboli che Evola non condivide: scrive sempre nella sua presentaione del Tramonto che “i simboli e i miti per lo Spengler hanno più o meno lo stesso significato ‘vitale’ confuso e degradato ad esso attribuito dagli irrazionalisti e dai psicoanalisti: sono manifestazioni dell’inconscio substrato della vita, di qualcosa che sta non al di là ma al di qua del mondo di ogni persona normale e desta”[34]. Positivo invece il giudizio evoliano sulla pars destruens del Tramonto, vale a dire la descrizione della “civiltà crepuscolare” che è – scrive su La Vita italiana – “una civiltà delle masse, civiltà antiqualitativa, inorganica, urbanistica, livellatrice, intimamente anarchica, demagogica, antitradizionale”[35]. “Qui”, preciserà nella introduzione al Tramonto, “all’organico subentra l’inorganico, all’esperienza vissuta la causalità meccanica, al mondo come storia il mondo come natura, alla forma l’informe. La civilizzazione vede l’avvento della macchina, l’onnipotenza del denaro e della finanza, il regime delle masse e dell’anti-casta. Il suo simbolo è la metropoli, la città cosmopolita tentacolare, che assorbe e divora la campagna e le energie di essa. Socialmente e politicamente la civilizzazione si conclude nel napoleonismo e nel cesarismo: è la potenza informe nelle mani di singoli individui che controllano dispoticamente le forze e gli uomini di questo mondo interiormente dissolto e crepuscolare”[36]. L’ultima critica evoliana alle concezioni di Spengler riguarda proprio questo punto, il “cesarismo”, cosa che permette il collegamento fra Il tramonto dell’Occidente e il successivo Anni decisivi per cui il pensatore tradizionalista scrisse l’introduzione per l’edizione uscita nel 1973, un anno prima della morte. L’ipotesi spengleriana secondo cui nella fase della “civilizzazione” gli “individui cesarei”, cioè i rappresentanti della politica pura, prevarranno sulle potenze della finanza e del capitalismo e “spezzeranno la tirannia dell’oro e instaureranno l’epoca della politica assoluta”[37], Evola la critica sotto vari aspetti, ma con toni diversi a secondo del momento politico-storico in cui scrisse. Viceversa, come si sa, questa tesi piacque tanto a Mussolini da spingerlo a far tradurre in italiano questo saggio.
Nel 1936, Evola condivideva l’analisi delle due rivoluzioni di fronte alle quali Spengler poneva l’Occidente: la rivoluzione sociale interna, e la rivoluzione esterna delle “razze di colore, le quali,” scriveva, “europeizzandosi, elaborando per se stesse la ‘civilizzazione’ e gli strumenti di potenza delle razze bianche, si agitano minacciose e ansiose di scuotere il giogo, di emanciparsi e di strappare definitivamente all’Occidente la sua antica egemonia”[38]. Ma non era d’accordo con la soluzione, o meglio con l’immagine che dava Spengler di questa soluzione, vale a dire la figura del moderno Cesare e il suo rapporto con le masse che dovrebbe irregimentare. Scrive Evola: “Anche gli enormi imperi, i quali conosceranno solo il binomio masse-cesari, non rappresentano che un potenziamento del cancro stesso del metropolitismo devastatore, della demonia delle masse, insomma rientrerebbero in pieno nella sintomatologia delle civiltà di decadenza” (…) Né le qualità degli uomini dal pugno di ferro, degli animali da rapina dominatori, sono quelle dei Capi veri (…) Il compito vero non sarebbe di vincolare e galvanizzare le masse, ma di distruggerle come masse, creando in esse di nuovo delle articolazioni, classi, caste, modi differenziati di sentire, di agire, di volere, infine, un clima veramente spirituale, un comune orgoglio nell’obbedire e nell’ordinarsi gerarchicamente di fronte ai portatori di una vera autorità dall’alto. Solo in tal caso i bagliori del crepuscolo potrebbero dar luogo alle luci di una prima aurora, e il punto morto della fine di un ciclo potrebbe esser sorpassato”[39].
Dunque Evola, al contrario di quel che comunemente si pensa, non condivideva affatto quella che in seguito è stata identificata come caratteristica delle dittature del Novecento, cioè la cosiddetta “nazionalizzazione delle masse”, secondo la famosa definizione di George L.Mosse (1974)[40]: la sua posizione la espose nella Rivolta riprendendola in opere successive, e svilupperà nelle sue molteplici collaborazioni a giornali e riviste fra le due guerre, criticando sempre le tendenze populiste, socialiste, nazionaliste e “rivoluzionarie” sia di fascismo che di nazismo, sia di Mussolini che di Hitler, e che sistematizzerà nel 1964 nel saggio Il Fascismo [41]. Nel 1957 sottolineerà invece le contraddizioni interne della prospettiva cesaristica spengleriana: come possono, si chiede, “risorgere miracolisticamente valori etici, di razza e di tradizione, valori che non si sa come possono esser sopravvissuti alle distruzioni che caratterizzano tutta la fase della civilizzazione, perché rimandano alla fase esaurita della ‘civiltà’. Non si vede come ci si possa attendere che in questi ‘grandi individui’ sorga un senso di responsabilità, di onore, di sollecitudine per tutto ciù che essi, col loro potere assoluto, avranno sottratto al dominio dell’oro e riportato sotto la sovranità del puro principio politico”[42]. Il risultato, privo della luce spirituale e di superiori riferimenti metafisici, sarebbe uno “schietto machiavellismo”, un puro “totalitarismo”, da Evola sempre condannati[43]. Nel riassumere queste sue posizioni nella autobiografia intellettuale Il cammino del cinabro, il filosofo tradizionalista usa quasi gli stessi termini in precedenza esposti, sottolineando di più il fatto che a Spengler “è mancato del tutto il senso della dimensione metafisica o della trascendenza che in ogni vera Kultur costituisce l’essenziale”, sicché “è stato abbastanza felice nel descrivere la fisionomia di tutto ciò che è Zivilisation (…) di ciò che è una Kultur, ossia, noi diremmo, di ciò che è una civiltà tradizionale, non ha avuto che una idea incompleta e inadeguata”[44]. Circa il “cesarismo”, nelle pagine del Cammino Evola lo intende come “fenomeno precipuo delle fasi più spinte di una Zivilisation”[45], cioè un fenomeno di epoche di decadenza. Quanto infine alla posizione assunta verso le idee esposte in Anni decisivi nella introduzione del 1973, anch’essa non si discosta dalle precedenti, in più sottolineando, a quarant’anni esatti dalla prima apparizione del libro, come la situazione internazionale renda inattuabili gli auspici spengleriani di un nuovo “cesarismo”. Di un certo interesse, soprattutto per coloro che ancora si attardano sull’immagine stereotipa di un Evola “nazista”, quel che egli dice a proposito del movimento hitleriano rispetto a Spengler: “Vi è anche da notare”, scrive nelle righe conclusive della sua introduzione, “che lo Spengler non diede un valore positivo al nazionalsocialismo, allorché esso prese il potere ed assunse una forma precisa. Da parte sua, il nazionalsocialismo non lo valorizzò affatto, gli aspetti ‘reazionari’, conservatori e ‘prussiani” del pensiero dello Spengler poco accordandosi col clima in fondo proletario-dittatoriale del movimento hitleriano. In effetti, uno Spengler ammiratore fanatico di Hitler sarebbe stato inconcepibile. E il nazionalsocialismo negli ‘anni decisivi’ lo ignorò, prese da sé le sue decisioni, e delle decisioni sbagliate”[46]. Peraltro, sedici anni prima nella introduzione al Tramonto, Evola aveva già notato: “Dinanzi al ‘cesarismo’ hitleriano più spinto e, in sé, più plebeo di quello mussoliniano, lo Spengler vide quasi la sua teoria messa al banco di prova, e l’uomo Spengler, se non il filosofo che aveva già esaltato un Cecil Rhodes, non si sentì l’animo di seguirlo”[47]. A margine, si può così concludere notando come con queste frasi riguardanti il “cesarismo hitleriano” (“in fondo proletario-dittatoriale” e “più plebeo di quello mussoliniano”) Evola anticipa di moltissimi anni l’interpretazione “di sinistra” che oggi si dà del nazismo e quasi la sua equiparazione di fondo con il comunismo così come realizzato nell’URSS da Stalin in quello stesso periodo. Evola, dunque, presentò le opere e le tesi di Oswald Spengler filtrandole attraverso la propria sensibilità e la propria “visione del mondo” tradizionalista e spiritualista, che sono quindi i parametri in base ai quali ne parla in modo positivo o negativo. E, almeno sino agli inizi degli anni Settanta, cioè sino a che non giunse una nuova generazione di studiosi italiani e Spengler venne “sdoganato”, fu uno dei pochissimi, qualunque cosa se ne possa pensare, che in Italia ne diede un approccio critico sufficientemente completo e approfondito. La logica conclusione è che in questo settore – così come in altri nei quali ha lasciato una sua significativa, ancorché contestata, impronta culturale – non si può far finta che non sia mai esistito.
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Note
[1] Yvon De Begnac, Taccuini mussoliniani, Il Mulino, Bologna, 1990, p.594.
[2] Si veda l’esplicito riferimento di Vittoro Beonio-Brocchieri nella introduzione ad Anni decisivi, Corbaccio, Milano, 1934, p.IX: “Obbedendo all’invito di un’altissima Autorità…”. Anche Julius Evola lo conferma nella sua prefazione al Tramonto dell’Occidente.
[3] Domenico Conte, Introduzione a Spengler, Laterza, Roma-Bari, 1997, p.107.
[4] Yvon De Begnac, Taccuini cit., p.XX.
[5] Yvon De Begnac, Taccuini cit., p.593.
[6] Yvon De Begnac, Taccuini cit., p.594.
[7] Scheiwiller, Milano, 1963; II ed. ampliata: Scheiwiller, Milano, 1972.
[8] Cfr. Gianfranco de Turris, Un tradizionalista nella RSI. Julius Evola 1943-1945, in Nuova Storia Contemporanea, marzo-aprile 2001, pp.79-100.
[9] H.T.Hansen, Julius Evola e la Rivoluzione Conservatrice tedesca, in Studi Evoliani 1998, Fondazione J.Evola, Roma, 199, pp.144-180.
[10] Cfr. Gianfranco de Turris, I valori di un’élite, in Percorsi, maggio 1998, pp.37-40.
[11] Julius Evola, Il cammino del cinabro cit., p.183.
[12] Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Bocca, Milano, 1934, p.VIII. Questa “prefazione” è riprodotta anche nella IV edizione dell’opera: Edizioni Mediterranee, Roma, 1998, p.36.
[13] Cfr. Roberto Melchionda, Le tre edizioni di “Rivolta”, in J.Evola, Rivolta contro il mondo moderno cit., pp.449-464.
[14] Cfr. La Biblioteca esoterica, a cura di Alessandro Barbera, Fondazione J.Evola, Roma, 1997, pp.142-156. L’opera di Reininger apparve poi nel 1971 presso Volpe, dopo che il sottoscritto aveva rintracciato il dattiloscritto della traduzione tra le carte del filosofo.
[15] Domenico Conte, Introduzione a Spengler cit, p.146 (sezione “Altri studi”).
[16] Domenico Conte, Introduzione a Spengler cit., p.106, n.37.
[17] Domenico Conte, Introduzione a Spengler cit., p.116, n.76.
[18] Julius Evola, Il cammino del cinabro cit., p.180.
[19] Julius Evola, Il caso “Spengler”, in Meridiano d’Italia, n.41, 5 ottobre 1953; ora in Julius Evola, Oswald Spengler, Fondazione J.Evola, Roma, 2002, p. : “Solo ora viene annunciata la traduzione integrale del libro principale a cui questo autore deve la sua fama mondiale, il Tramonto dell’Occidente”. Probabilmente non vi fu un annuncio pubblico, ma spesso Evola usava notizie private (in questo caso: il conferimento dell’incarico da parte della casa editrice? la traduzione completata e inviata alla Longanesi?) come spunto per articoli.
[20] Margherita Cottone, La recezione di Spengler in Italia, in O.Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano, 1970, p.XLVII.
[21] Cfr. i due saggi La destra radicale (Feltrinelli, Milano, 1984) e Minacce alla democrazia (Feltrinelli, Milano, 1995). Per una confutazione di queste tesi, cfr. il mio Elogio e difesa di Julius Evola (Edizioni Mediterranee, Roma, 1997).
[22] Cfr. Michela Nacci, Tecnica e cultura della crisi, Loescher, Torino, 1982.
[23] Julius Evola, Spengler, in La Vita italiana, giugno 1936, pp.602-608; ora in Julius Evola, Oswald Spengler, Fondazione J.Evola, Roma, 2002, p.5 (tutte le citazioni successive si riferiscono a questa edizione).
[24] Julius Evola, Spengler cit., p.6.
[25] Julius Evola, Prefazione a O.Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano, 1957, pp.9-24; ora in Julius Evola, Oswald Spengler, Fondazione J.Evola, Roma, 2002, p.11 (tutte le citazioni successive si riferiscono a questa edizione).
[26] Julius Evola, Spengler cit., p.7.
[27] Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Bocca, Milano, 1934, pp.6-7; Edizioni Mediterranee, Roma, 1998, p.29.
[28] Julius Evola, Prefazione cit., p.13.
[29] Julius Evola, Spengler cit., p.7.
[30] Julius Evola, Prefazione cit., p.13.
[31] Julius Evola, Prefazione cit., p.15.
[32] Cfr. Julius Evola, Civiltà dello spazio e civiltà del tempo, in Il Regime fascista, 20 aprile 1935; poi in L’arco e la clava, Scheiwiller, Milano, 1968; ora Edizioni Mediterranee, Roma, 2000, pp.23-27.
[33] Julius Evola, Prefazione cit., p.15
[34] Julius Evola, Prefazione cit., p.16.
[35] Julius Evola, Spengler cit., p.8.
[36] Julius Evola, Prefazione cit., p.14.
[37] Julius Evola, Prefazione cit., p.16.
[38] Julius Evola, Spengler cit., p.9.
[39] Julius Evola, Spengler cit., p.10.
[40] Tr.it. La nazionalizzazione delle masse, Il Mulino, Bologna, 1975.
[41] Cfr. Julius Evola, Il fascismo. Saggio di una analisi critica dal punto di vista della Destra, Volpe, Roma, 1964; ora: Fascismo e Terzo Reich, Edizioni Mediterranee, Roma, 2001 (la nuova edizione comprende anche due appendici in cui sono stati selezionati una ventina di articoli che evidenziano come le critiche di Evola ai due sistemi siano già presenti nei suoi scritti fra le due guerre).
[42] Julius Evola, Prefazione cit., p.17.
[43] Julius Evola, Prefazione cit., p.17. Cfr. anche Julius Evola, Gli uomini e le rovine, Edizioni dell’Ascia, Roma, 1953; ora: Edizioni Mediterranee, Roma, 2002, capp.4 e 5.
[44] Julius Evola. Il cammino del cinabro cit., p.181.
[45] Julius Evola, Il cammino del cinabro cit., p.182.
[46] Julius Evola, Introduzione a O.Spengler, Anni decisivi, Edizioni del Borghese, Milano, 1973, pp.9-14; ora in Julius Evola, Oswald Spengler, Fondazione J.Evola, Roma, 2002, p.24.
[47] Julius Evola, Prefazione cit., p.17.
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