Il 16 agosto 1922 è una data importante nella storia del nazionalismo tedesco. Quel giorno vide la prima uscita in forze della SA: l’organizzazione paramilitare del Partito nazionalsocialista, ancora ai suoi primi passi, fece convergere ottocento uomini sulla Königsplatz di Monaco, dove già si trovavano riuniti ben trentamila membri del Bund Oberland di Franz von Epp, del Bund Bayern und Reich e della Reichsflagge di Ernst Roehm. Erano le maggiori leghe del radicalismo nazionale presenti in Baviera, composte per la quasi totalità da ex-combattenti e da ex-appartenenti ai Freikorps. Si trattava di protestare contro la “legge per la protezione della Repubblica”, che minacciava di procedere severamente contro l’estremismo. Non fu che un antefatto. Quando, in occasione del Putsch dell’8 novembre 1923, la Destra rivoluzionaria passò di nuovo all’azione, a trovarsi fianco a fianco furono ancora nazionalsocialisti e nazionalisti. Negli uni e negli altri, la presenza di ex-combattenti era molto alta. Lo storico Anthony Read ha scritto recentemente che, nelle concitate ore del Putsch, circa mille cadetti della scuola di fanteria di Monaco abbandonarono la loro caserma e si misero sotto il comando di Gerhard Rossbach, uno dei capi più prestigiosi dei Freikorps, con cui marciarono «con le bandiere della svastica e con l’accompagnamento di una banda per raggiungere Hitler e Ludendorff».
Occorre ricordare, inoltre, che quando, nel luglio 1921, Hitler chiese e ottenne poteri dittatoriali all’interno della NSDAP, ebbe dalla sua parte Hermann Ehrhardt, leader del Wiking-Bund e altro capo prestigioso proveniente dai Freikorps; e che il primo nucleo della SA venne messo sotto il comando di Hans Ulrich Klintzsch, a sua volta veterano della temutissima Brigata Ehrhardt. Infine, è appena il caso di ricordare che Franz Seldte, comandante dello Stahlhelm, la potente organizzazione di ex-combattenti, fu a lungo un fiancheggiatore della politica hitleriana, artefice nel 1932 della fusione tra nazionalisti e nazionalsocialisti, finendo Ministro del Lavoro nel governo di “concentrazione nazionale” del 30 gennaio 1933, e rimanendo in carica fino al 1945.
Tutto questo per dire che le posizioni politiche de combattentismo e del Nazionalsocialismo erano di fatto indistinguibili. Del resto, fu sempre un punto centrale della propaganda hitleriana l’esaltazione del Frontsoldat, che avrebbe dovuto trasferire la sua lotta sul terreno della politica interna, dando vita a quella nuova figura che era il soldato politico. Queste precisazioni – ovvie – sono necessarie nel momento in cui, sia in Italia che in Germania, si tenta da più parti di operare una scissione tra il nazionalismo e il Nazionalsocialismo. Si pensa, così facendo, di poter mettere all’asciutto segmenti di storia patria e di ritessere alla meglio alcune verginità altrimenti irrimediabilmente deflorate. Alludiamo, in particolare, ai casi della cosiddetta “resistenza” anti-nazista legata al 20 luglio 1944 (uno colpo reazionario-militarista divenuto mito fondante della democratica Bundesrepublik…) e al restauro cui è regolarmente sottoposta la figura di Ernst Jünger.
Tutta l’ideologia e la visione del mondo dello Jünger diciamo così “giovane”, membro autorevole della cerchia nazionalrivoluzionaria, erano innestate sul nazionalismo imperialista. Le fonti a cui si abbeverava erano personaggi come ad esempio il neopagano Friedrich Hielscher (futuro collaboratore della SS-Ahnenerbe) e Oswald Spengler. I valori attorno a cui ruotava l’immaginario politico jüngeriano non erano cosette leggere: si invocava una redenzione della patria tedesca, l’apparizione di un capo assoluto e l’affermarsi di una dittatura radicale, mobilitatoria, fedele al tradizionalismo gerarchico antico-tedesco e garante di una mistica guerriera. La figura centrale, come per Hitler, era il Frontsoldat, eroicizzato a “tipo” emblematico di combattente freddo e audace e alla fine, nel 1932, sublimato nell’Arbeiter. Jünger proponeva il passaggio a forme di lotta contro la democrazia senz’altro risolute, usufruendo del medesimo nichilismo moderno, senza indietreggiare persino dinanzi a misure addirittura “brutali”. In più, predicava l’esclusione dell’ebraismo dal contesto nazionale, in quanto quintessenza del borghesismo moderno, e operava una vera e propria mitizzazione del sangue comunitario. Come si può leggere, ad esempio, nell’articolo apparso sul giornale combattentistico Standarte del 29 aprile 1926: «l’intrico sotterraneo delle radici… questa trama che è realmente vincolante e rispetto alla quale il singolo non significa nulla, perché è da essa che è generato, è il sangue che ce ne dà il presagio, grazie al quale avvertiamo il sentimento lieto di una profonda appartenenza… Un popolo senza legami di sangue è una mera massa…», e così via per pagine. Jünger, insomma, non diceva proprio nulla di diverso da quanto scrivevano in quegli anni un Günther o un Darré. Eppure, ancora una volta, siamo costretti a registrare un genere di lettura di prose siffatte che ci ricorda molto da vicino la simmetrica operazione che costantemente viene svolta a proposito del razzismo di Evola. Razzisti, sì, forse, anzi no…insomma, erano soltanto dei teorici…spiritualisti…la solita cantilena.
Apriamo il recente e denso libro di Andrea Benedetti, Rivoluzione conservatrice e fascino ambiguo della tecnica. Ernst Jünger nella Germania weimariana: 1920-1932 (Edizioni Pendragon) e vediamo che, ad esempio, il razzismo di Jünger, impossibile da negare, viene disinnescato rubricandolo sotto la voce di “razzismo culturale”… Leggiamo poi che Jünger «rifiuta in maniera categorica l’aborrita Rassenkunde, nell’accezione ottocentesca volgarmente biologica…». Il che lascia intendere che l’accettasse in altre forme. Dato che, due righe sopra, Benedetti scrive circa «le ambigue formulazioni jüngheriane di natura razzista e antisemita». Insieme ai nostri lettori, vogliamo allora chiederci: ma cosa significa “razzista culturale”? Che parlava tanto per parlare? Che la sua concezione politica era paradossalmente una concezione impolitica e astratta? Che ad esempio l’apartheid che Jünger propose nel settembre 1930 per gli Ebrei – è da notare: proprio nel momento esatto in cui la NSDAP vinse le elezioni e iniziò la scalata al potere – era una battuta “spiritualista”, nulla di serio, che insomma Jünger prendeva in giro i suoi lettori? O sono invece gli esegeti di Jünger a barare? O forse l’uno e gli altri?
Noi sappiamo che un anti-nazismo di Jünger nei fatti non ci fu mai, né prima né dopo il ’33. Questo potrebbe bastare. Ma sappiamo anche che Jünger, quando Hitler era già noto per quello che era e aveva bisogno di appoggio, non glielo negò. Sulla stampa combattentistica degli anni di Weimar difese apertamente le ragioni del Nazionalsocialismo, nel ’23 inviò a Hitler una copia con dedica del suo libro Nelle tempeste d’acciaio, mise la sua firma sul Völkischer Beobachter, che era diretto da Rosenberg, razzista “spirituale” come lui, e lo stesso Benedetti ricorda che il fallimento del Putsch di Hitler del ’23 fu per Jünger una grande delusione. Hitler e Jünger erano due perfetti “camerati”, due Frontsoldaten in lotta per i medesimi obiettivi. Questi sono i fatti. I dettagli sono poi un argomento per dibattiti, tavole rotonde o eruditi volumi postumi, che non hanno a che fare con la politica attiva.
Gli storici sono tutti concordi nell’affermare che nel ’23 l’ideologia hitleriana era bella che formata da un pezzo e che non venne più cambiata di una virgola. Noi allora chiediamo: come mai Jünger considerava Hitler un capo e un alleato di lotta nel ’23 e poi invece cominciò a distaccarsene? Aveva bluffato prima o bluffò poi? Oppure il suo spirito aristocratico trovava antiestetiche quelle violenze politiche e quei radicalismi da lui stesso auspicati? Ma non scrisse sulla necessità di essere “brutali”? E non fu favorevole nel ’28 al terrorismo del Landvolkbewegung, rifiutato invece da Hitler? Si sarebbe dovuto pensare che quello scrittore pangermanista, imperialista, autoritario, antisemita, razzista e bellicista facesse per finta? Ma allora, come giudicare un ideologo dell’avanguardismo nazionale che prima eccita gli animi dei camerati, con i suoi scritti li fanatizza spingendoli al combattimento più freddo e impersonale, poi di fronte ai fatti ritira la mano e si mette a distinguere, a bizantineggiare? Voleva la lotta oppure la letteratura? Scrivere su fogli come il Völkischer Beobachter o lo Standarte non doveva essere uno scherzo… Jünger lo sapeva per certo…o era un ingenuo? Un mite sognatore? Ma non aveva predicato la durezza metallica del “realismo eroico”? Erano soltanto parole al vento?
Nel libro di Benedetti, in più punti, si rimarca la natura puramente “estetica”, “vaga”, “teorica”, dell’ideologia politica jüngeriana. Quella di Jünger negli anni Venti-Trenta era per la verità un’ideologia tutta politica, e ben sistemata su posizioni di ferma intransigenza: scriveva di politica estremista su giornali politici estremisti. Come si fa a definire “impolitica” l’ideologia di un rappresentante del radicalismo nazionalista come Jünger? Costui fece o non fece parte della Rivoluzione Conservatrice? Per quanto ne sappiamo, il maggiore storico di quel movimento, Armin Mohler, ha per l’appunto scritto a chiare lettere: «Noi designiamo pertanto come Konservative Revolution una specifica corrente del pensiero politico». E un pensiero politico che non sia una commedia si presuppone che sappia che alle parole seguono i fatti.
Ma il mistico Jünger in quel periodo non scriveva romanzi: parlava con enfasi e gran dispendio di aggettivi di grandezza del Reich, di “dominio”, di “volontà di lotta”, di “attacco al mondo borghese”, del «comando che addita il sacrificio…». Nell’ottobre ’29, sulla rivista di August Winnig Widerstand, scrisse che la NSDAP «attualmente rappresenta l’arma più forte e temibile della volontà nazionale…al nazionalsocialismo auguriamo di cuore la vittoria…». Ancora nel maggio ’33, sulla rivista razzista di Amburgo Deutsches Volkstum esaltò «il nuovo ordine», «la riforma autoritaria dello Stato» e la politica pianificata del governo nazista, che doveva essere «superiore all’iniziativa individuale o anche sociale»…insomma non un rigo che fosse meno che allineato. Quando nella cerimonia di Potsdam del 21 marzo ’33, alla presenza di Hindenburg, Hitler mise davanti a tutti – dai nazionalbolscevichi agli Junker prussiani – la realtà della “rivoluzione nazionale”, Jünger avrebbe dovuto pensare, come praticamente l’intero schieramento dei nazionalisti pensò, che quello era il logico risultato della pluridecennale predicazione pangermanista, alla quale lui stesso per primo aveva partecipato senza risparmio.
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Tratto da Linea del 10 ottobre 2008.
Waldgang
Consiglio lo studio de “sulle scogliere di marmo”. Tutti gli interrogativi verranno prontamente fugati.