Il più significativo esponente della generazione del fronte tedesco, il teorico del nazionalismo militante e della totale Mobilmachung[1], è Ernst Jünger. Nato ad Heidelberg nel 1895, volontario di guerra a diciannove anni, tredici volte ferito, comandante di truppa d’assalto sul fronte di Verdun, decorato con la rara onorificenza Pour le mérite, Jünger si affermò nel dopoguerra con le narrazioni autobiografiche In Stahlgewittern[2], Der Kampf als inneres Erlebnis[3], Das Wäldchen 125[4], Feuer und Blut[5].
Intorno al 1926-1927 egli raccoglie intorno a sé un certo gruppo di giovani intellettuali come Franz Schauwecker, Ernst von Salomon, Friedrich Hielscher, Albrecht Erich Günther, Helmut Franke, Werner Best, etc. Comune caratteristica di questo gruppo, che diffonde le sue parole d’ordine da Berlino, è quella d’assumere l’esperienza del fronte come punto di partenza della critica dei valori e della società.
Jünger non ha rapporti con alcun partito. L’iniziale simpatia per Hitler (egli lo aveva sentito parlare al circo Krone, a Monaco, e gli aveva mandato i suoi libri con la dedica) si era presto mutata in un’attitudine critica e la sua conoscenza personale di Goebbels non servirà a migliorare le cose. Sostanzialmente, il gruppo intorno a Jünger si mantiene in equilibrio tra ambienti conservatori della Reichswehr e dello Stahlhelm e quelli nazionalbolscevichi di un Ernst Niekisch.
Le riviste pubblicate da Ernst Jünger, Arminius, Der Vormarsch, Die Kommenden, Standarte, sono senza dubbio tra le più notevoli del nazionalismo tedesco del dopoguerra e in esse si possono trovare tutti i nomi più significativi del giovane movimento nazionale. Esse si pongono come l’espressione di un “nuovo nazionalismo”, che poco vuol sapere d’una certa retorica patriottica e che punta direttamente sull’elemento soldatesco come su quello necessario per costruire un nuovo tipo umano. Così si legge nell’introduzione della presentazione del primo numero di Standarte:
«Noi, i combattenti di ieri, di oggi e di domani, ci siamo trovati in un’epoca nella quale tutto ciò in cui abbiamo creduto e per cui abbiamo visto morire un’innumerevole massa di uomini, sembrava sprofondare in un mare di inutilità. Quando ci riunivamo in vari posti ed attorno a varie personalità, ciò avveniva soprattutto per l’intima convinzione della necessità di difesa. Non potevamo rinunciare a ciò per cui avevamo sacrificato tutto. Dovevamo tener viva la nostra fede che tutto ciò che avveniva aveva un senso profondo e ineluttabile. La nostra prima decisione doveva essere quella di restare fedeli alla tradizione e di dare rifugio, nei nostri cuori, alle bandiere che non potevano più esporsi senza vergogna. Così dovevano allora sentire i migliori, e quindi i più decisi di ieri dovevano anche essere i più decisi di domani, i reazionari del passato divenire i rivoluzionari del futuro. Perché nel frattempo abbiamo appreso che il nostro compito è più grande e più importante. La parola “tradizione” ha per noi assunto un nuovo significato, noi in essa non vediamo più la forma compiuta, bensì lo spirito vitale ed eterno della cui formazione ogni generazione risponde solo a sé stessa. E noi siamo, e ciò lo sentiamo ogni giorno con rinnovata coscienza, noi siamo una generazione nuova, una stirpe che attraverso le vampate e i colpi di maglio della più grande guerra della storia si è indurita e trasformata nel suo intimo. Mentre in tutti i partiti si sta completando il processo di dissoluzione, noi pensiamo, sentiamo e viviamo già in una forma del tutto diversa, e non vi è dubbio fin d’ora che aumentando la consapevolezza di noi stessi, noi sapremo esternare questa forma. Per questo noi ci sentiamo combattenti eletti per un nuovo stato».
Questa nuova forma, questo nuovo stato di cui Jünger si fa portavoce, è il regime della “mobilitazione totale”, trasferita dal dominio militare a quello civile. Il fattore rivoluzionario del XX secolo è costituito per Jünger dalla guerra totale, sorella della mobilitazione tecnico-industriale del pianeta. Il problema che egli si pone è quello di adeguare gli stati e i singoli ai compiti politici e spirituali cui la mobilitazione totale mette di fronte. Die totale Mobilmachung si chiama appunto il saggio in cui egli delinea questa sua concezione[6], il cui ordine di idee viene ripreso con maggiore ampiezza in Der Arbeiter. La mobilitazione totale è il fenomeno che ha messo in crisi i fondamenti del liberalismo d’anteguerra destando un nuovo spirito di fronte al quale l’individualismo borghese, la tolleranza politica, appaiono come valori inadeguati all’era dei conflitti totali.
In quest’era «non esiste più una vera differenza fra combattenti e non-combattenti; in essa ogni città, ogni fabbrica è una fortificazione, ogni bastimento è una nave da guerra, ogni genere alimentare è merce di contrabbando, ogni misura attiva e passiva ha carattere militare»[7]. Dalla mobilitazione totale è sorto il nuovo clima totalitario in cui la vita torna ad essere concepita come servizio, sacrificio, responsabilità e non come una partita d’affari o un campo di “rivendicazioni”. Essa restituisce al nazionalismo quell’anima di cui la realtà quotidiana del liberalismo borghese l’aveva privato. Lo stato cessa di essere «un piroscafo di passeggeri o da crociera, e diventa una nave da guerra in cui deve regnare la massima semplicità e sobrietà e ogni atto dev’essere compiuto con istintiva sicurezza»[8].
Da questa prospettiva, Jünger accomuna bolscevismo e nazionalismo, come espressioni d’una stessa volontà totalitaria che deve farsi strada. Entrambi contribuiscono a distruggere un certo tipo borghese ormai inutile e concorrono a creare il protagonista della nuova epoca, il “soldato politico”, pel quale non esiste più differenza tra la guerra e la pace, la propaganda e la rivoluzione: è il tipo del militante della SA (all’epoca in cui Jünger scriveva Die totale Mobilmachung, essi si contavano a centinaia di migliaia) al quale quello della Rote Front, anch’esso in divisa e stivali, si avvicina sensibilmente. Contro il tipo del borghese Jünger enuncia il suo famoso paradosso che «è infinitamente più lodevole cercare di diventare un criminale che un borghese» (unendlich erstrebenswerter sei, Verbrocher als Bürger zu sein).
Questa nuova sostanza umana del “soldato politico”, uscito dal trauma della guerra e dalla bancarotta dei valori borghesi, Jünger lo ha caratterizzato in molte delle sue pagine: «Cominciano a muoversi strati sociali che è molto difficile definire, tanto per l’origine che per la composizione. È un miscuglio umano intelligente, esasperato, pronto a esplodere, che si serve a modo suo d’una sfrenata libertà di associazione, di parola, di stampa. Qui le differenze tra reazione e rivoluzione si fondono in strano modo: affiorano teorie dove i concetti “conservatore” e “rivoluzionario” sono identificati disperatamente. Le prigioni si riempiono d’un nuovo tipo d’uomini… La mirabile resurrezione degli antichi lanzichenecchi in quelle squadre che, dopo quattro anni di guerra, ripresero a marciare all’Est di loro iniziativa, la difesa dell’Alta Slesia, il massacro dei separatisti renani a colpi d’ascia e di bastone, la protesta contro le sanzioni a suon di bombe, e altre imprese, nelle quali si rivela l’infallibilità d’un arcano istinto, sono segni che la futura storiografia dovrà considerare pietre miliari»[9].
Anche questa disperata passione nazionale – come non solo la Germania l’ha conosciuta nel dopoguerra – è un sintomo della “mobilitazione totale” che afferra gli spiriti e non consente ritorno alla vita borghese. È il sintomo d’un nazionalismo che trapassa dalla fase patriottica e celebrativa alla fase propriamente rivoluzionaria. Quella mobilitazione totale proclamata nel fatale agosto 1914 è, per Jünger, il principio della rivoluzione del nazionalismo, destinata a trasformare la società europea. Il socialismo ne viene fatalmente risucchiato, poiché, nel suo aspetto di rivendicazione individualistica, esso è colpito con la stessa società borghese, mentre nel suo aspetto militante e solidaristico si trova ad assomigliare pericolosamente al suo avversario. La totale Mobilmachung realizza il “socialismo senza socialisti”.
La guerra del 1914 è stata la prima guerra totale della storia. È stata anche la prima guerra popolare, combattuta da masse quali mai prima si erano scontrate. Jünger vede in essa il mezzo attraverso il quale il nazionalismo, fino ad allora limitato a un certo ceto istruito, scende nella coscienza della necessità di un’economia strettamente pianificata, d’una guida politica, militare e produttiva insieme:
«All’inizio della guerra nessuno aveva potuto prevedere una mobilitazione di tale portata. Essa già si delineava però in alcune misure prese, come, ad esempio, nell’aumentato arruolamento di volontari e riservisti fin dall’inizio della guerra, nel divieto di esportazione, nelle norme della censura, e nei provvedimenti riguardanti la moneta. Nel corso della guerra questo processo andò sempre crescendo; valgano come esempi: il razionamento delle materie prime e dei generi alimentari, la militarizzazione dei dipendenti dell’industria, l’obbligo del servizio civile, l’armamento del naviglio mercantile, l’imprevedibile estensione dei poteri degli stati maggiori, lo Hindenburg-Programm, l’impegno di Ludendorff per l’unificazione della guida politica e militare. Ciò malgrado non si giunse ancora alle possibilità estreme, nonostante lo spettacolo tanto grandioso quanto spaventoso delle ultime grandi battaglie di mezzi nelle quali il talento organizzativo dell’uomo celebrava il suo cruento trionfo. Del resto, anche limitandosi all’aspetto puramente tecnico di questo processo, a queste possibilità estreme si può giungere solamente se il programma della guerra rientra già nelle previsioni dello stato di pace. Così vediamo come nel dopoguerra in molti stati i nuovi metodi di armamento tengono già conto di un’eventuale mobilitazione totale. A questo proposito si possono citare manifestazioni quali l’annientamento radicale del concetto, già di per se stesso assai discutibile, della “libertà individuale” in stati come la Russia e l’Italia, dove la tendenza è quella di sopprimere tutto ciò che non sia in funzione dello stato… La mobilitazione totale è un atto che non tanto viene compiuto quanto si compie da se stesso; in guerra e in pace essa è l’espressione della misteriosa e inevitabile necessità alla quale ci condiziona la vita in questa epoca di massa e di macchine»[10].
Il concetto della mobilitazione totale mette in crisi la libertà, assunta come valore politico fine a se stesso. Jünger, come già Nietzsche, non crede nella libertà per la libertà, e cita quella frase di Zaratustra dove si dice che l’importante non è essere liberi da qualcosa, ma per qualcosa. Il problema del nostro tempo, dopo che il liberalismo ha innalzato sugli altari una libertà priva di contenuto – e che altro non era se non la mitologizzazione dell’economia di mercato – è quello di ritrovare un’anima positiva alla libertà. La guerra incide sull’idea di libertà creando un nuovo tipo umano pel quale la libertà «non è più il principio per la formazione di un’esistenza a sé, ma consiste nel grado in cui l’esistenza del singolo si esprime nella totalità del mondo in cui è inserito».
Quest’ordine più vasto in cui il singolo deve essere inserito è, agli occhi di Jünger, la nazione. Questa scelta del nazionalismo – poiché, apparentemente, con la stessa logica, ci si potrebbe gettare in braccio a un qualunque altro ordine totalitario, ad asempio al comunismo – trova in Jünger una giustificazione diversa da quella etnica o sentimentale. In Jünger non si può trovare nessun riferimento al patriottismo più convenzionale, o il richiamo ai vincoli di sangue. L’ideologia del “sangue e terra” è per lui roba da museo (die musealgewordene Ideologie von Blut und Boden), le teorie nazional-razziali (völkisch) che han tanta parte nel movimento nazionale tedesco dalla fine dell’Ottocento al nazismo, «idee, attaccate alle scuole di maestri di scuola di trent’anni fa».
La scelta del nazionalismo è determinata dalla constatazione che il socialismo non ha nessun ideale da sostituire ai valori del mondo borghese, anzi li vuole più largamente realizzati. Il proletario, secondo la classica definizione jüngeriana degli Anni Venti, è il “borghese senza colletto”, è colui che non è ancora riuscito a diventare un borghese. Il mondo del socialismo ha anch’esso come valori supremi i valori borghesi del benessere e del quieto vivere e, come sfondo, non una disciplina o una formazione spirituale, ma la “cultura”. Per Jünger, è il nazionalismo, col culto dei valori gerarchici e militari, che può sviluppare quell’etica del soldato politico uscita dalla guerra mondiale e anche dalla rivoluzione russa. In questa prospettiva, torna a essere concepita «quell’obbedienza che è un’arte dell’udire, e di quell’ordine che vuol dire esser pronti per la parola, esser pronti pel comando che come una folgorazione corre dalla cima fino alle radici». Questa unità di libertà e servizio è rimasta estranea alla società borghese: «L’era del terzo stato non ha mai conosciuto la forza meravigliosa di questa unità perché ad essa gioie troppo facili e troppo umane sono sembrate le sole degne d’essere ricercate»[11].
L’adeguazione della realtà di pace alla realtà di guerra: ecco il nucleo fondamentale della teoria della totale Mobilmachung. Adeguamento politico, economico, morale, riduzione di quello scarto rivelato dalla guerra tra la generazione dei politici e la generazione del fronte. È la coscienza del nazionalismo che sente d’avere ancora di fronte a sé nuovi compiti, muove guerre, e intende procurarsi delle strutture adatte a sostenerle. Di qui l’impazienza verso il parlamentarismo tedesco, considerato non all’altezza del valore e della perizia del soldato tedesco:
«I deputati al parlamento sbavano come neonati troppo cresciuti, mentre giovani tenenti di vascello, nel soffocante vapore oleoso dei loro sottomarini, sono intenti a conciliare il dominio intellettuale della tecnica con la condizione primitiva del guerriero»[12].
Il trapasso dal nazionalismo borghese a quello imperialista – fatale in un mondo che si riorganizza per spazi più grandi – crea, di riscontro, l’aspirazione a nuove forme politiche capaci di interpretarlo.
La visione della nuova umanità affiorata dalla esperienza della “mobilitazione totale” trova piena espressione in quello che molti continuano a considerare il più importante libro di Jünger, Der Arbeiter, “L’Operaio”, in cui non si esamina l’operaio come esponente di una determinata classe, ma, genericamente, l’uomo d’opera quale protagonista della nuova mobilitazione tecnico-industriale.
“L’operaio” vuole essere una specie di filosofia della civiltà, anzi, la descrizione dei lineamenti della nuova civiltà in fieri.
Punto di partenza, è, anche qui, la critica del mondo borghese sorto dalla rivoluzione dell’89, veduto come uno stadio tra anarchia transitoria tra un tipo e un altro tipo di ordine organico. La colpa maggiore del mondo borghese è, per Jünger, quello d’aver creato un mondo inautentico, senza relazione con le forze profonde dell’elementare – dove col termine “elementare” si intende tutto ciò che è inafferrabile alla semplice ragione, sia esso di natura spirituale o materiale. Il mondo borghese ha organizzato una sola parte della persona umana, ed è destinato a esser messo in crisi da questi movimenti che aspirano a reintegrare la totalità.
Il mondo del terzo stato ha esorcizzato le figure del santo, del guerriero, del signore, anzi, ha fatto molto di più, le ha dichiarate inutili. Ha posto il concetto della sicurezza al centro della vita e della società, ha ridotto tutte le valutazioni a quella dell’utile ma ha evocato, per reazione, una rivolta contro i valori della ragione quale mai se n’era vista l’eguale. L’irrazionalismo, che si afferma sempre di più nelle tarde correnti romantiche dell’ottocento, è un tentativo disordinato di compensare le distruzioni spirituali causate dalla “razionalizzazione” della società. Esso sfocia nella grande corrente della guerra mondiale, dalla quale, pel contatto con le forze elementari della tecnica e della distruzione, esce un nuovo tipo, familiarizzato con la tecnica ma ostile alla modernità, padrone d’un nuovo armamentario di cose e di cognizione, ma non intenzionato a servirsene nel senso che la società borghese suggerisce.
“L’operaio” – che discende direttamente dal combattente delle grandi “battaglie del materiale” – è una specie di soldato della società industriale pel quale la tecnica è divenuta una misura fine a se stessa, non un mero ritrovato sulla via del benessere e della borghesizzazione. L’“operaio” svincola la tecnica dal servizio della società borghese e la afferma come una grandezza autonoma, unità di idealità e di pratica, di fede e di stile. Egli appartiene al tipo umano messo a nudo dalla guerra, non quella facile ed entusiastica del ’14, ma quella aspra, arida, durissima del ’16, del ’17, del ’18, che ha educato a una tenacia mai conosciuta, una pazienza fine, fredda, metallica. È un tipo che lo Jünger, con quella mistura d’osservazione astratta e concreta che salda in lui il teorico al letterato, descrive fisicamente: «il viso ha perduto la varietà dei tratti individuali mentre ha guadagnato quanto a decisione e durezza dei lineamenti. È divenuto più metallico, quasi galvanizzato alla superficie; l’architettura delle ossa ha più risalto, vi è una semplificazione e una tensione delle linee. Lo sguardo è fermo e calmo, addestrato alla osservazione di oggetti da cogliere in stati di alta velocità. È, per questo, il volto di una razza che comincia a trasformarsi nelle esigenze speciali d’un nuovo ambiente, nel quale l’individuo non rappresenterà più una persona o un individuo, ma un tipo»[13].
Per ciò che riguarda la genesi del tipo de “L’operaio”, lo Jünger non vede in esso l’avvento d’una classe in luogo di un’altra, ma l’adeguamento di tutta la società a un certo modello. Ciò che si manifesta è una “figura” (Gestalt), con caratteristiche che trascendono quelle d’una particolare categoria e tendono a determinare un’epoca. La storia non produce le figure ma si muta con la figura: questa è una delle più caratteristiche affermazioni di Jünger che mostra come egli veda nelle sue trasformazioni come delle mutazioni biologiche. Il mondo dell’industria e la classe operaia sono state, fino a oggi, una parte della realtà borghese, legata a quelle finalità del guadagno e del benessere dominanti nei secoli scorsi. Con l’affermarsi dell’“operaio” come Gestalt è invece la società intera che viene afferrata da un nuovo ritmo: «Tutta la superficie terrestre è ricoperta dalle macerie di immagini spezzate. Assistiamo allo spettacolo di una fine paragonabile alle catastrofi geologiche. Sarebbe un perder tempo associarsi al pessimismo dei vinti o al superficiale ottimismo dei vincitori… si ha a che fare con quelle rivoluzioni materiali che coincidono con l’apparire di razze, a disposizione delle quali stette una magia di nuovi mezzi quali il bronzo, il ferro, il cavallo, la vela. Come il cavallo prende un significato solo attraverso il cavaliere, il ferro attraverso il fabbro, la nave attraverso il tipo del navigatore, del pari la metafisica dello strumentario tecnico si paleserà solo nel punto in cui apparirà la razza dell’operaio come una grandezza a essa sopraordinata»[14].
Ciò che è difficile a stabilirsi nella visione di Jünger è fino a che punto il nuovo spirito che egli descrive corrisponda effettivamente al mondo del lavoro – quasi che esso fosse capace di esprimere delle valutazioni non utilitarie – o rifletta invece sul mondo del lavoro delle categorie spirituali tratte dalla guerra e coltivate dal nazionalismo. È una visione sorta nel clima di forzata austerità della Germania del primo dopoguerra, che sbiadisce alquanto se trasferita in quello di miracolo economico del secondo dopoguerra. “L’operaio” è influenzato, almeno nel titolo, dalla terminologia marxista, ma i valori da esso sottintesi sono meno quelli del quarto stato che non quelli dello stato maggiore prussiano. Esso è comunque l’espressione d’una simbiosi spirituale realizzatasi per breve tempo nella Berlino del 1930 tra le avanguardie del comunismo e del nazionalismo, riecheggiata da quella celebre frase di Gregor Strasser sulla antikapitalistiche Sehnsucht del popolo tedesco.
“Nostalgia anticapitalistica”: un termine impreciso nel quale resta incerto se si vuol effettivamente ristrutturare la società in senso marxista, o se quel che si vuole è l’introduzione d’un sistema di vita solidaristico. Jünger propende piuttosto per la seconda soluzione. Ad esempio, per quel che riguarda la proprietà, egli dice che non si tratta di negarla o d’affermarla in base a criteri preconcetti, ma di valutarla nella misura in cui è in grado di servire alla “mobilitazione totale”: «Nulla vi è da eccepire contro l’iniziativa privata nel punto in cui le si assegna il rango d’un carattere speciale del lavoro nell’ordine complessivo». Fondamentale è la coscienza che le forze economiche devono essere controllate dal potere politico, che l’economia non deve dettare il “senso” dell’esistenza: «Col negare il mondo economico come quello che determina la vita, cioè come un destino, se ne vuol contestare il rango, non già l’esistenza». A questo fine, però, devono esistere dei valori sovraordinari.
Tutta la polemica tra terzo e quarto stato, tra borghesia e proletariato, presuppone che il senso della storia si esaurisca nella creazione delle più facili condizioni di vita per il maggior numero, e ha ben poco da dire a chi si colloca fuori da questa prospettiva: «È inevitabile che in questo mondo di sfruttatori e di sfruttati non sia possibile alcuna grandezza che per ultima istanza non abbia il fatto economico. Vengono bensì contrapposte due specie di uomini, di arti, di morali, ma non occorre aver molto acume per accorgersi che unica è la sorgente che le alimenta. Così è anche da un medesimo tipo di progresso che i protagonisti della lotta economica traggono la loro giustificazione. Essi s’incontrano nella pretesa fondamentale di essere ognuno il vero fautore della prosperità sociale, per cui ognuno è convinto di poter minare le posizioni dell’avversario quando riesce a contestargli ogni diritto di presentarsi come tale»[15].
“L’operaio” jüngeriano si pone al di fuori di questo contesto: «egli assume la tecnica come un linguaggio fine a se stesso che ha un valore, prima ancora che nella sua utilità, nella sua azione educatrice. Egli non è il rappresentante d’una classe, nel senso della dialettica marxista, e ancor meno il tipo dello sfruttato “fatto oggetto” d’un nuovo sentimentalismo, diverso dal precedente solo per la sua maggior meschinità». Nota lo Jünger che «in chiunque sa ben vedere resterà solo dello stupore nell’accorgersi come si sia creduto di scalzare il mondo borghese affermando proprio le istanze che lo hanno più univocamente consolidato».
Il punto in cui il mondo borghese è messo in crisi è quello in cui le caratteristiche valutazioni del terzo stato vengono spezzate da un nuovo tipo umano, indifferente sia a un certo idealismo ottocentesco sia al materialismo. È una “figura” (Gestalt) capace d’un grado di disindividualizzazione quale solo i grandi ordini monastici e militari sono stati in grado di produrla, e quale la tecnica, in guerra ma anche in pace, sarebbe in grado di risvegliare. Quale figura (Gestalt), l’uomo andrebbe a riconnettersi a quella totalità dello spirito che conobbero le epoche organiche del passato, e che è andata perduta nella fase critica per la quale ci troviamo a passare:
«L’individuo si trova inserito in una grande gerarchia di figure, di poteri che non potranno mai essere concepiti in modo abbastanza reale, plastico, necessario. Di fronte ad esse, egli diviene un simbolo, un rappresentante, e la possanza, la ricchezza e il significato della sua vita dipendono dalla misura in cui egli partecipa all’ordine e alla lotta delle figure…
In quanto figura l’uomo è più della somma delle sue energie e delle sue facoltà, è più profondo di quel che può credere di essere nelle sue cogitazioni più profonde, è più potente di quel che può dimostrare nelle sue imprese più grandi…
L’incarnare una figura nulla promette; al massimo è segno che la vita è di nuovo in una fase ascendente, ha un rango e si crea nuovi simboli»[16].
La concezione di Jünger è influenzata sia dall’immagine d’un certo bolscevismo, sia da quella del nazionalsocialismo. Essa tende a porre se stessa come un “realismo eroico”: il credo d’una personalità levigata a un’asperità aspra e asciutta dalle esigenze d’una grandiosa mobilitazione alla lotta. Essa potrà apparire poco tranquillizzante, e persino sprezzante e cinica ai custodi dell’umanesimo democratico ma quanto più cinico, quanto più prussiano, più spartano e più bolscevico, e tanto meglio. Si tratta di ridestare veri valori spirituali, fondati sul sacrificio e sul coraggio, sulla serietà e l’ampiezza dell’impegno, sì che «il disprezzo del nuovo tipo per gli pseudo-valori umanistici non sarà mai abbastanza grande» e «quanto meno cultura ci sarà, in tale strato, tanto meglio sarà». Jünger ha rispetto della cultura delle epoche organiche – epoca in cui ogni creazione artistica era l’atto di una fede e un servigio alla totalità – ma condanna gli epigoni della cultura borghese, la cultura come accademia, salotto, museo, la quale «è una specie di stupefacente».
Già nei suoi diari di guerra aveva scritto: «Godiamo nel mondo la fama di distruttori di cattedrali: ciò vuol dir molto in un’epoca in cui la coscienza della propria sterilità allinea un museo accanto all’altro».
Come lo Jünger si ponga il problema della presa del potere di questa nuova élite tipo dell’“operaio” non è chiaro del tutto. Egli ha in mente comunque una specie di partito unico su base d’élite, un ordine secondo il modello prospettato da anni dagli ideologhi bündisch. In taluni punti egli parla di quest’ordine come della “coscienza armata dello stato”. Esso è il detentore del potere politico che domina, in asperità e semplicità di vita, le forze della ricchezza e dell’economia:
«Come fa piacere vedere libere tribù del deserto che, vestite di cenci, per unica ricchezza hanno i loro cavalli e le loro armi preziose, così pure piacerebbe vedere il grandioso e prezioso armamentario della civilizzazione servito e diretto da un personale vivente in una povertà monacale e soldatesca. È questo uno spettacolo che dà una gioia virile e che si è rinnovato ovunque, in vista di grandi compiti, all’uomo sono state poste esigenze superiori. A tale riguardo fenomeni come l’Ordine dei Cavalieri Teutonici, l’esercito prussiano, la Compagnia di Gesù sono dei modelli, e si deve rilevare che a soldati, a sacerdoti, a scienziati e ad artisti è proprio un rapporto naturale con la povertà»[17].
Di tutti i dottrinari della “rivoluzione conservatrice”, lo Jünger – per la sua mescolanza di socialismo e nazionalismo “soldateschi” – è quello che più si avvicina al nazionalsocialismo, assai più dei teorici corporativismi alla Spann, o dei conservatori prussiani alla Spengler. Non sorprende che i nazisti abbian cercato di guadagnarselo per sé, offrendogli un mandato parlamentare, e che Goebbels lo abbia lungamente corteggiato per farne un “intellettuale fiancheggiatore”. E tuttavia Jünger si tenne da parte:
«I “nazionali” all’inizio credevano che i libri di guerra di Jünger avessero fatto di lui uno dei loro. Ma egli in fondo si disinteressava di loro. I comunisti hanno voluto vedere ne L’operaio il cantico dell’Unione Sovietica. Jünger invece si tenne da parte. I nazionalsocialisti speravano di guadagnare a sé il teorico della mobilitazione totale nel loro areopago letterario. Egli ringraziò con un inchino ironico e rifiutò. Dopo il 1945 i propugnatori di un’Europa democratica se la presero con l’autore dello scritto più acuto sulla fine dello stato nazionale e sulla necessità di una soluzione europea perché egli si rifiutò di figurare nell’intestazione della loro carta da lettere. Jünger si è dovuto difendere anche troppo spesso da alleati non desiderati, in particolare da quelli “che ci appoggiano anche nei nostri lati più deboli purché siamo d’accordo con loro nella polemica”»[18].
A prescindere da particolari considerazioni sull’individualismo d’uno Jünger, il suo atteggiamento di diniego è comunque quello di tutto un certo settore dell’intellighenzja di destra tedesca, che si rifiuta di avvallare con la sua firma il crescente conformismo partitico del nazionalsocialismo. Il gennaio del 1933, in cui il nazionalsocialismo raggiunge il potere, rappresenta al tempo stesso il momento di massima popolarità del movimento, ma anche quello in cui esso comincia ad alienarsi le simpatie d’un certo settore qualificato che aveva contribuito alla sua ascesa. Mentre una parte dei dottrinari della “rivoluzione conservatrice” passa al nazionalsocialismo – e qui sian nominati, oltre i razzisti Clauss e Günther, anche i filosofi conservatori come un Bäumler o un Krieck – tutta un’altra parte si tiene al di fuori, in atteggiamento di critica più o meno dissimulata. È la cosiddetta “emigrazione interna”, di cui si è fatto un gran parlare nella Germania del dopoguerra – non solo per l’alibi offerto dalla formula, ma perché corrispose effettivamente a un sentimento diffuso. Da questo punto di vista, tre libri di memorie come Jahre der Okkupation di Jünger, Doppelleben di Gottfried Benn e Der Fragebogen di Ernst von Salomon sono esemplari, in quanto ci permettono di cogliere in tutte le sfumature l’iniziale simpatia per l’hitlerismo che si muta col tempo in perplessità e poi in ostilità consapevole. È tutto un lento movimento che si può far cominciare già alla vigilia della Machtergreifung – o al più tardi col 30 giugno 1934 – e che si continua fino al 20 luglio del ’44.
Von Salomon, che ne I proscritti ci ha fornito un reportage senza uguali del periodo compreso tra la rivolta del 1919 e l’assassinio di Rathenau, e in Die Stadt un quadro della Berlino degli ultimi anni della Repubblica di Weimar, rappresenta in Io resto prussiano (titolo italiano di Der Fragebogen) una delle fonti principali per conoscere dappresso quegli ambienti in cui maturò l’opposizione contro la repubblica che doveva sfociare nel nazismo. È una realtà complessa, un intrico di uomini e di posizioni, dalla quale emergono personaggi oggi dimenticati, come il capitano Ehrardt – l’uomo che aveva marciato su Berlino con la sua brigata realizzando il Putsch di Kapp – che fu una delle maggiori speranze del nazionalismo, e che collaborò inizialmente con Hitler a Monaco. Anzi, molte pagine di Mein Kampf furono scritte successivamente in velata polemica col capitano Ehrardt.
In genere, ciò che mortifica gli esponenti della “rivoluzione conservatrice”, sono il conformismo di massa imposto dal nuovo regime (spiacevole anche per molti convinti nazisti, come un Hans F.K. Günther: si veda il recente libro Mein Eindruck von Adolf Hitler, München 1968), il rigore con cui esso procede contro elementi dell’opposizione nazionale che esitano ad allinearsi, e la persecuzione contro gli Ebrei.
Non che la “rivoluzione conservatrice” non fosse, più o meno, colorata d’antisemitismo, ma le forme assunte dalla persecuzione degli Ebrei nel Terzo Reich, che non s’arresta neppure di fronte ai pochi ebrei “nazionali” – come, ad esempio, un Hans Joachim Schoeps, animatore d’una Jüdische Vortrupp (Avanguardia ebrea), accesamente nazionalista e antirepubblicana – creano un generale disagio. Ad esempio, i fratelli Jünger si dimettono dalla lega degli ex-appartenenti al 73° reggimento di fanteria quando questa decreta l’espulsione dei membri ebrei. Per parte sua Spengler aveva scritto in Anni decisivi, apparso nel 1934, «chi parla troppo di razza, dimostra di non averne nessuna».
In particolare, la purga del 1° luglio 1934 costituisce un forte shock per i dissidenti della destra nazionale: se da una parte, con Röhm e la sua banda, vengono eliminati alcuni degli elementi più spiacevoli del nazionalsocialismo, Hitler lascia però un “biglietto da visita insanguinato” nella casella di ciascuno dei gruppi dissenzienti. L’uccisione di Strasser è un avviso ai nazionalrivoluzionari e agli eretici di sinistra, quella di Walter Schotte un avvertimento ai conservatori cattolici, quella di Edgar Jüng una minaccia anch’essa destinata a gruppi conservatori di Monaco. Non per nulla gli scritti politici di Oswald Spengler erano usciti non molto prima con una fascetta col giudizio elogiativo di Jüng.
Con la “notte dei lunghi coltelli”, colpendo a destra e a sinistra, il nazismo recise il cordone ombelicale che lo teneva legato a quel complesso mondo dei circoli, dei cenacoli, delle sette che aveva costituito, negli Anni Venti, il vivaio della “rivoluzione conservatrice”. E tuttavia una specie di dialogo continuò fino alla fine tra il regime e gli uomini dell’opposizione nazionale: essi appartenevano, per l’ambiente, le relazioni, le amicizie, al fronte che aveva abbattuto la Repubblica di Weimar: per quanto scontenti potessero essere del nuovo stato di cose, non avrebbero comunque potuto prendere la via dell’esilio. Accusati all’estero come “precursori”, costretti in Germania al silenzio, scelsero la via della cosiddetta “emigrazione interna”. Non cambian di fronte, ma tra di sé accusano Hitler di dissipare e di tradire le speranze, gli entusiasmi, le energie del nazionalismo tedesco. È la reazione di von Salomon che ascolta alla radio il discorso di Hitler che annuncia l’eccidio delle SA e si ribella contro una ragion di stato che gli pare crudele e ipocrita. È il melanconico bilancio di Ernst Jünger che dopo la guerra ripensa alla schiera dei suoi lettori sacrificati su tutti i fronti. È la disillusione d’un Gottfried Benn, espostosi come sostenitore del nuovo regime nei primi mesi del ’33, ma presto messo a tacere dalle gerarchie culturali del partito come “artista degenerato”. Benn sceglie quella che egli definisce “la forma aristocratica dell’emigrazione”, e cioè il servizio nella Wehrmacht, dove dal 1935 al 1945 espletò le funzioni di medico militare. Anche per Jünger, ritiratosi in un’estetica torre d’avorio e, durante la guerra, nell’aristocratico consesso del comando di von Stülpnagel a Parigi, la Wehrmacht è il rifugio che consente di mantener le distanze da quelle spiacevoli realtà che sono il partito e la Gestapo.
E tuttavia, sarebbe troppo semplice ridurre l’atteggiamento di questi personaggi alla netta “opposizione”. Se è “opposizione”, lo è d’un genere particolare e privilegiato. Von Salomon redige una pubblicazione semiufficiale che rievoca le lotte dei Corpi Franchi. E il romanzo di Jünger, Sulle scogliere di marmo[19], non è in nessun modo un romanzo antinazista: contro il Forestaro, simbolo di quelle forze del caos e dell’anarchia che vogliono livellare le antiche stratificazioni affermatesi nel paesaggio della civiltà, il personaggio di Braquemart – il nichilista discepolo di Nietzsche, che riscopre le primordiali civiltà schiaviste – è pur sempre l’alleato del principe Sunmyra, rappresentante dell’aristocrazia, e dei due protagonisti, che altro non sono che l’autore e il fratello Friedrich Georg. Jünger stesso ha raccontato come per le Scogliere di marmo il Reichsleiter Bouhler abbia chiesto la sua testa, e come Hitler in persona, che apprezzava i suoi libri di guerra, si sia intromesso.
In realtà, i fronti della rivoluzione nazionale eran stati in origine confusi l’un l’altro, e dalle stesse file vennero i sostenitori e gli oppositori del regime, i persecutori e i perseguitati, le vittime e i carnefici. E come ha rievocato Ernst Jünger molti anni dopo, nei suoi diari:
«I circoli nazionalistici mi appaiono oggi come i fuochi degli accampamenti che annunciano la partenza generale. Questo sarebbe stato il loro posto naturale: le mansarde berlinesi e le cantine di Amburgo non facevano che fornire lo stile dell’epoca. La mattina, il gruppo si disperdeva, per conservarsi, come si legge nelle saghe nordiche. I più fortunati cadevano sui campi di battaglia. Altri dovevano fuggire al di là dei confini nazionali, venivano cacciati, ammazzati a colpi di bastone, impiccati, torturati oppure, accerchiati, si suicidavano. Altri ancora diventavano comandanti, capi di polizia, luogotenenti, ribelli, ergastolani, per poi essere spogliati di tutti questi attributi, come fossero un mazzo di carte che a partita finita viene raccolto e messo da parte. Come avviene che alcune di queste serate mi sono rimaste così impresse nella memoria? Probabilmente perché in esse tutto ciò, tutto quel che doveva avvenire, era già contenuto, sia pure in modo divinatorio, in una maniera spirituale, sublime, che accomunava tutti, mentre non vi era ancora traccia alcuna della futura grossolanità a senso unico, della irrevocabilità che sopraggiunge con l’azione. Così, il ricordo portava una specie di armistizio tra coloro che si incontravano in campi nemici. Qualche volta, nei periodi di crisi, avevo la sensazione che questo spirito fosse ancora vivo, tanto da agire dietro le quinte, per esempio nel far archiviare un procedimento, nel far sparire dei documenti, oppure nel far trovare pronto per la fuga un aereo».
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Note
[1] [Mobilitazione totale].
[2] [E. Jünger, In Stahlgewittern. Aus dem Tagebuch eines Stoßtruppführers. Von Ernst Jünger, Kriegs Freiwilliger dann Leutnant und Kompanieführer im Füs. Regt. Prinz Albrecht von Preußen (Hann. Nr.73), Leutnant im Reichwehr-Regiment Nr.16 (Hannover), Hannover 1920. Traduzione italiana di Attilio Zampaglione Tempeste d’acciaio, Edizione del Borghese, Milano 1966. Ultima edizione italiana Nelle tempeste d’acciaio, Guanda, Parma 1990.]
[3] [E. Jünger, Der Kampf als inneres Erlebnis, Mittler & Sohn, Berlino 1922.]
[4] [E. Jünger, Das Wäldchen 125. Eine Chronik aus den Grabenkämpfen 1918, Mittler & Sohn, Berlino 1925. Traduzione italiana di Alessandra Iadicicco Boschetto 125, Guanda, Parma 1999.]
[5] [E. Jünger, Feuer und Blut. Ein kleiner Ausschnitt aus einer großen Schlacht, Stahlhelm Verlag, Magdeburg 1925. A i libri di guerra jüngeriani elencati da Romualdi si può aggiungere il coevo (ma tardivamente pubblicato) Sturm, Klett-Cotta, Stuttgart 1978 (traduzione italiana di Alessandra Iadicicco Il tenente Sturm, Guanda, Parma 2000). Cfr. anche i tre volumi pubblicati sotto il titolo Scritti politici e di guerra, Editrice Goriziana, Gorizia 2003-2004, che raccolgono la pubblicistica giovanile jüngeriana].
[6] E. Jünger, Die totale Mobilmachung, Verlag für Zeitkritik, Berlin 1931. [La prima edizione del saggio jüngeriano è nel già citato E. Jünger (cur.), Krieg und Krieger, Berlin 1930, pp. 9-30. L’autore rimise mano al testo, con correzioni e aggiunte, in occasione di quattro successive edizioni].
[7] E. Jünger, Der Arbeiter, cit. presso J. Evola, L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, Volpe, Roma 1960, p. 57.
[8] E. Jünger, Der Arbeiter, cit. presso J. Evola, L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, Volpe, Roma 1960, p. 76.
[9] E. Jünger, Der Arbeiter, cit. da Delio Cantimori nell’introduzione a Principi politici del nazionalsocialismo di Carl Schmitt, Firenze 1935, pp. 4-7. [E. Jünger, Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg 1932. Traduzione italiana di Quirino Principe L’operaio. Dominio e forma, Longanesi, Milano 1984. Cfr. anche A. de Benoist, L’Operaio fra gli dei e i titani. Ernst Jünger “sismografo” dell’era della tecnica, Terziaria – ASEFI, Milano 2000.]
[10] E. Jünger, Die totale Mobilmachung, cit. pp. 14-15.
[11] Cit. da J. Evola, L’Operaio nel pensiero di Ernst Jünger, cit. p. 16.
[12] A. E. Günther, Die Intelligenz und der Krieg, in Krieg und Krieger, cit., p. 88.
[13] Cit. da J. Evola, L’Operaio nel pensiero di Ernst Jünger, cit., p. 52.
[14] Cit. da J. Evola, L’Operaio nel pensiero di Ernst Jünger, cit., p. 48.
[15] Cit. da J. Evola, L’Operaio nel pensiero di Ernst Jünger, cit., p. 19.
[16] Cit. da J. Evola, L’Operaio nel pensiero di Ernst Jünger, cit., p. 34.
[17] Cit. da J. Evola, L’Operaio nel pensiero di Ernst Jünger, cit., p. 75.
[18] K. O. Paetel, Ernst Jünger in Selbstzugnissen und Bilddokumenten, Hamburg 1962, pp. 56-57.
[19] [E. Jünger, Auf den Marmorklippen, Hamburg 1939. Traduzione italiana di Alessandro Pellegrini Sulle scogliere di marmo, Mondadori, Milano 1942. Ultima ed. italiana Guanda, Parma 1998.]
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Brano tratto dal libro Correnti politiche e ideologiche della destra tedesca dal 1918 al 1932, Edizioni de «L’Italiano», Anzio 1981 (di prossima ripubblicazione per i tipi di Settimo Sigillo).
I reazionari diventino rivoluzionari (di Ernst Jünger) | Lo Stendardo
[…] Ernst Jünger, cit. in A. Romualdi, Ernst Jünger e la Rivoluzione Conservatrice, in https://www.centrostudilaruna.it/ernst-junger-e-la-rivoluzione-conservatrice.html […]