Immaginiamoci una moderna nave da guerra europea occultata nel delta di un grande fiume africano e mimetizzata fra le palme, le mangrovie e le liane, nel calore torrido del clima equatoriale, con i coccodrilli che scivolano sulla corrente e, la notte, il ruggito spaventoso del leone, che gela il sangue nelle vene agli ascari.
Immaginiamoci, poi, una intera flotta di navi nemiche che le danno la caccia, ma non osano penetrare a loro volta nel fiume, per timore di arenarsi sui banchi di sabbia del fondo, e che tentano di individuarla servendosi di aerei che sorvolano la giungla in ogni senso, con il rischio che i coraggiosi piloti, esaurita la benzina, precipitino in quel dedalo di isole e di canali popolati di nemici, di nuvole d’insetti e di animali selvaggi.
Immaginiamo, infine, due monitori – le imbarcazioni a fondo piatto, cariche di cannoni e con lo scafo e i ponti corazzati che erano divenute famose nel corso della lontana Guerra di Secessione americana -, fatte venire apposta dalla lontana Europa per risalire senza rischio quelle acque malfide, che si portano lentamente a tiro della nave intrappolata e che ingaggiano con essa un duello d’artiglieria all’ultimo sangue, senza potersi vedere direttamente, ma regolando il tiro sulla base delle segnalazioni di svariati posti d’osservazione, scaglionati da ciascuna delle due parti in quel paesaggio anfibio e lussureggiante…
Sembrano gli elementi di un classico romanzo di guerra e d’avventura, usciti dalla fantasia di un Joseph Conrad, di un Karl May o di un Rudyard Kipling; e, invece, sono quelli di una storia vera fino all’ultimo dettaglio; una vicenda sconosciuta al grande pubblico, che si svolse realmente nel corso della prima guerra mondiale, nel delta del fiume Rufigi, nella sezione meridionale della colonia dell’Africa Orientale Tedesca.
La nave intrappolata era l’incrociatore Königsberg, della Marina imperiale germanica; il suo comandate, l’intrepido e valoroso capitano di fregata Max Looff.
Dal punto di vista tecnico, si trattava di una unità dalle caratteristiche molto simili a quelle dell’Emden, del quale abbiamo già diffusamente parlato (cfr. il nostro precedente articolo La crociera dell’incrociatore «Emden» e la battaglia delle isole Cocos, 9 novembre 1914).
Era un incrociatore leggero di 3.400 tonnellate, varato il 12 dicembre 1905 nei cantieri navali di Kiel. Misurava una lunghezza di 115 metri e una larghezza massima 13, con un pescaggio di poco inferiore ai 5 metri. Come tutte le altre unità tedesche della medesima classe, era armato con 10 pezzi a tiro rapido da 105 mm., oltre a 10 pezzi da 52 mm. e due tubi lancia-siluri. L’apparato motore constava di due macchine alternate da tre cilindri ciascuna, che potevano consentirgli di sviluppare una velocità massima di 24 nodi. L’equipaggio era formato da 322 uomini, tra ufficiali e marinai.
Il capitano Looff era alsaziano, essendo nato a Strasburgo nel 1874 (appena tre anni dopo la cessione di quella provincia dalla Francia alla Germania); aveva dunque, allo scoppio della prima guerra mondiale, quarant’anni appena compiuti. Coetaneo del comandante dell’incrociatore Emden, Karl von Müller, poteva sembrare piuttosto giovane per un comando di quella responsabilità; questa, però, era una cosa abbastanza comune nella giovane Marina imperiale germanica voluta da von Tirpitz, basata su idee nuove e sul criterio del merito.
Nei primi mesi del 1914 l’Ammiragliato di Berlino aveva deciso di inviare il Königsberg di stanza nella colonia dell’Africa Orientale Tedesca, in sostituzione della vecchia cannoniera Geier, allo scopo di rafforzare la presenza tedesca in quella zona strategica.
Va osservato che un eccellente lavoro di rilevamento cartografico era stato appena condotto dalla nave oceanografica Möwe (da non confondersi con l’incrociatore ausiliario che più tardi sarebbe stato adibito alla guerra di corsa sugli oceani, e che condusse due fortunate crociere, rientrando indenne in Germania dopo aver posato dei banchi di mine e aver colato a picco una quota notevole di tonnellaggio mercantile alleato: cfr. F. Lamendola, Le due crociere della nave corsara Möwe, dicembre 1915 – marzo 1917).
Tale lavoro si sarebbe rivelato di importanza decisiva per consentire al Königsberg di nascondersi a lungo alla caccia delle flotte avversarie, eleggendo a suo rifugio il delta del fiume Rufigi.
Alla vigilia della prima guerra mondiale, l’Oceano Indiano si poteva considerare a tutti gli effetti come un lacus britannicus.
Vi stanziavano due squadre navali inglesi, quella delle Indie Orientali e quella del Capo di Buona Speranza, che ne controllavano i due sbocchi: verso il Pacifico e verso l’Atlantico. La prima, comandata dall’ammiraglio Pierce, era di base a Bombay e comprendeva una vecchia corazzata pre-dreadnought, Swiftsure, e 3 incrociatori leggeri, due dei quali – Pelorus e Fose – di tipo antiquato, mentre il terzo, Dartmouth, era una moderna unità armata con 8 pezzi da 152 mm. e sviluppava una velocità di ben 26 nodi.
La seconda, al comando dell’ammiraglio Kig-Hall, era costituita da 3 vecchi incrociatori leggeri: Hyacint, Astrea e Pegasus (quest’ultimo di sole 2.200 tonnellate). Dunque le forze navali britanniche dell’Oceano Indiano erano numerose, se pure qualitativamente modeste; ma loro unico avversario essendo il Königsberg, il compito ad esse richiesto, di proteggere il traffico commerciale e i trasporti di truppe, non appariva particolarmente difficile. Almeno sulla carta: ma, allo scoppio delle ostilità, si vide che le cose stavano un po’ diversamente.
L’incrociatore leggero Königsberg era partito dal porto di Wilhelmshaven il 28 aprile 1914, arrivando nel porto di Dar-es-Salaam, il 6 giugno dopo un viaggio spedito, attraverso il Mediterraneo e il canale di Suez.
Da parte sua, il 27 luglio l’ammiraglio King-Hall salpò dall’isola Mauritius con i suoi tre incrociatori per cercarlo e tenerlo costantemente sotto sorveglianza, in attesa dell’ormai imminente dichiarazione di guerra.
La nave tedesca uscì dal porto la sera del 30 luglio e quella notte stessa fu avvistata dalle navi inglesi che però, più lente, se la lasciarono sfuggire dopo un convulso inseguimento, reso più difficile da un violento piovasco notturno.
Lo Hyacinth fu allora rimandato indietro per proteggere le acque sudafricane rimaste indifese, e King-Hall continuò le ricerche con due sole navi. Il 20 settembre, però, fu il Königsberg a cogliere allo sprovvista i suoi inseguitori: penetrato nel porto di Zanzibar, vi sorprese il piccolo Pegasus all’ancora, e lo affondò a cannonate, allontanandosi poi indisturbato.
Ha scritto, a proposito di questa azione audace e spettacolare, ma non gloriosa, uno insigne storico militare italiano, il Contrammiraglio Ettore Bravetta, nella sua coscienziosa opera La grande guerra sul mare (Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1926, vol. 1, p. 128):
Il nome dell’incrociatore leggero Königsberg fu appreso per la prima volta dal grosso pubblico mondiale quando il telegrafo annunziò il suo combattimento – se così può chiamarsi – col Pegasus, bastimento assai più vecchio e molto meno potente, che era ancorato a Zanzibar per riparare le proprie macchine. La mattina del 20 settembre 1914 l’incrociatore tedesco, presentatosi davanti al porto, aprì il fuoco sul britannico dalla distanza di circa 8.500 m. Il Pegasus, armato di calibri inferiori ed impossibilitato a muoversi, rispose come meglio poté, ma in otto minuti fu ridotto al silenzio e poco dopo affondò. Ebbe 86 fra morti e feriti: non fu un combattimento; ma un massacro. Naturalmente, ed in teoria, il Pegasus non avrebbe dovuto essere lasciato solo, in tali condizioni, dentro un porto non difeso; ma in pratica dovete tentar la sorte, perché in quel giorno tutte le navi da guerra disponibili nell’Oceano Indiano dovevano scortare il convoglio di truppe indiane. E il Tedesco colse l’occasione propizia.
Dopo tale impresa, il capitano Looff rientrò nel suo imprendibile rifugio nel delta del fiume Rufigi, nella sezione meridionale dell’Africa Orientale Tedesca, nascosto dalla fitta foresta tropicale e protetto da secche insidiose, che ne rendevano assai pericolosa la navigazione.
Il 21 settembre l’incrociatore inglese Chatham del capitano di fregata Drury-Lowe ebbe ordine di lasciare il Mar Rosso per mettersi alla ricerca della nave avversaria. Esso le era superiore sia per armamento (8 pezzi da 152 mm. contro 10 da 102), che per stazza (5.400 tonnellate contro 3.400) e velocità (26 nodi contro 24). Gli furono affiancati inoltre gli incrociatori Dartmouth e Weymouth, della sua stessa potenza, e tali forze incominciarono una perlustrazione sistematica della costa orientale africana fra Tanga e la foce dello Zambesi.
Il 19 ottobre il Chatham entrò nel porto di Lindi ove, a bordo della finta nave-ospedale tedesca Präsident, Drury Lowe scoprì – leggendone il libro di bordo – che il rifugio del Königsberg era nel delta del Rufigi. Da quel momento il destino dell’incrociatore tedesco fu segnato, anche se furono necessari mesi e mesi di lotte e di imprese logistiche notevolissime, prima di poterlo mettere fuori combattimento. Il 30 ottobre il Dartmouth e il Weymouth si portarono al largo del delta; il 31, il Chatham bombardò la stazione di segnalazioni tedesca sull’isola di Mafia; e il 1° novembre incominciò il bombardamento contro il rifugio del Königsberg.
Valendosi di dettagliate carte nautiche – di cui l’avversario era sprovvisto – il capitano Looff poté evitare le secche e risalire il fiume sino a portarsi, per il momento, fuori tiro; il suo destino, tuttavia, era segnato. Dopo un nuovo, infruttuoso bombardamento da parte del Chatham il 3 novembre, la carboniera inglese Newbridge risalì il ramo del Simba-Uranga e vi si autoaffondò, allo scopo di precludere all’avversario l’unica possibile via di scampo. L’operazione riuscì solo in parte, perché (come già nel caso di Santiago di Cuba nel 1898, durante la guerra ispano-americana, e in quello di Zeebrugge nel 1918) una eventuale sortita del Königsberg avrebbe potuto essere effettuata anche da altre bocche del delta – almeno teoricamente – con l’alta marea; in realtà, l’incrociatore tedesco non avrebbe mai più ripreso la via del mare aperto, dove sarebbe andato incontro a una rapida distruzione da parte della squadra che effettuava il blocco del delta.
Per poter infliggere al Königsberg il colpo mortale, l’Ammiragliato inglese dovette trasferire in Africa orientale sia la nave trasporto idrovolanti Laconia, sia i monitori fluviali Severn e Mersey che, con il loro fondo piatto (pescavano appena m. 1,45), potevano risalire il fiume come gli incrociatori non erano in grado di fare. Si trattava di due unità da 1.260 tonnellate ciascuna, armate con 2 pezzi da 152 mm. e mortai da 120: le sole che avrebbero potuto mettere la parola fine alla carriera del corsaro tedesco.
Giunsero all’isola di Mafia, base delle operazioni nel delta, il 2 giugno 1915 e poco più di un mese dopo, il 6 luglio, avevano risalito il fiume il fiume Rufigi abbastanza in profondità da poter aprire il fuoco contro il Königsberg.
Benché il loro tiro fosse diretto dall’osservazione aerea degli idrovolanti, dopo 8 ore di fuoco dovettero ritirarsi perché, pur avendo colpito l’avversario più volte – ma non in maniera decisiva – erano state a loro volta seriamente danneggiate dai Tedeschi che, a loro volta, avevano costruito tutta una serie di posti d’osservazione, trincee e nidi di mitragliatrici nella zona. L’operazione fu ripetuta l’11 luglio e questa volta, dopo quattro ore e mezza di fuoco incessante, poté considerarsi conclusa definitivamente: il Königsberg non era più che una carcassa fumante adagiata sui bassi fondali.
Le vicende di questa drammatica battaglia fra tre moderne navi da guerra, che parevano giocare a rimpiattino fra i bassi fondali e la vegetazione inestricabile del delta, sono state efficacemente riassunte dallo storico-giornalista americano Edwin P. Hoyt jr. nel suo bel libro I Tedeschi che non persero mai (titolo originale: The Germans Who Never Lost, 1968; traduzione italiana di Anna Bacigalupo, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1971, pp. 150-54):
… Per quattro giorni non accadde nulla, ma il capitano [Looff] sapeva che i suoi nemici stavano studiando un piano d’attacco migliore di quello del 6 luglio, che aveva avuto così poco successo, nonostante la loro schiacciante superiorità in tutto fuorché nel coraggio e nella precisione di tiro.
L’11 luglio, di prima mattina, i due aerei superstiti cominciarono a volteggiare sopra il Königsberg. Nei giorni precedenti si era avuto soltanto una ricognizione al giorno, e questa era la prima volta che si aveva un concentramento, – se così poteva chiamarsi – di forze aeree. Il capitano capì che era venuto il momento dell’attacco. Ben presto i guardiani di costa gliene diedero conferma: il nemico stava tornando con i pontoni corazzati. Il piano era lo stesso, ma l’ammiraglio King-Hall aveva preso personalmente il comando, spostandosi sul Weymouth.
Alle otto del mattino i monitori furono attaccati ai rimorchiatori; alle 10,40 erano sulla bocca del fiume, e alle 11,45 superavano la barra del Rufigi. Ben presto giunsero a tiro del Königsberg, e l’incrociatore, informato dagli osservatori costieri, incominciò a sparargli contro. I cannonieri colpirono due volte il Mersey, e uno dei proiettili sfondò la cabina del capitano, ferendo due uomini e mettendo fori combattimento il cannone di poppa. L’altro finì nei sacchetti di sabbia in coperta, e fece poco danno. Poi il Mersey si ritirò e il Severn riprese la posizione che aveva occupato cinque giorni prima. Il Mersey aveva il compito di provocare il fuoco tedesco, mentre il Severn aveva quello di sparare.
Ma le cose non andarono in questo modo: il capitano Looff non volle fare il gioco del nemico tirando soltanto al Mersey, e mise sotto il fuoco delle sue artiglierie anche il Severn; anzi, si concentrò su questo quando seppe che il Mersey era fuori combattimento. I pezzi del Königsberg sparavano bene, e i proiettili esplodevano tutto attorno al monitore, che aveva i ponti cosparsi di schegge di shrapnel. Il Severn cessò il fuoco, aspettando che il primo aereo tornasse a dargli la direzione. Quando, alle 12,30, l’apparecchio arrivò, il monitore riprese a sparare, e questa volta la tattica funzionò bene, come si vide fin dalla prima salva.
«Accorciare di 400 metri a sinistra, disse il tenente Cull, e sull’aereo l’osservatore batteva al radiotelegrafo il messaggio per il monitore.
Accorciare di 100 metri, 22 metri a sinistra, fu la seconda segnalazione, e i cannoni regolarono il tiro».
All’ottava salva, il monitore trovò la mira, e da quel momento la battaglia consistette semplicemente in uno scambio di colpi in cui i cannoni del monitore avevano la meglio.
Gli uomini del capitano Looff sparavano con quattro cannoni soltanto, non perché gli inglesi avessero, come essi credevano, messi fuori combattimento gli altri quattro, ma perché il Königsberg era a corto di munizioni. Poiché la traiettoria era molto alta, i proiettili da 152 mm. cadevano pesantemente sui ponti dell’incrociatore, e ciascuno di essi produceva danni gravissimi: i primi distrussero il castello e la coperta di prua, e diversi altri colpirono il ponte di batteria.
Dal suo posto in plancia, il capitano Looff osservava angosciato la sua nave bersagliata dal nemico. Il ponte non era protetto, e gli ufficiali diverse volte lo pregarono di ripararsi sulla torretta corazzata, da cui il tenente Apel dirigeva il tiro dei cannoni; ma il capitano sapeva che questa era l’ultima battaglia del Königsberg e che, se chiedeva a 216 uomini di esporsi al fuoco del nemico e forse di morire per lui, era molto più giusto che rimanesse sul ponte piuttosto che mettersi al riparo, quando c’era ben poco altro che potesse fare.
Poi vennero un paio di colpi precisi, che piombarono con forza a poppa, e sfondarono il deposito delle munizioni, causando un’esplosione a catena, che distrusse gran parte dei proiettili da 105 mm. che ancora restavano. I primi proiettili misero fuori combattimento i cannoni di prua, e fecero una strage in coperta: uno scoppiò in plancia, distruggendola, ferendo leggermente il capitano e strappandogli i vestiti di dosso. La maggior parte degli uomini nella torretta fu ferita, ma il tenente Apel rimase illeso. Qualche minuto dopo un altro colpo mise fuori servizio il telefono della nave. L’incendio a poppa sollevava un’enorme colonna di fumo, e il crepitio dei proiettili piccoli accompagnava il fuoco del Königsberg e il fragore dei colpi sparati dagli inglesi.
All’1,30 la nave era in rovina; gli inglesi l’avevano presa, e la colpivano tenendo semplicemente i cannoni puntati sempre nella stessa direzione: non c’era bisogno né dell’abilità né della scienza balistica che il tiro sul mare richiede per il continuo spostamento degli opposti obiettivi; era come stare in mezzo a un fiume a sparare ai pesci in un barile. Lo scontro non sarebbe stato così unilaterale, se il Königsberg avesse avuto le munizioni necessarie e se il colpo a poppa non avesse distrutto la riserva dei proiettili da 105 mm. All’1,30, la nave era ridotta a sparare con due soli cannoni, e ciascuno aveva soltanto due proiettili. Uno era uno shrapnel e fu riservato per l’aereo: i sottotenenti Niemeyer e Kohtz e il fuochista Kaiser – nessuno dei tre cannoniere – caricarono il pezzo, e con quell’unico proiettile colpirono l’aereo, costringendolo a scendere a precipizio nel fiume fra il Königsberg e i suoi attaccanti. Il fuoco sotto coperta minacciava di estendersi al magazzino a metà della nave e di farla saltare in aria; e il capitano ordinò di inondare le stive, togliendosi così ogni possibilità di continuare la battaglia: ma bisognava scegliere fra questo e correre il rischio di perdere l’equipaggio.
Arrivò un ultimo proiettile, che fece danni gravissimi. Trapassò la cabina, esplose a poppa, dov’era il capitano, che ebbe dozzine di ferite, alcune tanto gravi che gli uomini lo credettero morto. Il primo ufficiale Koch stava per assumere il comando della nave, quando Looff fece segno che era in grado di tenerlo lui. Questo proiettile uccise il valoroso cannoniere dilettante, l’ufficiale marconista Niemeyer, e il fuochista Kayser, e ferì gravemente il tenente Kohtz. L’ultimo cannone era fuori combattimento. Il Königsberg taceva, e in coperta si sentivano soltanto i rumori del disastro. Il capitano Looff, dalla lettiga dove lo avevano disteso i suoi uomini, parlò rapidamente, dando ordini al primo ufficiale Koch. I feriti, compreso il capitano, furono trasportati nelle scialuppe, e dopo di loro scesero i superstiti dell’equipaggio, tranne un pugno di uomini con il primo ufficiale Koch. Questi scese sotto coperta, dove munì di detonatori un paio di teste di siluri per far saltare il fondo della nave. Poi li accese, tolse i percussori ad alcuni cannoni, altri li fece buttare nel fiume, perché il nemico non potesse servirsene. Dopo aver dato un ultimo sguardo attorno, si tuffò in acqua: era l’ultimo a lasciare la nave, perché il suo capitano era stato portato via, più morto che vivo.
Il capitano, mentre si allontanava dalla nave, osservò che la sua bandiera e la bandiera di battaglia erano ancora alte sul pennone, proprio come voleva. Quando arrivò a riva, si volse indietro, e vide il primo ufficiale Koch che nuotava senza darsi pensiero dei coccodrilli. Poi, poco dopo le due, mentre i proiettili inglesi continuavano a fioccargli attorno e le bandiere sventolavano sull’albero contorto, il Königsberg mandò prima un brontolio per l’esplosione dei siluri che aveva dentro, poi il brontolio si trasformò in un boato; la nave si inclinò leggermente a sinistra e andò a fondo. Poco dopo si vedevano spuntare dalle onde soltanto le cime degli alberi, con le bandiere ancora al vento.
I Tedeschi, però, poterono sbarcare tutto ciò che restava dell’armamento e, con esso, rinforzare il magro parco d’artiglieria del generale von Lettow-Vorbeck, il leggendario difensore dell’Africa Orientale Tedesca, che potrà vantarsi di non essere mai stato battuto dagli Alleati: solo il 14 novembre 1918, dopo aver appreso la notizia della resa della Germania, il suo piccolo esercito invitto avrebbe deposto le armi.
Per riuscire a distruggere l’incrociatore leggero tedesco, comunque, i Britannici avevano dovuto tenere impegnate forze cospicue per più di otto mesi, e avevano dovuto sostenere spese e perdite umane e materiali davvero imponenti.
Dall’ospedale della piantagione di Neustieten, a cinque miglia dalla foce del fiume Mbuni, il capitano Looff redasse poco dopo il suo rapporto all’Ammiragliato tedesco, iniziando con queste precise parole: «Il Königsberg è distrutto, ma non conquistato».
E non era una semplice vanteria.
Le perdite tedesche erano state ingenti: tre morti nel primo attacco, quello del 6 luglio, e diciannove nel secondo; complessivamente, 48 uomini erano stati feriti, di cui la metà in modo grave. Altri cento marinai erano stati distaccati, in precedenza, per servire a terra come truppe di fanteria; tutti gli altri membri dell’equipaggio sbarcarono in quel primo pomeriggio dell’11 luglio e si accinsero a riprendere la lotta a terra, per la difesa della colonia, entrando a far parte del piccolo esercito di von Lettow-Vorbeck.
Le operazioni del fiume Rufigi e quelle che ad esse furono collegate – come l’oneroso trasporto dei due monitori dalla Gran Bretagna, attraverso mezzo continente africano -, presentano un alto grado di interesse militare, soprattutto dal punto di vista logistico. Sia i Tedeschi che i Britannici dovettero affrontare le particolari condizioni di una esuberante natura tropicale, con un clima caldo e umido assai difficile da sopportare per degli Europei, la presenza costante di insetti portatori di malattie, e, più di ogni altra cosa, un terreno scarsamente esplorato, povero di strade e ricchissimo, d’altra parte, di ostacoli naturali, con un campo visivo reso estremamente limitato dalla ricca vegetazione pluviale.
Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, i Tedeschi operavano, inizialmente, in condizioni di vantaggio, perché avevano avuto modo di condurre delle efficienti campagne di rilevamento topografico e idrografico proprio alla vigilia della guerra, nel corso delle quali si era particolarmente distinta – come già si è detto – la nave oceanografica Möwe. Ma tale vantaggio venne annullato allorché i Britannici fecero arrivare sul posto l’aviazione, per mezzo della quale l’ultimo nascondiglio del Königsberg poté essere individuato senza scampo.
Dal punto di vista strettamente militare, invece, le operazioni che condussero alla distruzione dell’incrociatore tedesco presentano un interesse minore, perché, a partire da quando gli Inglesi ebbero la certezza che l’incrociatore tedesco si teneva nascosto nel delta del Rufigi, il gioco a rimpiattino era finito e tutto si ridusse a un lungo, estenuante assedio, la cui conclusione era solo questione di tempo. Anche se non avessero potuto far venire dall’Europa i due monitori Severn e Mersey, gli Inglesi sarebbero comunque riusciti a neutralizzare l’avversario, in un modo o nell’altro: o con gli aerei, o con dei dirigibili, o facendo avanzare le artiglierie a terra; o anche, semplicemente, ostruendo l’uscita in mare con altri relitti di navi affondate.
Ma ci sarebbe voluto molto più tempo, molto più denaro e molti più sacrifici di quelli, già notevolissimi, che furono effettivamente necessari per venire a capo del problema rappresentato dalla presenza del Königsberg nelle acque del fiume africano.
Un ufficiale della Marina britannica, E. K. Chatterton, che ha scritto una delle monografie più complete e imparziali di tutta la vicenda dell’assedio e della distruzione finale dell’incrociatore tedesco, ha così ricapitolato i principali aspetti strategici e logistici di quella operazione (La tragica fine del «Königsberg», traduzione italiana di Alberto Tedeschi, Omero Marangoni Editore, Milano, 1933, pp. 236-41):
Queste operazioni nel Rufiji, non hanno, si può dire, paragone nella storia navale, non solo per aver dimostrato come l’attenzione di una intera squadra possa essere sviata da altre sfere di attività, da un incrociatore che sappia avvantaggiarsi di una situazione che lo mette in uno stato di temporanea immunità, ma anche per la strana fusione richiesta dei vecchi sistemi con quelli nuovi. Nessuno avrebbe potuto prevedere che i monitori potessero ricomparire nella Marina, ancora meno che si rendessero indispensabili o che avrebbero lavorato in collaborazione con la più nuova delle armi: l’aviazione. Fino ad allora le spedizioni belliche nei fiumi non avevano avuto altri motivi che la cattura di qualche pirata, o di qualche mercante di schiavi, mentre in verità, questi monitori, nell’avanzare dal mare, stavano proteggendo le linee di traffico nell’Oceano, contro un temibile corsaro. Peraltro, se il Königsberg avesse incontrato i due assalitori dovunque, a mare aperto, avrebbe potuto scegliere la propria distanza e annientare il Severn e il Mersey, in pochi minuti. In tal modo gli intricati canali, la barriera dell’isola e della foresta e tutte le altre difese naturali dell’interno dell’Africa, avevano posto l’incrociatore tedesco in una posizione di svantaggio; dal momento in cui era stato costretto a rinunciare alla mobilità e a strisciare per piccoli corsi di acqua, abbandonando l’Oceano, aveva annullato la propria superiorità. Una volta di più veniva messo in evidenza il punto debole delle grandi e veloci navi da guerra.
Infatti la grande velocità porta la necessità di abbondanti provviste di combustibile, il che a sua volta richiede una base comoda e protetta, alla quale la nave possa far centro per prelevare combustibile e lubrificante. In mancanza di questo, essa abbisogna di un’organizzazione di navi d’approvvigionamento, tanto perfetta da non venire mai a mancare quando le stive dell’incrociatore siano vuote. Ma dove vi è una superiore potenza navale, che detenga il dominio del mare e delle rotte di traffico, il sistema di rifornimenti può essere facilmente impedito; né le carboniere né le altre navi di approvvigionamento possono osare un appuntamento senza correre gravi rischi. Di conseguenza il fato del Königsberg era praticamente determinato, fin dal primo momento, e la sua attività distruttrice doveva forzatamente essere di breve durata. Quando giunsero sul luogo dei modernissimi incrociatori inglesi, dotati di ben fornite carboniere e di basi come Mombasa e Zanzibar, fu possibile vedere che i Tedeschi non avrebbero più potuto ottenere il loro combustibile. L’incrociatore si era effettivamente interrato da solo; il dominio dell’Oceano apparteneva ai suoi rivali, ed era quindi fuori questione che gli potessero pervenire dei soccorsi.
Praticamente, il Königsberg fu dapprima affamato, poi messo nella quasi impossibilità di navigazione, e finalmente menomato, più che distrutto propriamente. Una nave da guerra è uno scafo mobile che porta artiglieria ed equipaggi, ma fino a che i suoi cannoni e il personale sopravvivono e soltanto la sua mobilità è perduta, la vittoria su di essa non è completa. Questa era un’altra curiosa particolarità dell’impresa del Rufiji. Se tutti quei proiettili inglesi, che avevano trovato il bersaglio, l’avessero colpita in un combattimento di mare, essa sarebbe affondata con la perdita di tutte le batterie e di buona parte della ciurma. In altre parole vi sarebbe stata una conclusione definitiva. Ma il Königsberg si era portato in un basso fondo ed era impossibile affondarlo, in qualsiasi circostanza; esso si limitò a immergersi più profondamente nel fango africano, divenendo inamovibile, mentre iu cannoni e gli uomini superstiti divenivano disponibili per altre ostilità.
Di conseguenza quando il capitano Looff il 20 luglio scrisse il suo rapporto dell’azione e concluse con l’affermare che la R. N. Imperiale Königsberg era distrutta, ma non conquistata, vi era nelle sue parole qualche cosa di più di una semplice retorica o di una teatrale ampollosità. Ai suoi ordini rimaneva ancora un pugno di combattenti allenati e disciplinati, la cui resistenza era stata collaudata in dieci mesi di monotono reclusione, variata soltanto da improvvisi assalti nemici. Non vi poteva essere una più dura prova della volontà di vincere di un equipaggio. Il fatto che in mezzo a tante circostanze scoraggianti, alle e incertezze, all’isolamento dal mondo civilizzato, il capitano Looff fosse riuscito a conservare l’efficienza combattiva e l’equilibrio morale del suo equipaggio, costituisce una grande lezione per noi tutti. Si era pensato che la vita, in quell’ambiente impossibile ed in quel clima micidiale, avesse fiaccato le forze tedesche, ma il duello finale delle artiglierie provò il contrario, e i cannonieri dell’incrociatore diedero una splendida prova del loro valore.
Secondo la testimonianza dello stesso capitano Looff i proiettili dei monitori piovvero in un vero diluvio sulla sua nave, l’11 luglio, causando dapprima gravi perdite a prua, il che è perfettamente d’accordo con le dichiarazioni degli aviatori. Nel suo rapporto ufficiale, il Comandante tedesco dichiara che gli uomini addetti ai pezzi e alle munizioni, nella parte prodiera del Königsberg furono tutti uccisi, mentre egli stesso fu seriamente ferito. In seguito si verificò il medesimo disastro a poppa, dove si sviluppò un incendio, con il conseguente scoppio di munizioni, durante il quale si ebbero a lamentare diverse vittime.
In breve il ponte superiore fu in uno stato di devastazione, e tutti gli uomini addetti ai pezzi perirono, per modo che risultò impossibile rispondere ulteriormente ai monitori e gli ultimi due colpi tedeschi erano stati quelli che avevano causato il disastro dell’apparecchio di Cull. Dopo questo il compito dei superstiti del Königsberg non era più quello di combattere, bensì di domare il grave incendio che minacciava di fare più vittime che non il nemico; le stive dovettero perciò essere inondate.
Alla una e trenta del pomeriggio, il capitano Looff che era stato nuovamente ferito, ordinò al suoi secondo di far saltare il Königsberg. Era una decisione penosa, ma inevitabile, e frattanto la nave, che per molti mesi era stata la casa di quegli uomini, veniva abbandonata. Sotto il nostro fuoco, i superstiti sbarcarono, per mezzo delle lance, portando con loro i feriti. Alle due il Königsberg fu fatto saltare, per mezzo di un siluro, che squarciò la nave sotto il ponte prodiero. Lo scafo si inclinò sensibilmente, e affondò fino al ponte superiore; sarebbe rimasto là fino a che la ruggine non lo avesse corroso, simbolo della crudeltà dell’uomo verso il suo simile, ironica lezione di civiltà dell’Europa ai selvaggi primitivi del Rufiji.
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