Molte sono state le polemiche all’uscita del film del regista Renzo Martinelli Barbarossa. Accusato di non rispettare i fatti storici e di aver creato un opera ideologicamente schierata.
In effetti la trama del film non rispecchia in alcun modo quello che venne tramandato dai cronisti contemporanei ai fatti. A ben vedere però l’arte cinematografica ha ben poco a che spartire con lo studio della storia, tanto che nessun film, che pretende di trattare argomenti storici, riesce a realizzare un analisi della realtà storiografica, questo perché la storia e il cinema presentano linguaggi diversi, difficilmente conciliabili. Un film, pur ispirandosi a dati reali deve poi rendere appetibile la trama al pubblico.
Le vicende di Alberto da Giussano, a cui è ispirato il film, rappresentano un mito nato due secoli dopo gli avvenimenti della battaglia di Legnano tra i comuni lombardi e l’impero, ma cosa c’è di vero nel mito?
Per i lombardi nessuna vicenda storica raggiunse mai l’epicità dello scontro contro il Barbarossa. La lotta e le strutture politiche che ne conseguirono diedero ai comuni del regno d’Italia la consapevolezza della loro forza, facendone un episodio fondante delle città stato lombarde. Da qui fiorirono una gran quantità di leggende e miti che, soprattutto nel popolo, si trasmisero per generazioni. Il racconto di Alberto da Giussano alla battaglia di Legnano fu certo il più pregnante di significati.
Della figura di Alberto da Giussano il primo a riportarne le gesta nelle sue cronache storiche fu Galvano Fiamma nel XIV secolo a ben 150 anni dallo svolgimento dei fatti. Non sappiamo a quali fonti faccia riferimento, molte delle quali andarono perse, probabilmente si ispirò anche a tradizioni orali che fiorirono copiose negli anni successivi l’epica vittoria sull’imperatore. Essendo lo storico più vicino cronologicamente ai fatti vale la pena soffermarvisi per cercare di districare il mito dalla realtà. Così scrive lo storico milanese:
“Saputo dell’ arrivo dell’imperatore, i Milanesi ordinarono di preparare le armi per poter resistere. E viene fatta una società di novecento uomini eletti che combattevano su grandi cavalli i quali giurano che nessuno sarebbe fuggito dal campo di battaglia per paura della morte e non avrebbero permesso che nessuno tradisse il comune di Milano; e inoltre giurarono che sarebbero scesi in campo a combattere contro l’imperatore ogni giorno. A quel punto la comunità scelse le armi e il vessillo e ad ognuno venne dato un anello in mano; e vennero reclutati come cavalieri al soldo del comune così che, se qualcuno fosse fuggito, sarebbe stato ucciso. Capo di questa società era Alberto da Giussano che aveva il vessillo del comune. Poi venne fatta un’altra società di fanti scelti per la custodia del carroccio, i quali tutti giurarono di preferire morire che fuggire dal campo di battaglia. E vengono fatte trecento navi a forma di triangolo e sotto ad ognuna c’erano sei cavalli coperti, così da non essere visti, che trascinavano le navi. In ogni nave vi erano dieci uomini che muovevano falci per tagliare l’erba dei prati come i marinai muovono i remi: era una costruzione terribile contro i nemici” (Chronica Galvanica cap. 291 f. 81v).
Sulla battaglia di Legnano Galvano Fiamma riporta la sua versione dei fatti nella seguente maniera:
«Nell’anno 1176, incurante dei tradimenti e contravvenendo il giuramento, l’imperatore desiderava la distruzione della città di Milano. Abbandonata la città di Pavia, entra nel nostro territorio e giunge al borgo di Carate. Soltanto i Pavesi e i Comaschi erano con lui tra tutti gli italici. La Cronaca di Leone narra che arriva tra Legnano e Dairago. Era il giorno terzo prima delle calende di giugno, il giorno della festa dei santi martiri Sisinno, Alessandro e Martirio. Alberto da Giussano aveva il vessillo della comunità e con lui c’erano due fratelli, giganti fortissimi, ossia Ottone e Rainero, che portavano il vessillo per il loro fratello: sempre (gli) furono compagni sulla destra e sulla sinistra. Iniziata la battaglia, dall’altare dei sopraddetti tre martiri vennero viste alzarsi tre colombe e posarsi sull’albero del carroccio. Accortosi di ciò, l’imperatore fuggi terrorizzato. Da allora, quel giorno divenne festa solenne. Messo in fuga l’imperatore, i cittadini di Milano si arricchirono enormemente con il bottino di guerra dei Tedeschi. Venuto a conoscenza della disfatta dell’imperatore, papa Alessandro gioì molto e scrisse a Milano molte lettere esortatorie, perché era più propenso a morire che ad abbandonare la città di Milano” (Chronica Galvanica cap. 294 f. 82v).
Lo storico di epoca viscontea presenta Alberto impegnato nell’importante ruolo di alfiere a cui era affidato il vessillo riferimento per i cavalieri di Milano. Solo nel XVI secolo con il Corio il guerriero lombardo sarebbe diventato il comandante della compagnia della morte.
In Galvano Fiamma la figura di Alberto pare idealizzata. Alberto difendeva il vessillo insieme ai suoi due fratelli, Otto e Rainiero, cosa normale per l’epoca che un piccolo gruppo di armati fosse designato all’esclusiva difesa del vessillo da cui dipendeva la compagine degli armati. Essi sono di aspetto gigantesco e qui si raccoglie forse una remota tradizione che vede i Galli Insubri, gli antichi abitanti di Milano, come giganteschi e bellicosi. Polibio li descriveva alti, belli e ottimi soldati, così come Giulio Cesare ne apprezzava la disciplina e la prestanza fisica, e anche la loro dote naturale ad organizzarsi militarmente, ciò dovuto anche a causa della posizione strategica di Milano.
A quello della statura, vera o presunta dei tre eroi, nel racconto di Galvano Fiamma si associava il mito della triade, numero sacrale dalle remote origini indoeuropee. Tre erano gli eroi a guardia del vessillo rappresentante la città di Milano, tre i santi milanesi a cui venne dedicata la vittoria e tre le colombe che, per intervento divino, fecero perdere la battaglia al Barbarossa. Persino i corpi speciali che combatterono a Legnano erano tre; la compagnia della morte, la guardia del Carroccio e i carri falcati.
Un’altra tradizione di origine indoeuropea e, in particolar modo germanica, si ritroverà legata nella compagnia della morte che Galvano Fiamma, ma ancor più nel Corio, era rappresentata come una società di guerrieri che seguivano il loro capo legati da giuramenti sacri che li votava ad una causa ben precisa, oltre al sacrificio della propria stessa vita. E’ chiaro che la tradizione della compagnia della morte si formò in tempi successivi a Legnano, nell’aurea di leggenda e di apologia che seguì la battaglia negli ambienti milanesi del secolo successivo, in un epoca di forti conflitti tra guelfi e ghibellini dove fiorivano le societates militari e religiose, in particolare quelle legate a circoli penitenziali e di carità cristiana.
Che il racconto di Galvano Fiamma fosse imperniato su una visione mitologica ed escatologica degli avvenimenti lo ritroviamo anche nell’anacronismo dei carri falcati inseriti nella sua cronaca, ma, in realtà, realizzati da mastro Guitelmo e utilizzati nella campagna tra Rho e Legnano nel 1160, senza per altro caratterizzarsi di una particolare efficienza bellica.
Infine la figura di Alberto da Giussano, ingigantita da Galvano Fiamma e dagli storici successivi, doveva essere anche una risposta da parte milanese e, poi, italiana alla figura del Barbarossa che, il giorno di Legnano, ebbe a combattere valorosamente come una furia, coprendosi di gloria.
Storicamente vi è da segnalare un Alberto, ma da Carate, che era tra i consoli di Milano all’epoca della battaglia di Legnano e successivamente, nel 1177, rettore sempre per la città milanese. Così come era stato tra i firmatari del patto istitutivo della Lega nel marzo del 1167, insieme ad un altro delegato milanese, Alberto Longo. Che Galvano Fiamma abbia voluto, deliberatamente, cambiarne la provenienza per ragioni personali è difficile crederlo. Considerando anche che le due figure, quella narrata dallo storico e quella ritrovata sui documenti coevi alla battaglia furono personaggi del tutto diversi. Mai Galvano Fiamma attribuisce un magistero particolare al suo Alberto da Giussano, cosa che invece avrebbe potuto fare per accrescerne l’importanza.
In realtà vi era un Alberto de Gluxano, cioè da Giussano, il cui nome compare in una pergamena attribuita da alcuni storici agli anni finali del secolo, per la precisione il 1196, in cui, assieme ad un elenco di nomi per una supplica al vescovo di Milano degli abitanti di Porta Comacina, vi si legge anche quello di Alberto. La coincidenza di questo Alberto con quello descritto da Galvano Fiamma è comunque speculativa, non essendoci nessuna prova o conferma a riguardo.
Sappiamo però che la famiglia guelfa dei da Giussano era una realtà storica ben documentata fin dal IX secolo, quando i da Giussano ebbero il prestigioso incarico di accogliere solennemente l’arcivescovo di Milano Ansperto da Biassono, il 20 giugno 869, scortandolo sino alla basilica di Sant’Ambrogio.
I da Giussano furono quindi una ricca famiglia della feudalità minore proveniente dal lontano contado milanese, il “Castrum de Gluxiano”, che, come la maggior parte della nobiltà milanese, era stata fatta venire, con le buone o con le cattive, a risiedere in città, dove le famiglie nobili realizzavano case fortificate appropriandosi d’intere porzioni di quartieri chiusi all’esterno vivevano così con i loro, famigli, cioè; famigliari, servi e protetti a loro fedeli. Al tempo della guerra con il Barbarossa i da Giussano, oltre alle terre avite, possedevano proprietà e palazzi a Milano, risiedendo nel quartiere di San Bartolomeo, appartenente alla contrada di Porta Nuova, dove si schieravano in tempo di guerra. Un Otto da Giussano era presente in documenti legali del 1183 e successivamente del 1190, e, anche se, niente indica che possa essere il fratello del più famoso Alberto, non si può neppure escluderlo. La famiglia guelfa dei da Giussano, dopo aver ricoperto importanti incarichi nell’amministrazione milanese nei secoli successivi a Legnano, si estinse nel XVIII secolo e i documenti di famiglia andarono purtroppo irrimediabilmente perduti. Nulla però vieterebbe che un rappresentante della nobile famiglia abbia militato nella cavalleria milanese durante la battaglia di Legnano. Ne ci sarebbe da stupirsi se un da Giussano possa avere avuto l’onore di combattere come alfiere, protetto dai suoi fratelli, e, magari, anche di distinguersi nel duro scontro di quella giornata di fine maggio. Se poi le gesta del nobile cavaliere vennero tramandate oralmente per poi essere riprese e rielaborate da Galvano Fiamma non è dato sapere. Troppo diverso il racconto da Chansons de geste tramandatoci dallo storico del trecento da quello che effettivamente avrebbe dovuto essere il vero Alberto da Giussano, la cui figura storica rimarrà per sempre un mistero.
Successivamente il mito di Alberto da Giussano si evolse contemporaneamente con l’epoca storica in cui il mito e le vicende della battaglia venivano raccontate e di volta in volta riadattate. Dal racconto escatologico di Galvano Fiamma si passò all’esaltazione del mito della cavalleria del Corio, in un’epoca infarcita di poemi cavallereschi, per poi arrivare alla rielaborazione risorgimentale dove il nostro eroe venne considerato un patriota antesignano della causa d’indipendenza dal dominio tedesco.
I miti sono parte integrante della storia dei popoli ed è ad essi che si fa riferimento nelle vicissitudini politiche pur riadattandone i contenuti e prescindendo dalla realtà storica da cui tali miti provengono. Basti pensare alla resistenza e al suo mito, necessario per legittimare la nascita e l’esistenza della Repubblica Italiana, mito che in realtà ha poco a che vedere con la complessa realtà storica.
Oggi, in un epoca nella quale gli Stati nazionali hanno sempre minor peso a favore delle istituzioni globalizzate, il mito di stampo nazionalista di Alberto da Giussano è passato ad indicare una volontà di rivolta alla globalizzazione in senso identitario, favorevole alle comunità locali all’interno di organismi sovranazionali che ricordano il Sacro Romano Impero dell’epoca del Barbarossa. Così, nel suo film, Martinelli ridà al mito di Alberto da Giussano un significato che, più di altri in passato, si avvicina alla realtà dei fatti di quel particolare periodo storico in cui non si contestava l’imperatore o l’impero ma si chiedeva una maggior autonomia politica e fiscale.
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