LEICHHARDT Ludwig. Esploratore tedesco, nato a Trebitsch nel 1813, morto nel 1848 nel deserto australiano, all’interno del Queensland. Al principio del 1848 partì con l’idea di riconoscere il corso del fiume Swan, in compagnia di cinque bianchi e due indigeni. Il 3 aprile giunse l’ultima lettera scritta dal fortino di Macperson, sul fiume Coogan, poi più nulla si seppe dell’esploratore. Una spedizione di soccorso organizzata nel 1851 non dette alcun risultato. Nel 1856 una seconda spedizione guidata da Gregory riuscì a scoprire avanzi di un accampamento presso lo sbocco dell’Elsey Greel nel Victoria e una terza spedizione guidata da Forrest nel 1869 trovò altre tracce. Nel 1890 l’inglese Carnegie condusse una quarta spedizione e riportò prove inconfutabili per asserire che l’esploratore e i suoi compagni erano stati uccisi dagli indigeni dell’interno. Bibl.: C. D. Cotton, Ludwig Leichhardt and the Great South land, Sydney, 1938.
(Da: Silvio Zavatti, Dizionario degli esploratori e delle scoperte geografiche, Milano, Feltrinelli, 1967, pp. 170-171).
Era un tipo strano, Ludwig Leichhardt.
Renitente alla leva e disertore dell’esercito più severo del mondo, verrà perdonato dal governo di Berlino dopo che il suo nome, improvvisamente, era divenuto celebre nell’altro emisfero della Terra.
Eppure non aveva l’aria dell’esploratore; e, soprattutto, non ne aveva la mentalità e la preparazione; almeno secondo gli standard comunemente accettati. La sua “tecnica”, si fa per dire, consisteva nel buttarsi all’avventura, improvvisando e affidandosi soprattutto alle risorse di un coraggio temerario, quasi suicida. Giudicato con il metro dei moderni esploratori “scientifici”, ci appare una via di mezzo tra un desperado tranquillo e un kamikaze.
Eppure, strano a dirsi, alla fine i suoi metodi funzionavano: e buona parte della carta geografica dell’Australia nord- orientale, da Sidney al Golfo di Carpentaria, è stata disegnata per merito dei suoi viaggi stralunati.
Non pareva avere neanche il fisico dell’esploratore: con il corpo sottile e il volto da fanciulla, era esattamente l’opposto del rude avventuriero degli spazi inviolati, barbuto e muscoloso. E invece, a dispetto della sua aria mite e un po’ allucinata, possedeva una resistenza fisica e psicologica incredibile: sopportava il caldo e la fame, la stanchezza e la tensione nervosa con uno stoicismo che ha del sovrumano. I suoi occhi, incredibilmente azzurri, sembravano vagare in una dimensione altra, tanto più che era afflitto da una fortissima miopia. L’orizzonte, per lui, era il grande mistero da svelare: e questo era tutto.
Della gloria e della fama gli importava poco, e ancor meno si interessava dei vantaggi economici che le sue scoperte avrebbero recato ad altri – a cominciare dagli allevatori di bestiame e dai commercianti di Sidney, desiderosi di trovare una comunicazione diretta, via terra, con l’Asia sudorientale. Non l’avrebbero trovata: ma i pascoli scoperti da Leichhardt, bene irrigati dall’acqua di numerosi fiumi, si sarebbero dimostrati, nel corso del tempo, il vero oro dell’Australia: un giacimento assai più redditizio di qualunque commercio.
Leichhardt guidò la sua prima spedizione nell’interno del continente australiano nel 1844-45, giovane di trentadue anni; a trentacinque condusse la seconda e ultima, quella da cui non sarebbe più tornato. I tipi come lui non diventano mai vecchi.
«Figura eccentrica che inalberava un cappello da coolie malese e una sciabola (aveva un sacro terrore per le armi da fuoco), Leichhardt era assolutamente inadatto per il comando di una simile spedizione. La maggior parte dei suoi due anni in Australia erano stati trascorsi a Sidney; il suo senso di orientamento e capacità di vita nella boscaglia erano minimi; era anche estremamente miope. Non fosse stato per le guide aborigene, Charley Fisher e Harry Brown, avrebbe difficilmente raggiunto il suo scopo. Di una qualità tuttavia non mancava: il coraggio». Così lo descrive Eric Newby ne Il grande libro delle esplorazioni (titolo originale: The Mutchell Beazley World Atlas of Exploration, traduzione Riccardo M. degli Uberti, Milano, Vallardi, 1976, 1991, p.231).
Era partito nell’ottobre del 1844 dalla baia di Morteon nei pressi di Brisbane, deciso ad aprire una pista fino alla lontanissima Port Essington, sulla costa settentrionale. Gli uomini della spedizione portavano ciascuno un vaso della capienza di circa nove litri, più un litro circa di razione individuale. Ciò significa che, per non morire di sete nella boscaglia, non avrebbero mai dovuto allontanarsi dal corso dei fiumi. E questo fu, infatti, il semplice ma geniale segreto del successo della prima spedizione: tenersi sempre nelle vicinanze dell’acqua.
Il 7 ottobre, Leichhardt raggiunse il fiume Condamine, marciò a nord-ovest sino al fiume Dawson; quindi, dopo quattro mesi di marcia attraverso un aspro territorio montuoso, raggiunse il fiume Burdekin. Da quel punto, approfittando dell’alveo del fiume Lynd, nel giugno del 1845, dopo nove mesi di marcia massacrante, la piccola colonna giunse sulle rive del fiume Mitchell, che sfocia nel grande Golfo di Carpentaria; e fu lì che il naturalista John Gilbert cadde ucciso dagli aborigeni. Un incidente senza dubbio molto sfortunato, perché gli aborigeni, solitamente, non erano aggressivi e, anzi, in più di una occasione furono proprio loro a salvare gli esploratori bianchi che si addentravano, partendo da varie direzione, nel cuore del continente australiano.
Da lì in avanti, Leichhardt non dovete fare altro che costeggiare, da sud, quell’amplissimo golfo, che sembra incidere a fondo il versante settentrionale dell’Australia, rivolto verso la grande isola della Nuova Guinea. Una regione equatoriale più ricca di vegetazione, mano a mano che si procede verso settentrione, e solcata da una serie di fiumi che sfociano nel golfo, i quali dovettero essere guadati l’uno dopo l’altro; ma che, intanto, fornivano agli uomini un regolare rifornimento della preziosissima acqua dolce.
Penetrata nella Terra di Arnhem, la spedizione giunse infine a Port Essington, la meta prefissata, da cui fece ritorno a Sidney via mare (cfr. Anton Mayer, 6.000 anni di esplorazioni e scoperte, trad. italiana di R. Caddeo, Milano, Bompiani, p. 285). L’intero viaggio era durato esattamente diciotto mesi: un anno e mezzo. Anche se l’obiettivo primario della spedizione – stabilire un collegamento diretto e relativamente agevole fra Sidney e Port Essington – non si può dire che venne raggiunto, in compenso l’ardimentosa marcia del giovane tedesco aveva spalancato enormi possibilità di sfruttamento zootecnico del territorio. Nei suoi Diari, Leichhardt scrisse che quello da lui scoperto si presentava come «un paese eccellente, disponibile, pressoché in tutta la sua estensione, a scopi di pastorizia» (cit. in E. Newby, Op. e loc. cit.).
La seconda spedizione, quella fatale, si mosse verso l’interno nell’aprile del 1848, dalla stazione di McPherson sulle Darling Downs. L’intenzione di Leichhardt era quella di seguire la pista già aperta dal maggiore inglese Thomas Mitchell sino al fiume Victoria; quindi puntare dritto a nord, fino al Golfo di Carpentaria; da lì, poi, si sarebbe spinto fino alla costa occidentale e, a sud, fino allo Swan River.
Un progetto semplicemente pazzesco; tuttavia non erano pochi a scommettere che anche questa volta quello strano tedesco armato di sciabola e poco pratico nell’uso della bussola ce l’avrebbe fatta, lasciando a bocca aperta tutti quanti.
In fondo, Leichhardt non doveva essere poi così matto come sembrava. Per gli Inglesi, e specialmente per i dirigenti della sezione di storia naturale del British Museum, a Londra, egli era niente di meno che un distinguished Scholar, ossia uno «scienziato di valore»: appellativo che quei professori non sono soliti concedere alla leggera. Se, come naturalista, godeva di un tale credito presso gli ambienti scientifici della madrepatria britannica, i rudi coloni australiani erano propensi a concedergliene anche loro, come esploratore. In fondo, uno che progetta di attraversare l’intero continente, da un capo all’altro, non può essere che una persona notevole: un pazzo, forse; ma un pazzo ammirevole e degno di tutto rispetto.
Invece Leichhardt e i suoi compagni svanirono nel nulla: come se l’immenso continente li avesse risucchiati nel vuoto. Sulle rive del fiume Victoria (allora chiamato Barcoo) vennero, più tardi, ritrovate le tracce di due suoi accampamenti; ma null’altro. Si disse, in seguito, che l’intera spedizione era caduta sotto le lance e le mazze degli aborigeni, ma non ne esiste la certezza assoluta. Permane tuttora un’aura di mistero.
Leichhardt, dunque, è finito così, come doveva finire; con il senno di poi, saremmo portati a dire: come era inevitabile che finisse. Altri esploratori sono scomparsi nel nulla, come l’italiano Guido Boggiani – ai primi del Novecento – nel Deserto del Chaco, nel cuore del Sud America (cfr. Francesco Lamendola, Ricordo di Guido Boggiani, pittore-esploratore). Leichhardt, però – in un certo senso – si può dire che sia stato l’ultimo esploratore romantico, e romantica è la sua fine misteriosa.
Con quell’aria stranita e un po’ incongrua, disarmata e volitiva al tempo stesso, deve aver esercitato un certo fascino sulle donne. Non è una congettura puramente gratuita; abbiamo alcuni elementi per sostenerla.
Laura Trevelyan, la protagonista del romanzo L’esploratore (titolo originale: Voss, London, 1957; traduzione italiana di Piero Jahier, Torino, Einaudi, 1965), scritto da uno dei maggiori narratori australiani del Novecento, Patrick White, è una donna altera e inaccessibile, ma, davanti a quella versione germanica dell’eterno mito di Don Chisciotte, s’infiamma di amore a prima vista. Lui è il tedesco Johann Ulrich Voss, colui che vuole attraversare l’Australia inesplorata da un capo all’altro: chiaramente, un personaggio ricalcato sulla figura storica di Ludwig Leichhardt. Se ne innamora perdutamente, disperatamente, proprio perché intuisce in lui la caratteristica fondamentale del disinteresse: l’esploratore venuto dalla lontana Prussia non è in cerca di fama o di ricchezze, ma solo ed esclusivamente di orizzonti incontaminati. Ed è un amore disperato, appunto perché Voss-Leichhardt non cerca nulla, non desidera nulla dai suoi simili, neanche da una donna bella e intelligente come Laura Trevelyan. A riempirgli la vita bastano i suoi sogni, i suoi miraggi, la sua tensione esistenziale verso una dimensione segreta dell’esistenza. In fondo, sono due solitudini che si sfiorano, si riconoscono, si allontanano reciprocamente, dopo essersi riscaldate, per un attimo, alla dolce fiamma di una profonda, segreta comprensione reciproca.
Poi, c’è la scrittrice tedesca Ruth Park – viaggiatrice e autrice di un buon libro sulla storia e la geografia dell’Australia, Der Goldene Bumerang – che, quando s’imbatte nella figura del suo enigmatico connazionale, abbandona il tono pratico e l’abituale stile giornalistico, lasciandoci intravedere una autentica infatuazione per quel giovane solitario che, come Alessandro Magno, ha lasciato il mondo degli uomini per spingersi più in là di chiunque altro. Leggendo le pagine che ella dedica alla figura e all’impresa, epica e tragica, di Leichhardt, è difficile sottrarsi all’impressione che abbia finito per innamorarsi anch’ella, almeno un poco, di quel bizzarro giovane che non cercava l’amore, né alcun altro tipo di riconoscimento, e che sembrava tenere in così poco conto la sua stessa vita – almeno a giudicare dalla nonchalance con cui la metteva a repentaglio, avventurandosi in imprese che, più che azzardate, avevano qualcosa di suicida.
Le donne non resistono al fascino dell’uomo che non le cerca affatto. Scrive dunque Ruth Park nel suo libro L’Australia (titolo originale: Der Goldene Bumerang, Carl Schünemann Verlag., Brema; traduzione italiana di Ippolito Pizzetti, Milano, Grarzanti, 1960-1964, pp. 86-91), tratteggiando questo suggestivo e commovente ritratto dell’esploratore tedesco, uno degli esploratori maggiormente sui generis della storia:
«Non era certo ghiotto di carne di manzo, era un buongustaio, aveva uno stomaco molto delicato, e solo in caso di necessità era capace, disprezzando la morte, di nutrirsi per interi mesi di volpi volanti la cui carne è così fetida, che è difficile farla mangiare ad un cane affamato. E non aveva nemmeno l’aspetto dell’eroe; era un ragazzo alto e sottile, con un volto da fanciulla, che durante le sue spedizioni portava in testa il cilindro. Mi sembra di vederlo, col suo gestire svolazzante, con gli occhi celesti come il cielo, con la sua splendente capigliatura castana e, da non scordarsi, con la sua cassettina da erborista a tracolla.
E tuttavia era un eroe, una specie di Don Chisciotte. In testa gli frullavano le idee a centinaia, come farfalle. E lo straordinario è questo: molte di tali idee svolazzanti egli riuscì a tradurre in realtà pratiche, in imprese che, come s’addice a un eroe, compiva per gli altri. (…)
Leichhardt era un esploratore e non gli interessava cosa avrebbero fatto i posteri delle terre da lui scoperte. È probabile che non si sia mai reso conto del dono che fece all’Australia: pascoli di una vastità mai sognata. In realtà non è stato Leichhardt lo scopritore di quelle terre, ma coloro che, più tardi, sono andati alla ricerca di lui. A dirla così, sembra una storia piuttosto complicata, e in realtà lo è davvero.
Più di cent’anni fa [ossia nel 1848, nota nostra], sei bianchi e due esperte guide indigene, quarantanove buoi, un numero imprecisato di cavalli e di muli, un carico di materiale per la tosatura, una dozzina di barattoli per le raccolte botaniche, mille libre di farina, cinquanta libbre di zucchero, due cassette di tè e una certa quantità di gelatina. Di tutto ciò nulla è rimasto, e nessuno ne ha mai trovato traccia, o ne ha più udito parlare.
Per quanto fantastica possa apparire la scomparsa di tutto il suo corpo di spedizione, una leggenda già di per se stessa, quest’uomo è realmente esistito una volta, non è improvvisamente balzato fuori dalle pagine di un libro di avventure, ma appartiene ad un mondo storico, ed è stato egli steso – a suo modo – un artefice di storia…
Leichhardt giunse a Sydney nel 1841. In Prussia si era sottratto al servizio militare e si era visto costretto a fuggire come un ‘disertore’. Era un uomo di un coraggio che rasentava la temerarietà, e il suo modo di concepire una spedizione sconcertava gli esperti. Ma la fortuna lo assistete quasi fino all’ultimo. Non appena giunto nella Nuova Galles del Sud, cominciò immediatamente a raccogliere nelle foreste abitate dagli indigeni campioni di rocce ed altri oggetti di interesse scientifico. Li mandò quindi in Inghilterra al celebre naturalista Richard Owen, direttore del settore di storia naturale del British Museum. Così Leichhardt riuscì in poco tempo a farsi la fama di esploratore efficiente e pieno di iniziativa. E tale fama gli procurò appoggi ed equipaggiamento per la sua prima grande spedizione.
A quei tempi la carta dell’Australia era ancora piena di spazi bianchi. Qui e là la costa era disegnata con precisione, ma il centro del continente era ancora completamente ignoto. Solo sul promontorio più settentrionale della Terra di Arnhem – a occidente del gigantesco golfo rettangolare di Carpentaria – sorgeva una base militare, che si chiamava Port Essington. Era una base piuttosto remota. La popolazione di Port Essington si componeva in gran parte di abitanti di Sidney, venuti dalle caserme e dalle prigioni della ancor turbolenta colonia. In un clima in cui ogni specie di cereali, canna da zucchero, riso, tamarindi, e piante tropicali prosperano magnificamente, gli uomini languivano malati, neri di scorbuto e arsi dalla febbre…
Port Essington ha una porta d’accesso principale: il mare. Ma il viaggio via mare fino alla base più vicina durava mesi e mesi. Possibile che non ci si possa arrivare via terra? Leichhardt non esita un momento. Sa di essere in grado di trovare la strada, è sicuro che arriverà alla meta. Col suo frack e il suo cappello a cilindro, con la sua cassettina da erborista a tracolla, si mette in cammino.
Lo assiste una fortuna incredibile.. Nessun altro esploratore del continente australiano ha mai avuto una fortuna pari a quella di Leichhardt in questa occasione. Il suo piano è semplice: punta a nord e si mantiene costantemente a circa centocinquanta chilometri dalla costa. I tremendi cicloni lo risparmiano, nei letti sabbiosi e asciutti dei grandi fiumi nessuna piena improvvisa lo travolge.
Sfiora le vaste lagune coperte di ninfee dove sono in agguato i coccodrilli. Vede volare gi ibis e raccoglie per i suoi mecenati europei piante con le figlie simili al cuoio. Segue il corso dei grandi fiumi che coprono questa regione dell’Australia come una rete argentea. Questa volta sono più pieni d’acqua del solito. Leichhardt non immagina che i letti sono spesso asciutti, che non sempre milioni di uccelli acquatici ne popolano le rive, che non sempre le piante fioriscono con una opulenza come mai gli è capitato di osservare in Europa. Furono le ottimistiche conclusioni a cui pervenne in seguito a questa spedizione che, più tardi, lo rovinarono…
Spesso compaiono improvvisamente gli indigeni, ombre dipinte di ocra, simili a scheletri nella penombra nebbiosa della foresta vergine. Ma Leichhardt non teme gli indigeni. Cerca in tutti i modi di mostrarsi loro amico. A volte osano accostarsi, alcuni portano doni, viveri. Leichhardt pone il campo presso una laguna di liliacee a sud-est del golfo. Mentre i suoi uomini si dispongono al sonno, improvvisamente cade su di essi una pioggia di giavellotti. Sono capitati nei territori di caccia di una tribù bellicosa. Gilbert, che raccoglie esemplari per il celebre ornitologo inglese John Gould, è ferito a morte. Gli altri afferrano i fucili e fanno fuoco nel fitto della boscaglia. Leichhardt è l’unico a non sparare: ci vede troppo poco. Ma per il seguito del viaggio non verranno più molestati e finalmente, dopo quindici mesi, raggiungono Porto Essington.
Durante gli ultimi duecento chilometri di marcia hanno vissuto della carne delle volpi volanti e di ‘pelli verdi’, cotte, vale a dire, pelli non ancora lavorate. La strada che Leichhardt aveva scelto con il suo intuito di esploratore dilettante, si rivelò, tra l’altro, utile per il trasporto del bestiame.
La seconda spedizione di Leichhard fu una follia. Un’audacia temeraria non basta come lasciapassare per l’inferno. Perché questa volta si trattava proprio di un viaggio all’inferno, attraverso i deserti roventi dell’Australia centrale. Leichhardt voleva attraversare il continente in linea retta da levante a ponente. Noi che oggi conosciamo bene le insormontabili difficoltà che si oppongono all’attraversamento di questo deserto privo di alberi e di acqua, non possiamo fare a meno di rabbrividire al pensiero di una simile impresa. È poco probabile che Leichhardt sia penetrato profondamente in questa regione maledetta. Qualcuno afferma che Leichhardt potrebbe anche avere raggiunto l’Australia occidentale; se il caso ha fatto sì che si siano succedute diverse stagioni favorevoli, cosa che non avviene molto spesso, la traversata non è impossibile. Ma coloro che parlano così sono gente abituata a viverci, in quell’ambiente; è gente che conosce bene il deserto, mentre Leichhardt era nuovo a queste esperienze. Fino a quel momento la fortuna lo aveva assistito.
Il primo tentativo si concluse con un fiasco. Dopo sei mesi Leichhardt e i suoi uomini ritornarono affamati, avendo perduto tutto il bestiame, al fiume Condamine nel Queensland, donde erano partiti.
Leichhardt non si scoraggiò. Si diede subito a preparare una nuova spedizione. Nessuno degli uomini che avevano partecipato alla prima, o alla seconda fallita, accettò di tornare con lui. Ne avevano avuto tutti abbastanza. Ma Leichhardt non si perse d’animo per questo. La sua spedizione fu vista per l’ultima volta nel 1848, mentre attraversava un ruscello a occidente del fiume Condamine. Dove lo condusse il suo cammino? Dove si fermò per non più procedere? Scomparve tra le tempeste di sabbia o nelle foreste dell’interno, dove le profonde fosse piene d’acqua vengono coperte così abilmente dagli indigeni che nessuno, tranne i selvaggi abitatori di questo paese selvaggio, riesce a ritrovarle?
Non sappiamo nulla della fine di Leichhardt. Le distanze erano così grandi, le comunicazioni così cattive, che soltanto due anni e mezzo più tardi Leichhardt fu finalmente dato per perduto. L’esploratore scomparso divenne la meta di ricerche continue. Nulla fu trovato tuttavia che potesse illuminare sul destino di Leichhardt. Ma per la perdita di un uomo, senza che nessuno se ne avvedesse, gli altri fecero un grosso guadagno: il paese fu percorso in tutte le direzion, a nord e a nord-ovest e si scoprì che era possibile trasportare le mandrie più all’interno. Gradatamente cominciò a riempirsi sulle carte lo spazio bianco che occupava il centro dell’Australia.
I coloni che abitano oggi le zone dove s’avventurò la spedizione, pensano che la misteriosa scomparsa di Leichhardt possa spiegarsi in due modi. A volte egli usava mettere il campo in mezzo al letto asciutto di un fiume. Non aveva mai visto l’onda gigantesca che si precipita per il letto asciutto, inghiottendo ogni cosa sul suo cammino, quando a molti chilometri di distanza cade un improvviso acquazzone. E può anche darsi che una di queste onde abbia sorpreso improvvisamente nel sonno il campo, annegando gli uomini e coprendo le suppellettili metalliche sotto metri e metri di sabbia.
L’altra teoria è che la spedizione possa essere stata assalita dagli indigeni e sterminata. I selvaggi, credendo probabilmente i cadaveri e le suppellettili carichi di pericolosi influssi magici, potrebbero aver gettato ogni cosa in una buca profonda.
Ma chi può saperlo? Siamo ancora molto lontano dall’aver rivelato tutti i segreti dell’Australia. Proprio mentre scrivo [cioè, alla fine del anni Cinquanta del Novecento] hanno scoperto nel centro del continente una fertile pianura. È abitata da indigeni che non avevano mai visto un bianco prima d’ora».
Annegato, trucidato o morto di sete e di stenti: in fondo, che importanza ha? Leichhardt è uno di quei personaggi che continuando a eludere il nostro compulsivo bisogno di sapere, di svelare, di chiarire una volta per tutte.
Molto diverso da Alexander von Humboldt, il suo connazionale esploratore del Sud America, e anche dai suoi più famosi colleghi che si spinsero nell’interno dell’Africa – Rohlfs, Schweinfurth, Nachtigal, dei quali ci proponiamo di tornare a parlare altra volta – Leichhardt si staglia solitario, avvolto da un velo di malinconia, enigmatico, inafferrabile.
In questo consiste il suo fascino, che la distanza di tempo non attenua. Egli è stato un pioniere solitario non solo dei viaggi di scoperta del mondo intorno a noi; ma anche, in un certo senso, dei viaggi di scoperta dentro di noi, nel cuore dell’animo umano, dove palpitano e tremolano mille domande senza risposta, mille inquietudini senza un perché.
Lascia un commento