Per mia distrazione, nelle scorse settimane l’intero database di questo blog è andato perso. Mi sarebbe dispiaciuto dissipare gli appunti che avevo preso negli anni passati, così ne ho ricostruito le pagine principali con una macchinosa operazione di copia-e-incolla dalla waybackmachine, che spesso in passato mi era già risultata utile, specialmente per ricercare articoli non più reperibili sul web.
Si sono persi i commenti sotto gli articoli, i temi e plugin di wordpress, diverse immagini e link, ma i contenuti principali li ho recuperati.
Chissà se sarà l’occasione per rivitalizzare questo spazio?
Dopo un nuovo periodo di inattività aggiorno il blog per segnalare un’ulteriore novità romualdiana alla quale, su gentile invito del prof. Renato Del Ponte, ho collaborato nei mesi scorsi.
È infatti appena uscito, per le Edizioni Arya di Genova, Lettere ad un amico, che raccoglie la corrispondenza di Adriano Romualdi con Emilio Carbone del periodo 1967-1971, oltre a diversi documenti inediti e fotografie. Il prof. Del Ponte, curatore del libro, ha scritto una lunga e interessante premessa; io ho curato l’introduzione e la bibliografia in calce.
Due lettere di questo epistolario erano state pubblicate dieci anni fa sull’ultimo numero di «Algiza» (16/2003, p. 4); altre due nel 1998 su «Arthos» (3-4/1998, pp. 121-125).
Il volume conta 176 pagine e costa 20 euro; può essere ordinato direttamente all’editore o reperito presso queste librerie.
Dopo una gestazione durata circa un decennio è uscita per Settimo Sigillo la nuova edizione del saggio di Adriano RomualdiCorrenti politiche e ideologiche della Destra tedesca 1918-1932, da me curata e introdotta. E’ stato aggiunto il sottotitolo La Rivoluzione conservatrice: forse si sarebbe potuto audacemente utilizzarlo come titolo, probabilmente più semplice e memorizzabile, ma alla fine si è preferita la continuità, mantenendo quello della prima edizione.
Il libro costituisce la rielaborazione della tesi di laurea in storia contemporanea di Romualdi, discussa nel 1968 (in maniera semiclandestina) con Renzo De Felice e Rosario Romeo; la prima edizione fu pubblicata postuma nel 1981 dal padre Pino per le Edizioni de L’Italiano.
Questo l’indice del libro:
La Germania di Adriano Romualdi (Alberto Lombardo) Prefazione (Franco Petronio) I. La “rivoluzione conservatrice”: correnti ideologiche e politiche della Destra all’epoca della Repubblica di Weimar Delimitazione spazio-temporale della “rivoluzione conservatrice” tedesca La “rivoluzione conservatrice” nella realtà sociale tedesca La “rivoluzione conservatrice” nella realtà europea dell’epoca Suddivisioni e correnti in seno alla “rivoluzione conservatrice” La letteratura sulla “rivoluzione conservatrice” La “rivoluzione conservatrice” in relazione al nazionalsocialismo Saggi d’interpretazione della “rivoluzione conservatrice” II. La guerra mondiale e la “crisi dell’ideologia tedesca” III. La critica alla Repubblica di Weimar: Moeller van den Bruck, il “Terzo Reich” e l’orientamento verso Est IV. Oswald Spengler e i circoli neo-conservatori V. Il movimento giovanile tedesco e le utopie neo-romantiche VI. Le formazioni paramilitari e lo “spirito del fronte” Appendice bibliografica Indice dei nomi.
Il libro conta 182 pagine e costa € 20,00; può essere ordinato alla Libreria Europa.
Le Lettere a Mircea Eliade di Julius Evola, oltre all’evidente interesse che rivestono, hanno il merito di rimettere ordine nella questione dei rapporti tra i due studiosi, che sono oggetto di pubblicazioni da molti anni: i tanti saggi pubblicati sull’argomento, che avevano finito per rendere un po’ caotica la materia, vengono qui ben riepilogati.
Ho finalmente letto un libro che avevo desiderato per anni, Il nomos della terra di Carl Schmitt. E’ veramente un testo che chiarisce concetti, stabilisce nessi, sviluppa idee, spaziando in molti campi diversi. Nella forma è un libro di storia del diritto internazionale, ma nella sostanza è un libro di filosofia politica. Ed è particolarmente rilevante per l’evidenza odierna del trapasso del diritto internazionale classico e l’ascesa di un nuovo diritto, se ancora si può chiamare così, che non ha più nomos – il suo fondamento territoriale – ma la cui radice ultima sembra essere un ibrido tra correttezza politica, rectius “valori”, e interesse particolare: mostro che compiace sufficientemente la superficialità contemporanea.
Mentre su Il nomos della terra sono rimasto per oltre un mese, Con Borges di A. Manguel mi ha preso poco più di un’ora. E’ piacevole come lo sono in genere le biografie per aneddoti. Di Borges e Bioy Casares ho letto successivamente i Racconti brevi e straordinari, pubblicato da Franco Maria Ricci, il cui gusto editoriale così barocco e femminile – stando a quanto riporta Manguel – provocava una gran irritazione a Borges.
Marco Zagni mi ha fatto avere tramite l’editore Mursia il suo ultimo libro, il corposo La svastica e la runa, che costituisce la prosecuzione più o meno esplicita del precedente Archeologi di Himmler (ed. Ritter). Probabilmente si tratta del testo più ricco di informazioni sull’Ahnenerbe pubblicato sinora in italiano; vi si possono trovare una gran quantità di riferimenti a fatti, biografie, riviste e case editrici, teorie, vicende storiche; i numerosi capitoli sono seguiti da documenti pertinenti e spesso tradotti per la prima volta. L’autore ha letto una gran mole di testi in diverse lingue e svolto una preziosa opera di riunione di materiale sparso. E’ davvero un peccato che nelle mani di Marco Zagni non sia capitato Deus Invictus di Franz Altheim, nella cui introduzione del prof. Giovanni Casadio l’autore avrebbe trovato elementi di straordinario interesse: non soltanto sul coinvolgimento dello stesso Altheim nell’operato dell’Ahnenerbe, ma anche sulle missioni all’estero che vennero pianificate e gestite dall’organizzazione di Himmler. La parte più curiosa del libro è quella in cui Zagni fa confluire le teorie e le ipotesi di lavoro degli studiosi Ahnenerbe e le esperienze della “ricerca di frontiera” odierna, per esempio con riguardo a certa archeologia sudamericana, lasciando intravedere alcune convergenze veramente curiose.
Traccio l’ormai solito aggiornamento delle ultime letture aggiungendo, questa volta, anche due titoli che avevo dimenticato di menzionare in precedenza: libri che avevo letto in estate e che, tra uno spostamento e l’altro, avevo finito per non appuntare. Si tratta dell’Hávamál, curato da Antonio Costanzo per Diana Edizioni, e di La terra dell’animadi Paolo Gismondi (Montedit).
Il primo è un breviario di teologia indoeuropea, e ancor più un insieme di norme comportamentali, massime etiche, interpretazioni magiche. Al tempo stesso, rispecchia in modo esemplare quella visione del mondo islandese di cui è uno dei più mirabili prodotti letterari. Particolarmente meritevole il lavoro svolto dal curatore, che ha applicato un metodo di lettura al tempo stesso attento ai dettagli filologici e alla comprensione del significato profondo, con numerosi e pertinenti paralleli con altri importanti testi indoeuropei, da Roma all’India.
La raccolta di Paolo Gismondi La terra dell’anima è un interessante viaggio personale in forma di poesia, con la peculiarità che l’autore si pone di fronte al mondo in modo radicalmente critico, giacché la sua prospettiva è quella di un tradizionalismo rigoroso. Alcune letture lasciano il segno sulla personalità. Chi si accosta al tradizionalismo negli anni della giovinezza, se è persona coerente, non può che accettare o respingere in toto il capovolgimento mentale, e in certa misura anche spirituale, che questo comporta; una simile rivoluzione interiore non è indolore, e l’equilibrio dato da tanti puntelli crollati deve essere ricostruito su nuove basi più solide. La terra dell’anima, a mio avviso, affronta con coraggio anche questi sommovimenti e il sorgere di una consapevolezza più dura e severa.
Ammetto di aver sempre subito il fascino delle copertine. Per mesi ho visto nella vetrina di una libreria il libro di Bruna Pompei Eugenio Wolk “Lupo” comandante dei Gamma della Decima Mas(Ritter), e l’immagine che vi campeggia ha continuato come un tarlo a incuriosirmi. Il volto di Wolk in tenuta da palombaro mi ha destato una tale simpatia che alla fine ho comprato il libro per leggere della vita avventurosa di Wolk. Particolarmente interessanti i dettagli dell’impresa della marina italiana a Gibilterra, corredati di foto e cartine che non avevo mai visto prima.
Sempre in tema di storia militare H.U. Rudel, Il pilota di ferro, in una vecchia edizione Longanesi; mi pare che il libro sia stato ripubblicato recentemente con un titolo modificato. E’ l’autobiografia dell’unico militare mai insignito della Croce di Cavaliere con Fronde di Quercia in Oro, Spade e Diamanti. Ferito gravemente più e più volte, sempre impegnato sul fronte dell’est, Rudel distrusse una quantità impressionante di carri armati, mezzi corazzati, navi, aerei e installazioni militari. Rimase integro anche dopo la catastrofe.
Mi è piaciuto il curioso Manuale di zoologia fantastica di J.L. Borges e M. Guerrero, di cui aveva scritto anche Alfonso Piscitelli sul sito, in un articolo intitolato Animali e uomini. Io ho letto però l’edizione Einaudi, il cui originale deve essere precedente, e lievemente più breve, rispetto a quella Adelphi. Questo libro che parla di curiosi animali fantastici, in larga misura nati dall’unione di animali reali, induce a singolari associazioni di idee.
Ho letto il brevissimo e meritevole libretto di Nino Codagnone, Lo strano naufragio del piroscafo postale Santa Lucia (Mursia), nel cui titolo forse si sarebbe potuto omettere l’aggettivo “strano”, giacché la storia di questo affondamento è certamente triste, ma non rappresenta un fatto eccezionale o raro in tempo di guerra.
Come per altri autori, anche con Adolfo Bioy Casares sono incappato in un libro (Un leone nel parco di Palermo, Einaudi) che raccoglie vari racconti, la maggior parte dei quali avevo già letto in altre antologie. Poi l’immancabile giallo di Simenon (Maigret e l’uomo solitario).
Infine, smentendo parzialmente quanto ho scritto poche righe sopra, devo aggiungere che talvolta leggo anche libri a dispetto delle loro copertine repellenti; al punto che ho letto Il grande viaggio in slitta di Knud Rasmussen (ed. Quodlibet), che nessuno sano di mente si sognerebbe di acquistare se si limitasse a giudicare dalle apparenze. In effetti questa casa editrice parrebbe voglia competere con Guanda nel triste primato delle copertine più oscene del panorama editoriale italiano.
Ad ogni modo si tratta di uno dei più bei racconti di viaggio e di esplorazione che mi siano capitati tra le mani. Rasmussen, danese nato in Groenlandia, fu uno degli ultimi grandi esploratori artici: condusse sette campagne di studi tra gli eschimesi, tutte sotto il nome di Thule, facendo scoperte di grande rilievo sotto il profilo etnografico. I suoi resoconti vengono accostati ai romanzi del Grande Nord di Jack London, e il paragone non è eccessivo.
Tra le curiosità annotate, Rasmussen notava con un certo stupore che i nomi dati dagli eschimesi ai loro villaggi nella Terra di Baffin e in America ripetevano in modo esatto quelli groenlandesi: si tratta dell’evidente conferma di un modello antropologico che si è ripetuto molte volte nel tempo, come ha dimostrato anche Felice Vinci con il suo Omero nel Baltico.
Getto il tredicesimo sassolino bianco, per tener traccia del mio itinerario attraverso le letture, annotando quelle degli ultimi cinquanta giorni circa.
Ho terminato Lernet-Holenia, con L’uomo col cappello e Avventure di un giovane ufficiale in Polonia. Il primo è particolarmente interessante; come in altri romanzi dello stesso autore la trama della realtà si sfilaccia, lasciando intravedere l’elementare o il mito (in questo caso quello nibelungico). Peccato che non mi resti altro tradotto in italiano.
Poi un paio di libri di puro svago: Luci nella notte di Simenon ed Esercizi di stile di Queneau, tradotto e introdotto da Umberto Eco – l’antipatia nei cui confronti mi aveva lungamente fatto desistere dalla lettura. Il semiologo sovrappeso conosce bene le figure retoriche, però almeno queste non riesce a piegarle al suo ghiribizzo buonista e politicamente corretto.
Ho letto con vero piacere, e nel luogo giusto – perché alcuni libri richiedono proprio un tempo e un luogo precisi per consentire la sintonia – L’onda del tempo e Percorsi d’acqua di Stenio Solinas, che tenevo da parecchio tempo, come due preziose bottiglie, a invecchiare in libreria. Da tanti anni apprezzo Solinas; credo sia una delle penne migliori del giornalismo odierno. Spesso i suoi articoli mi hanno reso meno penosa la lettura del quotidiano (quando leggo Il Giornale). Il fatto che entrambi i libri, poi, incrocino viaggi, nuoto e letteratura – e tanti autori che ho letto anch’io – me li ha fatti particolarmente apprezzare, ed è anche accaduto l’evento eccezionale che siano stati letti da alcuni familiari.
Poi il celeberrimo Settembre nero di Trizzino, che chissà perché non avevo mai letto, nonostante la sua importanza. A grandi linee quel che racconta – il tradimento dei vertici col grembiule della Marina durante la seconda guerra mondiale – mi era già noto, ma non lo avevo mai trovato spiegato in modo così semplice e dettagliato.
Dopo un altra minuta curiosità, i Romanzi in tre righe di Fénéon, ho letto la biografia di Fridtjof Nansen scritta da Jon Sörensen. Un po’ iperbolica nei toni, ma effettivamente la vita di Nansen è stata straordinaria. Mi affascina più l’esploratore del premio Nobel per la pace, ma è questione di inclinazione.
Poi la biografia di Joseph Goebbels di Viktor Reimann (ed. Ciarrapico), che nonostante l’inevitabile correttezza politica che gli deriva dall’essere stata scritta dopo la catastrofe riesce ugualmente a evidenziare, insieme ai limiti, la grandezza e la genialità del Ministro della Propaganda. Inoltre La repubblica di Mussolini di Felice Bellotti, che racchiude parecchie informazioni riservate – non so però quanto affidabili – sui retroscena di Salò. Ma prevale, nel leggerlo, il dispiacere nel constatare come un uomo che ha indossato le doppie rune scriva con acrimonia e persino disprezzo di tanti suoi camerati che, solo due anni prima, sono caduti per quello stesso ideale che lui invitava strenuamente a difendere dalle colonne di Avanguardia. Ottimo, poi, Infierire di Anna K. Valerio (Edizioni di Ar), che mi è stato prestato. Di solito non apprezzo molto i libri scritti da donne, ma qui c’è da restare stupiti per un gusto della radicalità oggi sempre più raro.
Adesso sto terminando La scoperta del polo nord di Robert E. Peary: l’americano che alcuni considerano il primo ad aver raggiunto quel punto dove tutti i venti spirano da sud e vanno verso sud, sebbene sia assodato che, in buona fede o meno che fosse, non vi giunse mai. Purtroppo, nonostante la bellezza (e rarità) del libro, il testo è molto meno appassionante di altri resoconti di spedizioni artiche, come Fra ghiacci e tenebre di Fridtjof Nansen o La stella polare nel mare artico del Duca degli Abruzzi.
Ultimamente ho letto diversi libri interessanti, cominciando con il celebre Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki. Non solo il libro, ma anche la sua storia e quella del suo autore sono tanto singolari che hanno attratto l’attenzione di molti critici e studiosi. Non penso che ci sia granché di originale da poter aggiungere su questa intricata vicenda: ci si può anche limitare al piacere di una lettura insolita e avvincente.
Complice una certa pigrizia mentale che spero dovuta alla stagione ho limitato le letture alla narrativa, con l’unica eccezione de I più importanti disastri navalidi Kenneth Barnaby (Mursia): un libro piuttosto datato ma ancora interessante, per il taglio tecnico che lo caratterizza e per l’autorevolezza che ai suoi tempi il libro e l’autore mi pare abbiano avuto.
Lernet-Holenia ha grandi pregi. Un bello stile, preciso ma non pedante; ambientazioni accurate, che spaziano in molti luoghi, ma in particolare nell’Europa centro-orientale, e in poche epoche – dalla Francia rivoluzionaria de Il signore di Parigi al Venti di luglio, quello dell’attentato a Hitler (può darsi che nei testi che non conosco vi sia qualche eccezione, ma la gran parte delle vicende si svolge poco prima, durante e poco dopo la Grande Guerra). Oltre al Barone Bagge, di cui ho già scritto, ho particolarmente apprezzato Lo stendardo e Un sogno in rosso; in quest’ultimo compare anche il leggendario barone Von Ungern-Sternberg. Lo stendardo è quello in cui più chiara appare la fine di un’epoca, o meglio di un mondo; ed è quello che, a mio avviso, consente di inquadrare il suo autore, volente o nolente, ai margini della Rivoluzione conservatrice.
Poi, con lo stesso e consueto intento di completezza ho proseguito nella lettura di Borges e Bioy Casares, leggendo del primo Il manoscritto di Brodie, del secondo Un viaggio inatteso e Con e senza amore e, dei due, le Cronache di Bustos Domecq. Quest’ultimo offre esempi e strumenti di ironia che ben si potrebbero impiegare, oggi, contro la cricca di sacerdoti del politicamente corretto.
Poi due libri su un celebre episodio, tra storia e mito, della guerra civile spagnola, L’assedio dell’Alcázar (di C. Eby) e Morire all’Alcazar di T. Ciarrapico, che è evidentemente debitore del primo. Nonostante quel che diceva Adriano Romualdi del film fascista su questo episodio storico (io lo vidi da bambino e mi sembrò entusiasmante) mi pare che la vicenda sia così emblematica da poter ancora alimentare libri, racconti, sogni ed entusiasmi.
Con due libri dovrei aver terminato la lettura di altrettanti autori: Knut Hamsun, di cui ho letto la commedia Sulla soglia del regno (pubblicato in italiano nel 1927 da Alpes e mai più ristampato) e Gustav Meyrink, con il recente Il cardinale Napelluspubblicato da SE; era già uscito in italiano una trentina d’anni fa ma quell’edizione si trovava solo a prezzi indecenti. Dopo averlo letto, mi rendo conto che probabilmente sarebbe valso la spesa anche in passato; i tre racconti che lo compongono sono quasi perfetti.
In realtà, sulla completezza di Hamsun mi resta un dubbio: stando alla bibliografia che ne avevo redatto a suo tempo, nel 1899 venne pubblicato dalle ed. Remo Sandron Era pazzo?, che non sono mai riuscito a procurarmi; però mi pare di aver constatato, in passato, che si tratti di una traduzione sotto diverso titolo di Misteri.
Ho preso congedo da questi due autori piuttosto a malincuore. Certo, posso tornare a leggerli – e prima o poi lo farò – ma la prima lettura e il gusto della scoperta che le è proprio ormai non sono più possibili.
La maggior parte delle mie ultime letture sono procedute a coppie di libri. Al Manifesto antimoderno di Luigi Iannone, di cui ho riferito nell’ultimo post, ho associato il breve L’ora che viene. Intorno a Evola e Spengler, un interessante volumetto a più mani pubblicato alcuni anni fa dalle Edizioni di Ar (articoli di Ingravalle, Damiano, Di Vona, Scandoglio e Buttafuoco). Interessanti le osservazioni sulla continuità di pensiero da Eracito ai neoplatonici sino a Goethe e Spengler. Inoltre, di Franco Freda, L’albero e le radici, sul cui tema avevo già letto anni fa Il Fronte Nazionale. Col passare degli anni la preveggenza di ciò che sarebbe avvenuto viene tragicamente confermata.
Ho anche letto un classico, Cuore di tenebra di Conrad, che credo sia il suo romanzo più celebre, al quale fu anche ispirato Apocalypse Now. E’ tecnicamente perfetto, come si dice, ma mi ha un po’ deluso. Gli si potrebbe accostare Il barone Bagge di Alexander Lernet-Holenia, che presenta qualche elemento in comune: il protagonista, in entrambe i casi, riferisce una vicenda occorsagli nel passato, che lo ha profondamente segnato. Questa si situa in un territorio ai confini tra realtà vivida e onirica; la morte e la vita sono tortuosamente intrecciate. Lo stile di entrambi gli autori è notevole; quello di Lernet-Holenia mi è particolarmente congeniale – mi riprometto di leggere prossimamente altre sue cose.
Ho proseguito con la storia di guerra navale con Le navi fantasma di M. Poggi, avvincente racconto delle imprese corsare tedesche durante la Grande Guerra, e con Skagerrak! di Kühlwetter, sull’omonima battaglia del 1916 (che gli Inglesi chiamano dello Jutland). E ancora: R. Humble, Le navi del Terzo Reich (ed. Albertelli), che ripercorre la storia della guerra di superficie tedesca sino al suo tragico epilogo.
Poi due bei libri di Franz Altheim: Dall’antichità al medioevo (ed. Sansoni) e Deus invictus (ed. Mediterranee). Il prof. Giovanni Casadio, introducendo il secondo, segnala la spiacevole abitudine di Altheim di rielaborare intere parti di suoi libri o persino di riproporle immutate in altri testi. Ho dovuto riscontrare che è vero, ma devo aggiungere che questo è il principale rilievo che si possa muovere ad Altheim. La vastità delle sue vedute è prodigiosa; la capacità di cogliere nessi in tempi e spazi lontani mi ha lasciato uno stupore paragonabile a quello che provai, tanti anni fa, leggendo per la prima volta Rivolta contro il mondo moderno.
Dopo un consueto intermezzo simenoniano (L’amico di infanzia di Maigret) ho trovato nei racconti di Notte di Dalmaziadi Friedrich-Georg Jünger (ed. Herrenhaus) un gradevolissimo contraltare alle opere del fratello. Alla conferenza della associazione Eumeswil a Firenze cui avevo partecipato l’anno scorso, il prof. Crescenzi aveva evidenziato la complementarietà tra i racconti di viaggio dei due fratelli. Ne ho avuto conferma, e mi spiace che così poco sia pubblicato in italiano di Friedrich-Georg.
Per mantenere il “passo doppio” ho letto due libri di Chuck Palahniuk (Survivore Gang bang), che seguono la classico linea pulp di questo autore. Sono entrambi iperboli di un’iperbole, quale è la società americana; ne origina un viaggio nell’assurdità più radicale, che ha però sconcertanti punti di contatto con la realtà.
Infine, “solitario” perché non abbinato ad un altro libro, Addio, «Malyghin»! di Umberto Nobile, lo sciagurato comandante della spedizione del dirigibile Italia. Dopo il disastro in cui antepose la salvezza di sè e del suo cane a quella dei suoi uomini continuò a comportarsi come era da prevedersi, dapprima voltando le spalle a quella patria che gli aveva dato il comando e amoreggiando con USA e URSS, poi divenendo deputato comunista. Nonostante le inevitabili riserve che l’uomo suscita, il libro riflette una passione per l’Artico che mi pare sincera. Oltretutto il viaggio in questione ebbe per meta la Terra di Francesco Giuseppe, il luogo ove si svolsero alcune delle imprese polari più avvincenti (Weyprecht e Payer, Nansen, Albanov, Duca degli Abruzzi). Malyghin è il nome della nave sovietica su cui si imbarcò Nobile.
Nelle settimane passate ho letto un saggio interessante di Luigi Iannone intitolato Manifesto antimoderno(Rubbettino). Per la varietà dei temi trattati e la densità delle considerazioni e dei rimandi che racchiude (in poco più di centosessanta pagine) è difficile, o quasi impossibile, tentarne una recensione esaustiva, che dia cioè conto di tutte le questioni sollevate. Mi limito quindi, più modestamente, ad alcune considerazioni sorte dalla mia lettura.
Come rivela il titolo, oggetto del libro è la modernità. Effettivamente l’autore attua una critica serrata ai fondamenti filosofici, storici, materiali e spirituali del moderno, tanto nella sua totalità quanto nei suoi elementi costitutivi; ma parte dalla consapevolezza che è impraticabile ogni passatismo. Questa è un’impostazione condivisibile: la semplice riproposizione di schemi ormai travolti da nuove idee vittoriose è tragicamente destinata alla sconfitta, e ancor più ogni forma di mitificazione di un passato puramente astratto e ideale, secondo il modello rousseauviano variamente declinato. È però anche vero che la ripresa del passato in chiave mitica è stata operata tante e tante volte nella storia, sin da epoche molto remote. Ancora in età imperiale avanzata era diffusa tra i Romani una (ri-e)vocazione dell’epoca repubblicana che, in forme assai diverse, avrebbe costituito la cifra anche del Rinascimento, poi dell’arte neoclassica e, ancora successivamente, persino della tendenza predominante nell’architettura di alcuni regimi totalitari; e gli esempi si potrebbero moltiplicare con molti altri riferimenti, anche extraeuropei. Forse sarà nuovamente concepito un legame ideale con il passato, magari arcaico, capace di spingerci, con una forma definita, nell’avvenire.
Il libro si costituisce di quattro capitoli, dedicati al disagio della realtà, alla morte della bellezza, a tempo e storia e alla Tecnica. Forse l’ultimo dei temi è il primo per rilevanza, come viene riconosciuto da tanti filosofi contemporanei, e come venne messo in luce da alcune tra le menti più acute della Rivoluzione conservatrice tedesca, cui Iannone ha dedicato lunghi studi (Jünger, Schmitt, Heidegger, Spengler ecc.). Dai tempi dell’Operaio jüngeriano la Tecnica sembra però aver mutato volto, o meglio aver mutato il volto del mondo da essa mobilitato; lo Stato mondiale che sta affermandosi in modo (almeno apparentemente) inesorabile è speculare a quello preconizzato da Jünger, essendo a tutti gli effetti un matriarcato – come “valori”, estetica e visione del mondo. La Tecnica ha cioè effettivamente forgiato una nuova Figura, ma più che di Operaio sembra trattarsi di Consumatore.
A proposito di Figure, sono molto interessanti le considerazioni di Iannone sul Partigiano schmittiano, che pare divenuta la caratteristica fondamentale dei conflitti contemporanei. L’inimicizia totale che ne è la caratteristica, con il conseguente travolgimento di quei limiti che caratterizzavano le guerre normate dallo jus publicum europaeum, ha invaso ogni angolo del mondo, con risultati di ferocia abissale divenuti ormai quotidiani; e persino il dilagare di episodi aberranti di cronaca nera sembra inserirsi in questa stessa logica.
Anche riguardo l’eclissi del sacro, su cui Iannone si sofferma, potrebbe valere la considerazione che non ha senso tentare di rianimare i cadaveri. Ma d’altra parte appare probabile che il sacro torni comunque a manifestarsi con impeto, se è vera la considerazione di Mircea Eliade che il sacro è condizione della stessa esistenza umana: solo la totale de-umanizzazione potrebbe portare alla perdita completa del sacro (ma, a mio avviso, dovrebbe trattarsi di una de-umanizzazione in senso completamente regressivo e animalesco). E’ vano tentare di preconizzare quali forme il sacro possa assumere in futuro; è però verosimile che un’enorme crisi spirituale, come l’attuale, possa propiziarne la riaffermazione.
Il lettore del Manifesto antimodernosi troverà ad osservare i problemi caratteristici della modernità in maniera particolarmente cruda e radicale, e talvolta ancor più di quanto non fosse già portato a fare per indole o formazione: già questo è sufficiente a consigliarne la lettura. A ciò si deve però aggiungere che l’autore ha un’eccezionale capacità di analisi, una grande forza espressiva e arricchisce il suo testo con innumerevoli rimandi e consigli di approfondimento più o meno impliciti: chi osservi il mondo con autentico interesse troverà quindi in questo libro un riferimento tanto prezioso quanto raro nell’editoria odierna.
Torno a tracciare un breve resoconto degli ultimi libri letti, “a futura memoria”.
Assecondando il mio folle piano di completezza (cioè di leggere gli autori che mi interessano integralmente) ho proseguito con Bioy Casares (Diario della guerra al maiale), Conrad (Il passeggero segreto e Domani) e Poe (Il giocatore di scacchi di Maelzel). Per quanto riguarda quest’ultimo autore non sono a mio agio con la sua bibliografia completa. Ho diverse raccolte dei suoi racconti, ma in buona parte vi si trovano gli stessi pezzi, pur se in traduzioni diverse. Fatti salvi i saggi di critica letteraria e gli articoli giornalistici credo di aver (purtroppo) ormai letto tutto quel che scrisse. Il volumetto sul giocatore di scacchi automatico non ha aggiunto granché; ne potrei consigliare la lettura soltanto a chi si trovi nella mia situazione, cioè abbia desiderio di leggere qualcosa di Poe che ancora non conosceva.
In Conrad trovo sempre, contemporaneamente, qualcosa di affascinante e qualcosa di deludente. Quel che non mi piace è probabilmente l’aspetto che più solletica i critici letterari. La prolissità di certe descrizioni paesaggistiche e la cura nell’investigazione psicologica sono tecnicamente perfette, ma mi coinvolgono poco; quel che mi affascina è l’aspetto meno letterario, l’essere cioè l’ultimo rappresentante di una tradizione di racconti di avventure marinare (notevole sotto questo profilo Gioventù, pubblicato con Il compagno segreto).
Il libro di Bioy Casares è gradevole, bizzarro quanto gli altri, ma certo non il suo migliore.
Ho ricevuto dall’editore e letto con interesse il saggio di Caniatti Legione SS italiana; si trovano qua e là alcuni dati interessanti, mescolati però a cose decisamente discutibili (lunghe digressioni sulla memorialistica resistenziale, che non vedo che interesse possano rivestire per chi legge un libro su questo tema). Per la maggior parte si tratta di un collage da altri libri sull’argomento abbastanza noti e diffusi, soprattutto quello di Ricciotti.
Poi sono tornato ai resoconti di viaggi avventurosi con quattro libri interessanti.
Naufraghidi Victor Slocum è considerato un classico da molti autori; merita questa fama perché narra in modo essenziale e coinvolgente alcuni tra i più clamorosi disastri navali del passato, alcuni dei quali mi erano ignoti.
Crociera crudeledi Henri Bourdens (pubblicato da Mursia, come anche il precedente) è invece, a mio parere, il resoconto di un naufragio annunciato. L’autore era un ex pilota francese con la passione della vela, che intorno agli Anni ’70 si era messo in testa di fare una traversata attraverso un vasto braccio di mare nel sud-est asiatico insieme alla moglie. Ma tali e tante furono le imprudenze e le leggerezze, che l’avventura si concluse ben presto su un’isoletta disabitata al largo dell’Australia, dove i due per poco non morirono di stenti.
Di ben diverso tenore Il naufragio della “Hansa” di A. Fabietti, che narra in modo molto semplice e “popolare” la storia drammatica della spedizione artica tedesca. Il dramma in realtà non si consumò sino in fondo; a seguito del naufragio nessuno dell’equipaggio perse la vita, sebbene per mesi gli uomini dovettero sopravvivere sul pack alla deriva in condizioni assai precarie.
Infine ho letto con grande piacere In mezzo ai ghiacci. Viaggi celebri al Polo Nord, che raccoglie i resoconti di alcune celebri spedizioni della seconda metà dell’Ottocento, tutte compiute sulla costa occidentale della Groenlandia, con l’eccezione della celebre spedizione della Tegetthoff di Weyprecht e Payer, la cui vicenda è stata raccontata magistralmente nel romanzo di Christoph Ransmayr Gli orrori dei ghiacci e delle tenebre.