“Ciò che facciamo in vita riecheggia nell’eternità”. Il Gladiatore, il nuovo film di Ridley Scott (autore, tra l’altro de I duellanti e Blade Runner) rievoca le vicende del principato romano tra la morte di Marco Aurelio e quella di suo figlio Commodo (fine del secondo secolo dopo Cristo) attraverso gli occhi di Massimo (Russel Crowe), immaginario generale romano d’origine spagnola, veterano di mille battaglie e assai amato dalle legioni. Dopo decenni di silenzio, il genere cosiddetto peplum torna così significativamente all’attenzione del grande pubblico.
Sebbene si avverta chiaramente che il film è americano – e non tanto nelle numerose inesattezze storiche e negli anacronismi, quanto nel ricco uso di effetti speciali, ricostruzioni al computer e nello spazio dato alla vicenda emotivo-sentimentale dei personaggi – non mancano numerosi elementi interessanti, che possono anche essere letti secondo una prospettiva “simbolica”. Va riconosciuto, in ogni caso, che questa pellicola torna a offrire al pubblico, dopo Braveheart, emozioni e scene di battaglia di estrema potenza suggestiva, capaci di far rivivere con trasparenza anche i momenti più crudi degli scontri di eserciti e le loro più intense sensazioni.
A rendere affascinante ai nostri occhi il film è che si trova ambientato in un’epoca di crisi, tanto analoga alla nostra: sebbene le strutture della società paiano salde e robuste e l’impero si estenda ai più lontani confini, si avvertono, come crepe in una parete, i segnali del crollo imminente. Mentre le strutture vacillano, con esse vengono a mancare anche i saldi punti di riferimento dati dalla tradizione e dal culto degli avi: pochi mantengono fede agli antichi valori e ideali. Mentre Commodo si macchia per brama di potere di parricidio (che i Romani, va detto, punivano con la singolare sanzione del culleum, il sacco con gli animali) il suo alter-ego Massimo rifiuta di passare al suo servizio. Conoscerà così il dolore e l’umiliazione, e in un’autentica “discesa agli inferi” si vedrà costretto a una sorta di “morte iniziatica” prima di poter tornare, dopo un lungo processo, a riaffrontare il suo nemico. La sua è una via guerriera: è solo con le armi in pugno e il coraggio indomito che può sopravvivere alle prove più estreme. E allo stesso modo i toni della vicenda sono quelli corruschi tipici di una saga nordica, con il loro pathos drammatico e con la figura centrale dell’eroe coraggioso.
Mentre nella società romana dilagano il malcostume e la corruzione, è nel nocciolo antico del Senato che si conservano ancora gli antichi valori tradizionali dei patres che diedero origine alla civiltà latina: ivi resiste l’arcaico retaggio indoeuropeo, e molto significativamente il senatore tradizionalista Gracco viene ripreso nel suo orto, nell’atto di cibare le oche sulla sua terra: allo stesso modo, il più grande legame del generale Massimo è quello per la famiglia e i suoi campi. Furono proprio il venir meno delle virtù agrarie e contadine e il diffondersi della libera circolazione della terra, secondo alcuni storici, le ragioni principali della crisi e dell’involuzione della società romana antica. Pregio del film, va riconosciuto, è il non essere caduto né nel facile arbitrio della rievocazione a senso unico di Roma antica, né nel suo dileggio preconcetto. Anzi, secondo un’interpretazione piuttosto risalente (si potrebbe citare addirittura lo studioso ottocentesco J. J. Bachofen), vengono evidenziate due diverse anime di Roma: una “solare”, virile e guerriera, quella appunto incarnata dall’aristocrazia senatoria, dall’esercito e dall’imperatore-filosofo Marco Aurelio, e una “lunare”, matriarcale e oscura, dedita agli intrighi di palazzo, alle congiure, ai tradimenti e incline alle seduzioni del popolo. È proprio questa seconda “anima” quella che tanto tiene a panem et circenses, che costituiscono l’“ideale nuovo” propagandato a gran voce da Commodo.
Così, sebbene il film presenti gli accennati limiti, scenici e storici (per esempio, mai si sarebbe visto un antico romano pregare i penati in ginocchio, o usare una balestra), non gli si può negare un fascino peculiare, quello di riuscire a ripresentare in chiave moderna e così attuale un periodo storico per molti aspetti tanto simile al nostro, e di farlo attraverso un significativo e studiato intrecciarsi di suggestioni simboliche.
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